mercoledì 27 aprile 2016

Ernst Bloch e l'affetto arioso della docta spes


Lungo il bellissimo corso esplorativo di Hans Küng, affrontato nel suo denso e intrigante "Dio esiste?", mi ha molto colpito questo approccio così singolare alla speranza professato dal filosofo marxista eterodosso Ernst Bloch, che pur dalle regioni del suo atesimo, rivela dei momenti generosi e fulminei di vastità, come alternativa secca al nichilismo e alle sue asfittiche dottrine:

"L'importante è imparare a sperare. Il suo lavoro non delude, tende al successo e non al fallimento. Lo sperare, che supera il timore, non è passivo come questo e nemmeno prigioniero del nulla. L'affetto dello sperare trascende se stesso, dilata gli uomini invece di restringerli, può persino non tenere sufficientemente conto di ciò che li finalizza internamente e di ciò che li condiziona all'esterno. Il lavoro di questo affetto richiede uomini che si gettino attivamente dentro il divenire di cui essi stessi fanno parte. Esso non tollera una vita da cani, che si sente gettata solo passivamente nell'essere, in un essere inesplorato, riconosciuto persino miserabile. Il lavoro contro l'angoscia esistenziale e le manovre della paura è rivolto contro i responsabili di esse, in gran parte ben identificabili, e cerca all'interno del mondo cio che è in grado di aiutare il mondo – e può essere trovato. Quanto si è sempre sognato che una vita migliore è possibile! [...] Gli uomini, come il mondo, hanno una sufficiente quantità di buone prospettive; nessun progetto è buono senza questa fiducia fondamentale in esso".

Ernst Bloch






















domenica 24 aprile 2016

"La compagna di classe": risonanze di un'interrogazione




Nelle ultime fasi, quelle tipiche di rifinitura di un lavoro che ci ha tenuti impegnati per molto tempo, si avvertono diversi mutamenti e suggestioni, che spesso sono fatti di ombre o di quel sottile filo d'aria o spiffero che non si capisce da dove provenga, ma che insiste a farsi vivo. 
Nel caso de "La compagna di classe", progetto a cui manca davvero pochissimo per vedere la sua prima luce – gli ultimi ritocchi di color correction e qualche altro particolare nei titoli di coda – queste ultime ore sono state caratterizzate da diversi elementi di riscoperta del senso profondo di questo viaggio, che nelle fasi precedenti forse mi erano sfuggiti. Come se in dirittura finale questo film mostrasse per la prima volta il profilo delicato di un suo nuovo mistero, dove ogni rielaborazione emotiva del processo creativo ritrova una sua inspiegabile e indimenticabile risonanza sentimentale. Ed è proprio in questa risonanza che il nastro di questo viaggio mi ha rapito, attraverso le ombre della sua genesi, della sua urgenza di esserci e di amarmi, in ogni caso. Eppure dopo tante visioni diverse e molto tecniche della struttura, ci si dovrebbe un po' abituare agli effetti del temporale che un processo creativo ormai concluso e definito dovrebbe in qualche modo scatenare, nel bene o nel male, in chi lo accosta per la prima volta. Ma per me non è stato così. Per fortuna, direi. Sono rimasto sotto questo film sempre impreparato e senza l'ombrello, così come mi accadde il mio primo giorno di prima media, dove esplose un temporale improvviso e inatteso, che mi colse impreparato come un'interrogazione non prevista.
Se dovessi sintetizzare quello che succede in questa storia, dovrei partire e finire con qualcosa che riguarda un processo problematico e orgasmico di sinestesia. Tutto si muove e si disfa e si rinnova in un mondo incerto e incantato di sensazioni, di incontri controversi (e un po' mancati) tra sfere sensoriali, che dal linguaggio comune entrano e attraversano colori, sentimenti, risonanze e luminescenze di altri piani prospettici, ma nello stesso tempo compatibili e concilianti con i tempi e gli spazi di questa struttura sospesa nei ricordi e nella nostalgia di quello che non è più stato, e che in qualche modo ci definisce e ci rapisce molto più di quello che è stato o che a volte è. Rimanendo innamorati delle nostre assenze, dei nostri passi incompiuti e di tutto il perduto, forse perchè sono proprio loro ad amarci e a definirci...molto di più di qualsiasi altra cosa acclarata, compiuta e conclusa, che quasi mai si intinge di indimenticabile.
Le immagini soffiate e statiche de "La compagna di classe" partono e si avvincono in una forma sottile e stregante di innamoramento del linguaggio e lo stesso linguaggio si smuove e rievoca altre immagini, suoni, colori, rifrazioni quasi sul punto di sgretolarsi, proprio come nell'ansia di ricompattare dentro di noi delle pagine strappate durante un'interrogazione disastrosa. Tema portante di questo strano poliedrico apparato rimane un ricordo doloroso e tentacolare in cui perdersi, radicato come una quercia secolare nella storia, ma disteso nelle ombre del film come dell'aria d'aprile che filtra da una finestra socchiusa e che ci sfiora la nuca. Quel tanto per smuovere un filo di capelli sul viso assonnato di una compagna di classe, lontana lontana...ma non ancora sfumata.

l.s.



























venerdì 22 aprile 2016

An afternoon of cello lessons with Anner Bijlsma

































mercoledì 20 aprile 2016

"La compagna di classe": locandina ufficiale e data dell'anteprima



Questa che vedete è la locandina ufficiale del film "La compagna di classe", la cui anteprima è stata fissata per domenica 15 maggio alle ore 22.00, all'interno della rassegna Movie e Cosplay di Latina Comics.



















martedì 19 aprile 2016

"La compagna di classe": due ipotesi di locandine















domenica 17 aprile 2016

Bernardo Bertolucci parla di Ingmar Bergman

































venerdì 15 aprile 2016

Estratto da "L'ora grigia o L'ultimo cliente", di Agota Kristof





[...]Musica proveniente dalla stanza vicina. Qualche accordo abortito, come un sussulto che finisce in un comico singhiozzo.

LEI (teatrale) E certe sere il silenzio sarà nero come nei giardini solitari dell'infanzia; e certe sere la luna scivolerà sui tetti della città;  una volta il vento entrerà dalla finestra aperta portando un odore di terra bagnata; e una notte la pioggia batterà sui vetri e mi sembrerà allora che le gocce siano le mie lacrime. E ci saranno notti d'inverno con i fiocchi di neve che vorticano intorno al lampione, e queste notti saranno le più solitarie perché mi porteranno la certezza della tua morte.

LUI (asciugandosi rapidamente una lacrima con un dito) Così, per anni e anni. [...]

Agota Kristof








martedì 12 aprile 2016

Il terreno di gioco


In ciascun percorso, definibile più o meno di natura artistica o comunque di tipo creativo, esiste sempre un terreno di gioco, con le sue caratteristiche di sorta, la sua estensione, la sua docilità o pietrosità al passo, entro e attraverso il quale si delinea il perimetro di un'esistenza, esistenza creativa di chi decide di mettersi in gioco, il suo destino di gioco, direi. Terreno con il quale vanno fatti i conti, inesorabilmente, perché è lo spazio necessario di interazione e di realizzazione di un certo moto di espansione assolutamente personale.
Non credo che sia così facile individuare la giusta ampiezza del mondo e del territorio entro il quale si decide di giocare. Spesso la consapevolezza del tipo di territorio diventa un elemento cruciale per tutto il percorso, allo stesso modo dell'inconsapevolezza dello stesso. Questo terreno di gioco non è solo un luogo concreto dove organizzare i tempi e i luoghi del nostro viaggio, ma è anche un prolungamento delle nostre personali caratteristiche, o attitudini di base, forse perché in qualche modo se ci troviamo lì vi sarà comunque una ragione che ci riguarda. Qualcosa che ha fatto sì che il nostro gioco e il nostro terreno abbiano incontrato proprio noi. 
Molte volte si osservano con ostinazione i territori di gioco degli altri, come se fossero i propri; e allo stesso modo le dinamiche e i comportamenti dei giocatori inseriti in quei territori, come se fossero identici a noi, come se fossero noi.  Osservare un altro territorio di gioco con un altro giocatore, come se avessero le stesse caratteristiche del nostro territorio e della nostra persona, diventa spesso un elemento di disturbo e di annebbiamento, che offusca e che confonde, ma è che molto comune, soprattutto nel ricercare un punto preciso entro il quale individuarsi lungo la tabella di marcia rispetto al percorso degli altri. (Verso cosa e verso chi, poi? Non è forse il gesto creativo, e tutta la sua economia, a rappresentare una sorta di meta, o comunque di viaggio appagante e personale?)
Misurarsi sempre su terreni del tutto diversi dal nostro, battuti da giocatori del tutto diversi da noi, lo trovo un intento suicida, ma questo intento è perseguito con molta naturalezza, come se tutti ci trovassimo sempre nelle stesse identiche condizioni nel metterci in gioco: nello stesso terreno, con lo stesso clima, la stessa esposizione ai venti, la stessa latitudine. Spesso si pensa di non essere mai all'altezza di quel dato percorso individuato in qualcun altro, come se quel dato percorso fosse stato fatto da una persona identica a noi nelle condizioni identiche a quelle nelle quali sentiamo di aver fallito.
Converrebbe forse, penso, dedicarsi al proprio terreno di gioco, semmai anche alla sua estensione, al renderlo semmai meno pietroso per i nostri personali calcagni, o al limite rendere i nostri personali calcagni più resistenti per un terreno pietroso e poco docile. Lavorare sulla consapevolezza dei propri limiti e delle personali caratteristiche, rimarrebbe imprescindibile per muoversi con lucidità in un proprio movente, intento artistico, creativo che sia, senza essere ottenebrati dalla disperazione di essere meno, o dall'esaltazione di essere più, quando si è semplicemente altro. Quando si è limitatamente – ma anche smisuratamente – armonizzati alla storia della nostra natura e al suo mistero, quindi al nostro senso di rotta, come alla nostra verità di gioco. Secondo me:

l.s.










domenica 10 aprile 2016

Arianna Scommegna



























venerdì 8 aprile 2016

Khatia Buniatishvili plays Chopin































giovedì 7 aprile 2016

Senza ombrello


Ritornando a casa e sorpreso da un filo di pioggia, mi sono sentito misteriosamente sintonizzato a tutti gli altri che come me non avevano portato l'ombrello. Una sorta di comunione e accordo silente che ha  accompagnato gli ultimi tratti del mio percorso con questa condivisione minuscola tra sconosciuti. Tutti quelli con l'ombrello erano uguali e anonimi. Chi si bagnava di quel filino di pioggia serale, tradiva invece il dolore di una sua diversità, un segno di trasgressione delicato tra perdenti. Come un distintivo di sconfitta ma anche di lieve, indimenticabile libertà.

l.s.























domenica 3 aprile 2016

"La città vuota": shooting del 3 aprile


Fabio Pasquini

















Altri scorci di set da "La città vuota" (2 aprile 2016)



Giada Tosto, Thomas Battista e Stefano Petti 


Stefano Petti, Alessandro Fiordelmondo, Giulio Ciancamerla

Giulio Ciancamerla e Stefano Petti
Alessandro Fiordelmondo

Alessandro Fiordelmondo e Giada Tosto



Tavolata del sabato sera





















sabato 2 aprile 2016

"La città vuota": pausa pranzo dallo shooting del 2 aprile 2016



Stefano Petti, Giulio Ciancamerla, Fabio Pasquini,
Cristiana Fasano, Thomas Battista, Giada Tosto,
Alessandro Fiordelmondo.