mercoledì 26 gennaio 2011

Mi chiedo:

Mi chiedo: quando ci si trova davanti a una qualsiasi opera d'ingegno, che cosa scatta davvero prima di apprezzarla o disprezzarla? Un piccolo apparato mnemonico di elementi critici acquisiti nel tempo sul bello, sul giusto, sul funzionale, sul sorridente, rabbrividente, suadente, fendente? E accostati e traslati a volo nel corso di quella esperienza? Un campanello che suona e mi avverte di quello che sia giusto apprezzare, anche se non lo si capisce? Non ho ancora capito cosa vuol dire capire un prodotto di arte. È come capire il cioccolato bianco, il vino di una particolare riserva, un bel sedere, un bello sguardo ancora assonnato? O c'è dell'altro? O qualcosa che non si può dire, ma soltanto avvertire?
Ho aspettato anni prima di aprire "La Montagna incantata" di Thomas Mann. L'ho aperto in una mattina prestissimo, di alba e di grigiori, senza nemmeno capire il perché. Dovevo intrattenermi in qualcosa, l'ho fatto perché forse non mi andavano i notiziari tv o i cartoni del mattino. L'ho aperto senza volerlo, perché volevo trovare il momento adatto e involontario per incontrarlo, dimenticando tutto quello che avevo sentito sul suo conto, e cercando di accostarmene nel disagio assoluto di un libro assolutamente oscuro, che non avesse alcuna risonanza esterna se non le pareti e il paesaggio del sanatorio. È solo attraverso questa strada che l'ho sentito davvero e che vi sono entrato dentro, come un tisico, nella tosse e nelle bellissime mattine azzurre di Castorp.
La sfera di approccio con un linguaggio artistico, andrebbe vissuta in un'arnia preconcettuale, senza rimanere sull'orlo, ma mettendo tutto il braccio nell'acqua, fino alla spalla e semmai entrare dalla parte delle gambe e ficcarci anche la testa sotto, e non respirare più. Cosa avrei ottenuto ricordando le parole di mio padre sull'opera? O quelle di qualsiasi altro critico o lettore? Lo avrei letto con gli occhi delle loro parole, rimanendo troppo soleggiato da quell'esperienza e ancora seduto e rimbambito sulla riva. Le parole vengono dopo. L'arte le supera, le assorbe, le include, le esclude, le elude. Alcune opere vanno accostate come labbra o come lebbra, o come porzioni di cibo, o di acqua ghiacciata dopo una corsa, o come un sorriso inatteso, un insulto telefonico, uno schizzo di olio bollente sul braccio nudo, un grande lunghissimo abbraccio profumato che ti spezza il fiato, mi chiedo.


0 commenti: