martedì 31 maggio 2011

Riflessioni prima di un'uscita di romanzo

Ho da poco concluso le ultimissime decisioni sul testo. Il 6 giugno Il Disabitato sarà disponibile, inizialmente in formato elettronico, ma con una distribuzione incoraggiante, organizzata dall'editore con un criterio, e che spazierà da Bol, Ibs, Libreria Universitaria, fino a Feltrinelli, Simplicissimus, Abebooks, Mediaworld.
Sono contento quanto ansioso. Un testo dove non puoi più intervenire,  comincia ad appartenere a un'altra sfera. Ad essere ammantato da una luce diversa, che non sempre ti permette di vederlo e di sentirlo come lo hai visto e lo hai sentito fino all'ultimo attimo prima di chiudere le tue possibilità di intervento. 
Per alcuni un testo comincia a vivere davvero quando incontra il suo lettore. Sono d'accordo. Senza lettori non si esiste. Non c'è nulla. Vi saranno tanti romanzi diversi, nello stesso, per quanti occhi e per quanti lettori incrocieranno lungo il proprio percorso. La fase di impotenza, di uno scrittore che ha messo un punto - nel mio caso ho scelto di utilizzare, in finale di lavoro, i due punti. Per una serie di motivi, per un omaggio affettuoso a un poeta che amo, e perché in fondo non esiste mai una fine definitiva. Così come non esistono inizi definitivi. La storia che si racconta, rappresenta un taglio, una prospettiva di visione, una possibilità. Non: la possibilità. Mi piace lasciare sempre delle aperture, degli spiragli. La mia sensazione, nell' aver comunque concluso un lavoro, messo comunque un punto – ma anche i due punti al mio cammino–,  è di leggerezza e di stupore. E dall'altra parte avverto anche il peso di chi deve voltare una pagina, e passare avanti. Ritornare nelle ombre dell'informe, del non ancora plasmato ma del già vivo. Il peso che avverto nell' abbandonare le giornate passate in compagnia di quel particolare assortimento di umanità, di memorie, di reale contaminato da finzione, di ricordi, di miraggi o paesaggi alterati, che non ritorneranno più perché non avranno più gli occhi particolari di quella situazione emotiva, di quel particolare respiro che solo una storia chiusa può serbare e conservare nel tempo.
Esporsi a raccontare avrà il suo prezzo. I suoi rischi. Non c'è scrittore al mondo che non abbia mai dubitato  e rischiato, dopo un certo ciclo concluso. Una parte di chi ha scritto, avrà chiuso una sua fase di vita e di sogno. Avrà lanciato un suo ormeggio, in una laguna di coralli e di squali. Questo in ogni  caso. Non vi è mai certezza. Se vi fosse qualche certezza in questo settore, allora deciderei per qualcos'altro. Di più incerto, ma anche di più vivo. Non c'è parapetto quando si scrive, specie nelle curve. Adesso mi sento in piena curva, così come mi sono sentito in curva durante molte fasi di questo lavoro. In momenti difficili di sconforto, ma anche terribilmente vivi e seducenti.
Sono convinto di attendere ancora del tempo, per riavvicinarmi, da lettore, al romanzo "Il disabitato". Preferisco che adesso, con i calzini non  troppo scesi e le scarpe appena allacciate, faccia la sua strada, i suoi incontri, le sue cadute. È giusto che prenda in mano la sua vita senza di me, così come è giusto che io riprenda in mano la mia senza di lui. Ogni punto a un'ultima pagina, è una porta a soffietto che si chiude.
Col tempo ritornerò ad aprirla. Anche per soppesare e valutare a nuove distanze, quanto sia stato coraggioso o codardo. Quanto avaro e quanto generoso. Tutto quello che avverto adesso, del mio movente rispetto alla storia, è avvolto in una nebbia molto fitta, ma dove palpitano ancora delle luci e delle figure, che hanno il desiderio di mutarsi e di riflettersi in altri luoghi, al di là di me. È forse questo il senso profondo della comunicazione attraverso un tipo di linguaggio. Perdere la strada e poi ritrovarla. A volte è l'unica tensione che mi lascia vivo, nel mio fare e nel mio sfare parole.
È tutto.

lunedì 30 maggio 2011

Dietrologia del "dietro "il" o del dietro "a". Ed altro...

...tutto qui.

Canzoni

Stavo sentendo delle canzoni che mi ricordano alcune cose. Non sono cose precise, che si possono descrivere. Sono cose fatte di momenti, di luoghi e di visi nascosti e ancora in parte ombrati alla luce diretta, che sono stati vissuti come tanti altri e che forse non avranno avuto niente a che fare con quella canzone, ma che solo grazie a quella canzone sono ritornati alla luce con quelle caratteristiche precise. Essere interessato da questi strani flussi di rievocazioni, mi rassicura e intanto mi spaventa. Mi rassicura perché mi fa sentire vivo, e il sentirsi profondamente vivi è un impegno meraviglioso con se stessi. Si buttano manciate di istanti, perché si è presi da molto altro, credendo che questo molto altro abbia un valore assoluto e vitale, quando invece si stanno solo abbassando le luci intorno e dentro il proprio attico, e si sparecchia una tavola dopo l'assenza non annunciata dell'ospite a cena. La costruzione musicale di alcune canzoni, forse per il particolare rapporto che ha la musica con la dimensione temporale (la musica si basa sul tempo ma in fondo non ha come arte un vero legittimo tempo), ha sempre una forte capacità evocativa ed ha grandi affinità con il sentirsi vivi. Uno strumento musicale che si accende nel buio, tutto il regime armonico, con le sue regole e le sue complessità, sono una rappresentazione di una fase illimitata di espansione e di profonda evocazione di fatti veri o sognati, e non di soli suoni. In alcuni momenti la canzone  pare ancora più potente di altre strutture più sofisticate e complesse, forse perché affina e penetra in un tessuto più familiare, entra nelle ossa dei giorni semplici e già passati, maledetti e dimenticati perché forse i più amati. I giorni qualsiasi candidati a una loro insolita eternità, se abitati dalle persone e dalle cose che sono successe mentre qualcosa ti canticchiava intorno e non ancora dentro: della paura di perderle, o di perderti troppo presto o troppo tardi dentro di loro. 

domenica 29 maggio 2011

Cory Doctorow: Makers


Cory Doctorow: Makers from PBS|NPR Forum Network on Vimeo.

venerdì 27 maggio 2011

La quarta categoria:

Vi sono diverse possibilità:
1) Avere una o più storie dentro, ma non possedere gli strumenti adatti per tirarle fuori e per raccontarle.
2) Avere una o più storie dentro, con tutto l'occorrente per tirarle fuori e per raccontarle.
3) Non avere nessuna storia da raccontare, ma avere tutto l'occorrente e gli strumenti adatti per tirarla fuori e per raccontarla.
4) Non avere nessuna storia da raccontare e nemmeno tutto l'occorrente per tirarla fuori e per raccontarla.
Questi quattro prospetti potranno abbracciare più tipologie diverse di persone, che potranno avvicinarsi, qualche volta riconoscersi, almeno in uno di loro.
Credo, però, che se dovessi scegliere quella più interessante tra le quattro categorie, dove poter trovare dei buoni e moderni scrittori, interessanti e originali, non avrei dubbi sull'ultima. Sulla quarta. Cercherei di rubare il più possibile dagli abitanti della quarta categoria. Passerei la maggior parte del mio tempo con loro, cercando di prendere il massimo. Saranno in assoluto i più puri, incontaminati da paradisi di nozionismo, certezze di scuola e soffiate di scuderia. E di sicuro ne tornerei arricchito...

giovedì 26 maggio 2011

Radio Proust:


Six-Minute Highlight from Radio Proust on Vimeo.

mercoledì 25 maggio 2011

Il cappello dimenticato

Nella scrittura si prepara un ambiente ancora oscuro. E nel buio di una particolare gestazione, si cercherà di renderlo invitante, pregno di un'atmosfera che lo renda percepibile alla distanza e al confronto di altri ambienti abitati, anche se più lussuosi o luminosi.
Amare e acclimatarsi ad un ambiente, per chi si troverà ad occuparlo, non comporterà necessariamente il capirlo, il misurarlo, l'analizzarlo a fondo nelle sue quadrature, nelle sue estensioni, nelle sue particelle catastali. Anche senza essere informati o dominati dalle proporzioni, un ambiente potrà riscaldare o riattivare quella misteriosa nostalgia di ritornarvi, o quanto meno di girare la testa verso la finestra, quando si inciamperà nei suoi paraggi, e ricordare per un istante di quello che si è vissuto. Ecco che cos'è un libro.
Non credo che abbia altro senso per me lo scrivere, se non il preparare dall'oscurità un ambiente, arredarlo per persone altrettanto oscure, che potrebbero imparare ad amarlo, senza volerlo o senza neanche saperlo. Non esistono metodi precisi e infallibili per riattivare un certo ricordo, una certa tensione di nostalgia, o per dirottare il viso di qualcuno alla mia finestra aperta o anche chiusa. Potrebbe accadere da sempre o forse potrebbe non accadere mai. Potrebbe essere già accaduto, e io stesso potrei non saperlo, e non arrivarci mai, fino a quando qualcuno non dimenticherà da qualche parte di quella mia strana casa il suo cappello...

martedì 24 maggio 2011

Troncamenti ed elisioni. Disquisizioni: qual' è o qual è

Durante una seduta di editing, mi sono trovato ad approfondire un piccolo dubbio, anche se per alcuni il dubbio, come in questo mio caso specifico, non dovrebbe sussistere: Qual ero o Qual' ero?
Come dicevo, per alcuni, o forse per molti e diversi, la regola non lascerebbe dubbi. Basterebbe differenziare un troncamento da un'elisione, e il gioco è fatto, o sarebbe fatto. Tal e qual. Nell'elisione si considera il rapporto con la vocale con cui comincia la parola seguente e la vocale atona mozzata. Il troncamento è un' apocope e non vuole apostrofi di sorta.
Superato il dubbio – ma nel mio testo non avevo messo l'apostrofo, quindi dovevo essere nel giusto – ho trovato nel primo canto dell'Inferno di Dante, una prova tangibile, o quanto meno rasserenante, che potrebbe diventare argomento di confronto, con i grammatici più reazionari, che ancora insistono con l'apostrofo tra qual ed ero. Quanto meno si accetterebbe sotto il profilo di una licenza illustre, anche se molti giornalisti usano l'apostrofo senza farsi troppi scrupoli.
Intanto nel Primo Canto dell'Inferno avviene questo. Al verso 55:

E qual è quei che volentieri acquista,
e giunge 'l tempo che perder lo face,

È tutto. Argomento comunque interessante, e per alcuni, o forse per molti, ancora aperto.



Hugo: raffica malinconica d'oceano

È Miller che parla di Hugo come del Dio francese, e io mi immergo  nell'oceano Hugo, per assaggiare stanotte le sue raffiche malinconiche e tragiche, a conferma di questa acuta e agghiacciante classificazione, moderna e imponente. Assoluta, alla quale Miller aggiunge: Lo scrittore degli adolescenti...agghiacciandomi il doppio, come suo solito, come farebbe un trafugatore di salme davanti a una comitiva di giovani ragazze che rientra, gioiosa.
Nel capitolo XI Deridere, dominare (Parte III, libro primo), Hugo esplode in una celebrazione della sua Parigi, attraverso una rivisitazione spasdomica e perfetta, di date, eventi, personaggi. Parte con entusiasmo e fervore, dalla notte calda del 4 agosto ( non specifica l'anno, ma la distruzione in poche ore di mille anni di feudalesimo riconducendo i più attenti a non avere dubbi sulla notte del 1789  sul voto ispirato dell'Assemblea Nazionale Costituente per l'abolizione delle immunità fiscali, e privilegi di clero e nobiltà. Momento importante di svolta, verso un nuovo regime e un nuovo clima). Ma quello sarà solo un piccolo rintocco di pendolo. Hugo si accende, della stessa gioia di cui accennava parlando del temperamento gioviale, della smorfia e dell'ironia della grande e superba Parigi, che riempirebbe di luce Washington, Kosciusko, Bolivar, Botzaris, Riego, Bem, Manin, Lopez, John Brown, Garibaldi, e adesso rincalza con date in sequenza 
Boston 1799: Articoli di Confederazione – è chiaro che lo scrittore metterà in luce il magnetismo del Trattato di Parigi per le sorti degli Stati Uniti, anche se ancora in una fase embrionale di assetto.
Isola di Leon 1820.
Pest 1848.
La battaglia di Palermo, del 1860: credo che si trattasse di un gruppo di mazziniani e liberali che esplodevano contro i borboni e tambureggiavano a Garibaldi i loro intenti, e ancora sul traghetto di Harper' s Ferry, poi i patrioti di Ancona e ancora nomi su nomi: lontani, non tutti così controllabili. Dagli eventi ai personaggi che si muovono e cadono: Robespierre, Byron, Mazet, fino ai pensatori più fini: Pascal, Descartes, Gian Giacomo Voltaire, scrittori come Régnier, Corneille e ancora Montesquieu, Diderot, Beumarchais, Condorcet, Danton, Rousseau. Per arrivare all'osare. Come unico prezzo del progresso, come dentatura lucente della nazione e del suo spirito rivoluzionario e grande arcata verso la Libertà.
Tutto questo, concentrato con grande abilità in un piccolo capitolo di un grande romanzo, quale rimane e sempre rimarrà I Miserabili, in questa spaventosa raffica di oceano. Che risveglia e spaventa dal sonno pieno della storia, come l'artiglio del gheppio o una sirena che spacca una vetrata di cattedrale.
Ma il suo intervento, così come tanti altri che si succedono a ondate improvvise, non ha mai l'aspetto tagliente e nozionistico, ma nasce sempre da un atteggiamento naturale di passione per lo sfondo, dal quale deve ricavare tutta la possibile profondità indagatoria per il suo affresco. Un volo altissimo di uccello, nello splendore della grande malinconia di Parigi.

lunedì 23 maggio 2011

Il se con il condizionale

Interessante intervento con relative risposte. Da L'Accademia della Crusca: qui.

Costretta ogni altra cosa alla calma:

C'è un'immagine di Guido Ceronetti, assolutamente nitida e notturna. Un'immagine nuda e velata. L'ho riletta poco prima di spegnere, o meglio: di accendere qualche libro notturno, nel buio, prima di addormentarmi, e mi si è ricomposta davanti, come una tela calda e antica in acrilico. Il Ceronetti de L'occhiale malinconico, è più che mai vivo e preciso, nella sua disquisizione sull'oscuro in poesia, suo rammarico e insieme – penso –sua lanterna da saggio e fascinoso viandante. La sua sferzata è netta, essenziale. Cade proprio bene in quest'ora tombale della Domenica, che promette pioggia:

"Quando mi metto, costretta ogni altra cosa alla calma, a comporre versi, sento di chiudere veramente la porta alla canaglia e ai rumori, ai cattivi spiriti, alle cose bastarde e alle impurità, e di aprirne un'altra su una pulita notte che il coltello della storia umana non ha ferito".
 Guido Ceronetti da Poesia chiara poesia oscura.

Concludo ritornando al titolo del mio post, come prospettiva, o possibilità all'incanto e al raccoglimento dello scrivano puro, che cerchi un anello prezioso o la coda di uno squalo bianco, con il dito asciutto nell'acqua. La costrizione delle cose alla calma. La direzione di pace, istigata, costretta, è una meravigliosa possibilità, nel pugno di qualsiasi uomo che sappia ancora ascoltare e consentirsi la rarità di un ritrovo nel silenzio.

domenica 22 maggio 2011

Il segreto inespresso

Non tutto quello che sento di esprimere, di dire, o di scoprire e di capire dicendolo, lo scrivo o lo dico. Almeno non trovo giusto di farlo sempre e subito, con gesto meccanico. Credo che sia importante concedermi un certo spazio di segreto. Un segreto strano e svelato, ma solo con me stesso, che so ma che fingo allo stesso tempo di non sapere; di non essere mai a conoscenza di quello che mi nascondo, di dimenticarlo e di ricordarlo. Non esprimere qualcosa che si avverte molto forte, in certi casi è l'unico modo per preservarla dal pericolo della forma sbagliata o dello spreco, o dello sporco. Dal pericolo della contaminazione o della sua fine. Su questo non detto o non espresso, su questa linea d'ombra, si dirà dell'altro, ma con un velo costante e delicato attraverso, che nasconderà e svelerà nello stesso tempo il mio segreto e il mio mostrato, confondendolo in un unico flusso. Un'impressione vaga di nostalgia. Un lungo nodo superbo alla gola;

Manifesto Federazione Italiana Blogger:

Eccolo qui,

sabato 21 maggio 2011

Una distesa stellata in pieno giorno

Scrivere senza speranza, è la più grande certezza.  Ma allo stesso tempo farlo come se quelle parole fossero le ultime della mia vita. Non trovo una contraddizione. Scrivere a volte è la ricerca di un sentirsi amati che non si conosce, la stessa che ti costringe a non amare, se inciampi nella rogna della cattiva abitudine  a farlo per mostrarlo o dimostrarlo, e non per svanirvi dentro. Se l'acqua non raggiunge i 100 ° non credo che abbia tanto senso. Non credo possano mai esservi speranze per ciascuna forma di espressività, quando sia infiammata da una certa foce di feroce e viscoso talento. Il talento cattivo inchioda lo scrittore alla sedia a rotelle del sogno stupido di poterlo cavalcare e scavalcare, come un cavallo baio o una ruota panoramica stagliata in un abisso al crepuscolo, e di poter raggiungere i punti più alti dove guardare un paesaggio irreale, un precipizio, o la stella polare che fuma anelli celesti da un comignolo rosa di Cerreto Sannita, dimenticando il piccolo incanto del molto altro. Il talento va ignorato. Non ci sarà mai nessuno così onesto da riconoscerlo, quando è puro, nessuno così coraggioso da contestarlo, quando invece è impuro e fittizio. I pochi competenti rimangono muti, e lo ignorano se c'è. Così come ignorano lo scrittore accanito e barcollante che ne sia privo. Tutti in una stessa fornace. Sublime e tecnica indifferenza. Rimarrà così la maledizione ringhiosa dei più fragili, di quelli che continuano a scrivere per il solo bisogno di essere amati di più. Una sorta di marchio bovino, una forma raffinata di follia del grafomane. Va bene così: è una strada cieca.  Vi sono migliaia di persone che sono meravigliose in quello che fanno, e non pensano minimamente che quel loro fare debba ritornarle indietro, prendere una forma definita, dispensare certezze. L'atto di scrittura migliore equivale al gesto del chitarrista, molto giovane, che ho visto stamattina. Stava suonando, con una mano sciolta e molto tranquillla, sopra al prato dove di solito vado ad asciugare le mie sudate di jogging. Di fronte a lui una ragazza distesa, di cui scorgevo le caviglie accavallate l'una sull'altra nelle scarpette ballerine, e un ragazzo accovacciato accanto, a farle da ombra. All'aperto quel suono sottile e vetroso di vari stralci sonori, si dipanava, e tagliava l'attimo silenzioso nel sole del mezzogiorno. Pensavo: se solo riuscissi a scrivere un rigo, anche uno solo, nella mia vita, con tanta naturalezza, scioltezza e libertà da intenzioni, vincoli, rigori, schemi precostituiti, condizionamenti, verità, assiomi, radici culturali, fobie di linguaggio esatto, stralci semantici, copioni, riverberi, gestioni, rigori, languori o crepacuori. La musica del dilettante spaccava l'aria come un coltello da cucina nelle mani di una bambina cieca, una notte di luna nuova sulla nuca di un'anziana che l'ha perduta. Non c'era intento di perfezione, ma i passaggi sulla corda erano colmi di mistero e di poesia visionaria. Non credo che quel ragazzo avrà mai avuto grilli per la testa. Probabile che farà l'università, o avrà un gruppo rock con cui si spaccheranno le dita in una cantina o nel boxe di un garage, due o tre volte alla settimana; ma quei momenti di suono saranno estranei a qualsiasi logica di economia, di volontà a qualsiasi tipo di accumulo, di ricerca, di movente, verso qualcosa di altro e di lontano, ma non disgiunto dal senso profondo e unico di quella gran bella giornata passata, dalle caviglie eleganti e incrociate della ragazza che gli era di fronte, con le calze lilla, oscurata dall'ombra del suo amico assorto e silenzioso, che ascoltava. L'arte ha la perfezione medica dell'abisso di un attimo, che non ritornerà mai più se non sei bravo come l'ape al tempismo immediato di suzione del suo nettare o veleno. Eppure quei pochi passaggi e il tipo di tocco ispirato e così istintivo, forse non educatissimo, avranno fatto impallidire migliaia di pagine che ho sognato o che ho elucubrato nella mia mente e nella mia vita, privandole della spina naturale del giorno di vita in cui le ho vissute. Eppure sono immerso e sommerso da progetti: la scrittura è una lunga e lucida ventosa che mi intuba, a volte la mia balia, in alcuni momenti il mio ossigeno, ma senza nessuna speranza, nessuna che mi distolga dalla vibrazione naturale verso la mia vita senza parole, senza la quale non avrebbe alcun senso impugnare una penna. Voglio imparare a dissanguarmi e a ricercare nelle parole qualcos'altro, che non sia la mera ricerca di sfoggiarle. Il mio linguaggio non deve essere di tessuto pregiato, ma deve odorare delle mie coronarie, del mio pancreas, della mia corsa in salita. Il gruppo è rimasto al sole, ero disteso e quindi non li guardavo più. Devo progettare una divagazione o un saggio, su come sia bello imparare a scrivere o a modellare il proprio impulso naturale a macinare parole, da fattori che siano immersi nella luce e non nelle feci del proprio regno incontaminato, con sudditi fantasmi che ti allacciano le scarpe e distendono le gobbe dei tappeti al tuo passaggio. È molto tardi. Credo che dovrei comunicare le mie parole in primo luogo al passero che beve nei sottovasi, sul mio balcone, quando la pioggia li ricolma per bene e lo sazia di luce riflessa, nel bianco neve che stacca nel sottogola, dove gli allungherei un piccolo bacio, se solo riuscissi a non farlo scappare. La mia sola speranza di scrittura sarà di baciare il sottogola imbiancato di un uccellino, sentirgli il cuore che spinge e riconoscervi la macchina da corsa delle mie paure più lontane.  Una scrittura dell'impossibile, senza l'interferenza del sogno complesso e della volontà di misurare quello che si fa con quello che si è. Se riuscissi a scrivere per quel passero e diventare la sua acqua di quel momento, lo schiocco e la vibrazione del suo becco, allora avrei la stessa calma indiana del tocco chitarristico del ragazzo. Che forse avrà già dimenticato la filigrana di quelle note, che avranno lasciato un loro profumo, senza cercarlo né mai volerlo.
Come una distesa stellata in pieno giorno.

venerdì 20 maggio 2011

Il mio amico Reichel e la notte assoluta (Bozza di un mio futuro saggio su Miller)

Miller dispensa un paesaggio sublime nel suo capitolo de L'occhio cosmologico. È con questo suo primo attacco da Max e i fagociti bianchi (Saggi e divagazioni), che lo scrittore spalanca una finestra in una notte assoluta e luminosa, e conceda il freddo di una chiave di volta per ogni palmo che ascolti e che sfidi i secoli del linguaggio. Credo che il suo profilo su Reichel, le sue tele, l'occhio cosmologico e la luna vista da Marte, siano una gettata di vernice celeste e ghiacciata che investe e ammanta un paesaggio invernale, così come lo steccato bianco di un orizzonte letterario nuovo e vibrante.  Volevo rallentare e continuare all'infinito, per paura che finisse troppo presto. La lettura a volte è proprio questo. La lettura pura è il desiderio che quello che ti succede non finisca mai; e allora si rallenta, ma senza un tempo e ci si adagia in un non tempo che profumi di infinito e di abissi.  Come la vita. Se si leggesse così ogni momento, ogni persona, ogni attimo di contatto: sarebbe tutto da leggere e da scrivere. Tutto più spinoso ma anche più inabissato e profondo.
Ritornavo ancora indietro sugli stessi punti, e cercavo l'ortica, il punto o baratro di non ritorno. Il lume basso e il rigo d'ombra di una balia muta e mai incontrata, una ballata di vedove ubriache, il Sabba delle streghe. Miller mi parla di un deposito sconosciuto e familiare, di materiale onirico ma insieme dinamitardo, che riscalda le pagine e i cuori, come una baita di montagna, e a volte fonde l'occhio come un forno crematorio. Ha il pericolo dell'amianto e del mercurio, e la pace del comignolo che fila in un fumo di lana. Il passaggio della mantide e il fischio di catena di una bicicletta che si allontana di sera nell'involucro mucoso d'un amore al di là dell'amore.
L'emozione del lettore, nella lettura del testo, è spinta dal ritmo e dal rigoglio innamorato di spazi da infrangere. Il ritmo, in certi casi, può essere anche non rigoglioso. Può diventare una questione di equilibri, di tensioni, di calcolo. Una misura codificata e artificiale, ma non spianata. Ma nel caso di questo primo capitolo, il tempo ha la spianata smisurata del vino giovane che deborda da una coppa e macchia un seno di signora con la tenebra del lampone. L'odore della campagna quando è dominata da  una volta stellata e palpita, appena prima di un bacio o di un delitto efferato. Senza suono. L'erotismo del lampo e la pace monastica di un plenilunio estivo. L'equilibrio di una forma in divenire. Il ruggito dell'aquila e il sorriso della serpe mutata che luccica. Come direbbe Josè Lezama Lima: pomata di serpente.
E sono soltanto al primo capitolo. Credo di riprenderlo daccapo, o di rallentarlo il più possibile, per immaginare l'effetto di una dimensione lunare così sciolta e strana, quella che Reichel sprigionerebbe dal suo occhio nella volta lattea e spiralica di un altro sogno ispirato: un busto, oppresso da una massa di fogliame verde, e ancora il fango paleozoico; i turbamenti e l'angoisse: la notte assoluta.
L' ignoto indimenticabile. La mia vita.

giovedì 19 maggio 2011

Ho appena deciso...

...che il corpo del post di ieri, sarà il titolo di una pièce che dovrei cominciare a scrivere a breve, se troverò il tempo e il giusto impulso. È la prima volta che parto dal titolo, anche se la sua struttura mi sta sciamando dentro da un po', ma ancora in modo confuso. È una molestia ancora troppo educata. La storia che mi sceglie e che forse scelgo, deve essere una scostumatezza, una mascalzonata, che mi spezza il sonno, mi confonde e mi dà ansia, fin quando non la inquadro e non mi trafigge di calci. Una mano addosso, due dita in gola, uno sputo. Se non avviene questo piccolo attacco oscuro, credo che scriverei nel vuoto, o quanto meno senza cuore e senza nerbo e senso. Scriverei come si dovrebbe scrivere, seduto a tavola, composto e con il tovagliolo sulle gambe e i gomiti nel vuoto, accontentando forse i piccoli professorini giudiziosi che correggono e si nutrono di nozionismo e di equazioni del testo, come di corsetti per signore viziose e insoddisfatte. Intanto, se ieri non avessi scritto il post, è molto probabile che questo titolo non sarebbe mai esisitito, e con molta probabilità nemmeno la pièce che sta cominciando ad attaccarmi, in silenzio ma con crescente astuzia e costanza strategica. Chissà... Di solito il titolo arriva durante o alla fine di un lavoro che scrivo. Credo che debba pulsare di qualcosa, di una correlazione profonda con il mio immaginario, che solo quando mi sono inoltrato e sono affondato nella storia fino alle ginocchia, può forse vibrare e palpitare di consonanza con un mio medium. Ma in questo caso il titolo è parte viva della struttura. È una porta a soffietto, dove penetra la luce appena polverosa che dovrò raccogliere sui polpastrelli prima di cominciare, perché avrà richiamato in nuce quelli che erano e saranno gli aspetti stilisitici che vorrei scandagliare e far muovere, nel tempo. O forse mai. Almeno, nel caso andasse tutto in fumo, mi rimane qualcosa, e il pretesto per riprovarci, o per rimpiangere di non averci ritentato. In fondo è anche questo lo scrivere: la prova generale di un sogno dell'ultimo spettacolo, quando stanno per chiudere e comincia a piovere. Uno spettacolino di provincia, che potrebbe anche non cominciare più, ma diventare indimenticabile lo stesso, per il solo fatto di aver raccolto gli attori, di aver sbirciato il sorriso della più bruttina, che mi saluta nel buio con un'aria perduta e malinconica, e scoprire che invece è quella più carina. Se fosse solo per questo, ne varrebbe sempre la pena di tentare...e di scoprire altro. Ancora.
Intanto il titolo esiste. Eccolo:
Questo pomeriggio lo sento illuminato di fumo, alla Debussy.
Buona giornata.

mercoledì 18 maggio 2011

Questo pomeriggio

Questo pomeriggio
lo sento illuminato
di fumo: alla Debussy;

Passione drammaturgia

PASSIONE DRAMMATURGIA” è un premio dedicato alla promozione dell’arte teatrale Esso è organizzato dal Magazine on-line www.passioneteatro.com  con il patrocinio morale del Teatro Helios di Bordighera (IM).
Il concorso è totalmente gratuito, con lo scopo di offrire la possibilità agli autori meritevoli di avere un’adeguata visibilità. 
Le opere prime classificate saranno pubblicate sul sito e messe a disposizione delle compagnie di teatro, amatoriale e non.
L’elaborato può appartenere a qualsiasi genere (dramma, commedia, satira, etc…), e deve essere originale, mai messo in scena, da inviare in allegato in documento formato Word all’indirizzo:
entro il giorno 15 ottobre 2011. La partecipazione è gratuita. 
Verrà data conferma del ricevimento tramite e-mail. 
Nella mail di accompagnamento indicare i dati personali, l’indirizzo e la seguente dichiarazione: 
Dichiaro che l’opera da me presentata è di mia creazione personale, inedita non premiata o segnalata in altri concorsi, mai messa in scena. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003). 
RACCOMANDAZIONE IMPORTANTE: 
Se non ricevete l'e-mail di conferma della ricevuta dell’opera entro qualche giorno dall'invio, rinviate nuovamente allo stesso indirizzo. 
PREMI 
Primo premio: 
- Pubblicazione dell’elaborato e biografia del vincitore sul sito: www.passioneteatro.com
- Diploma di merito e due libri (romanzi o altro). 
Secondo premio: 
- Pubblicazione dell’elaborato e biografia sul sito.
- Diploma di merito e un libro (romanzo o altro). 
Terzo premio: 
- Pubblicazione dell’elaborato e biografia sul sito.
- Diploma di merito e un libro (romanzo o altro). 
Il giudizio della giuria è insindacabile. La giuria è composta dalla redazione di PASSIONE TEATRO MAGAZINE e dal TEATRO HELIOS DI BORDIGHERA (IM).
L’autore è pregato di fornire il proprio indirizzo di residenza, per la spedizione dei premi. 
I premi saranno spediti tramite posta ai relativi vincitori, una volta pubblicata la classifica finale.

www.passioneteatro.com

martedì 17 maggio 2011

Forme che assume il dolore durante il sonno, di Hugo e il surrealismo

Il sogno del soldato, da Il fascino discreto della borghesia, capolavoro di surrealismo di Luis Buñuel, mi riporta a un mirabile sogno letterario, stavolta francese, di Victor Hugo. Credo che sia un' evocazione subita, o forse un tradimento percettivo. Ma senza farmi troppe domande, sono ritornato a pensare ai due sogni incontrati a distanza di tre giorni – sabato  pomeriggio quello del film, oggi quello del romanzo. Il soldato di Buñuel, sogna di un luogo spettrale e deserto, dove incontra persone già morte che lui crede ancora vive, e che gli appaiono in sequenza, gli parlano e poi spariscono, lasciando l'una spazio alla successiva. Victor Hugo accenna a qualcosa del genere nel capitolo IV, dal libro settimo della parte prima Fantina, de I Miserabili. Il capitolo si chiama Forme che assume il dolore durante il sonno . Le figure del romanzo non comunicano con il soggetto che sogna e che le incontra, ma Hugo rispetta la tecnica concentrica e raffinatissima delle apparizioni sullo sfondo di vuoto che anche  Buñuel utilizzerà nel suo sogno surreale, come parte viva o personaggio palpitante tra gli altri già morti.  Qualche passo del sogno indimenticabile di papà Madeleine:

"La prima via nella quale entrai era deserta. Entrai in una seconda strada. Dietro l'angolo che facevano le due strade c'era un uomo in piedi contro il muro. Io chiesi a quell'uomo: – Che paese è questo? Dove sono? – L'uomo non rispose. Vidi la porta aperta di una casa, vi entrai.
La prima camera era deserta; entrai in una seconda. Dietro la porta di questa camera c'era un uomo in piedi contro il muro. Domandai a quell'uomo: – Di chi è questa casa? Dove sono? – L'uomo non rispose.
La casa aveva un giardino.
Uscii dalla casa ed entrai nel giardino. Il giardino era deserto. Dietro il primo albero incontrai un uomo che stava diritto in piedi. Dissi a quell'uomo: – Che giardino è questo? Dove sono? – L'uomo non rispose.
Vagai per il villaggio, e mi accorsi che era una città. Tutte le strade erano deserte, tutte le porte erano aperte. Nessun essere vivente girava per le strade, né camminava per le stanze, né passeggiava per i giardini. Ma c'era dietro ad ogni angolo di muro, dietro a ogni porta, dietro a ogni albero, un uomo in piedi che taceva. Non ne potei mai vedere più di uno per volta. Quegli uomini mi guardavano mentre passavo".
Victor Hugo. I Miserabili. Rizzoli 1935




Appunti di storia e di mistero: schiusa in una chiusa

Il XVIII secolo si chiude o forse comincia a chiudersi o a curvarsi appena, con una grossa esplosione dinamitarda, e frizioni di spasmi liberali e rivoluzionari: l'arcata degli otto anni della Guerra d'Indipendenza Americana comincia nel 1775, dove la stessa Francia comparirà tra i gruppi europei che daranno aiuto ai ribelli contro gli inglesi. (Incubazione lenta o magnetica dei prossimi trascorsi?) Quella stessa Francia che nel 1789 sarà immersa nel primo grande Teatro decennio della Prima Rivoluzione Francese, nello stesso anno in cui il Congresso degli Stati Uniti promulgherà dodici emendamenti alla Costituzione mentre un medico francese, di nome Joseph-Ignace Guillotin – tragica ironia della sorte – metterà a punto e renderà una matrigna  e infermiera perfetta la nuova ghigliottina, e Mozart intanto viaggia incantato verso Praga, Berlino e altre città della Germania, due anni prima della sua morte misteriosa. Credo che vi siano fasi magnetiche e spiraliche nella storia moderna, che segnano dei punti di confine tra varie pulsioni. Una schiusa in una chiusa. Dei solchi di fumo azzurrato e di fuoco. L'agonia enigmatica e classica di un secolo o la nausea di un grosso drago incipriato a più teste?

lunedì 16 maggio 2011

Appunti di bordo

Stamattina:
Jogging.
Riposo sul prato.
Pensare il minimo.
Poco o quasi niente.
Poche persone e molto sole.
Che forse pensano anche loro il minimo.
Credo che la faccia sepolta dentro un prato
potrebbe dimostrare l'esistenza di Dio.
Punto e non a capo:
[...]

Epigrafe definitiva

Tra i vari stralci di appunti, ripensamenti e tentennamenti, penso di aver trovato l'epigrafe più coerente da inserire nel romanzo. Ieri sera, sul tardi, l'ho scovata, senza che la cercassi. Durante la lettura di un libro. Come se fosse stata lei a scorgermi e a richiamarmi – a volte è così che succede. La confermo sin da ora, soprattutto per la coerenza con il contesto. È molto densa e completa il tipo di immagine evocativa e non descrittiva che cercavo, quella che di solito dovrebbe lasciare un testo di epigrafe, senza dire, ma sintetizzando il non visto e il non ancora detto e successo in un ordine superiore quanto oscuro.  Nel caso dovessi inserirne solo una, non avrei dubbi su questa come prima. 
È di Victor Hugo. Dal romanzo I miserabili:

"Passato il lampo, ricadeva la notte; e allora dov'era? Non lo sapeva più".
Victor Hugo

Da notare la perfezione del ritmo e l'uso della punteggiatura, dove anche in un piccolo stralcio si avverte la presenza di un maestro.

domenica 15 maggio 2011

Bergman e la tristezza:



"L'inquadratura più triste di tutta la storia del cinema" (Jean-Luc Godard)

Pensiero d'amore:

Novembre 1937. Quando Pavese separa questo pensiero e lo dispone in coda di pagina e di mese, staccandolo fisicamente dai suoi grassi paragrafi argillosi: e io di colpo mi fermo. Non credo di aver mai letto, in uno spazio così angusto, come dal filo di fumo di una candela, tanto dolore e tanta immediatezza di profondità:

Pensiero d'amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso.

Cesare Pavese. Il mestiere di vivere.

sabato 14 maggio 2011

La penna di un martello:

Un buono scrittore, uno che si rispetti, deve inchiodare le proprie parole nel cuore di chi lo leggerà. Almeno le più importanti, o una parte di quelle più importanti, vanno incastonate. Altrimenti non esistono. Non credo che uno scrittore abbia altro scopo. Se ne dicono ormai di tutti colori, ma se le parole non vanno fino in fondo, come chiodi, è come non averle mai scritte. Di qui non se ne esce. E per farlo, un buono scrittore, non potrà mai accontentarsi. Dovrà avere una strumentazione di bordo adeguata, un certo coraggio, un certo polso naturale delle cose. Una certa mira e anche una certa diabolica precisione. Tutto questo richiede un certo immenso lavoro:
credo, e concludo, che a volte per scrivere bene, serva la penna di un martello da carpentiere, anche se tenuto con la stessa leggerezza delle mani di una ricamatrice.

venerdì 13 maggio 2011

Un'alterazione sottile

Credo che nel raccontare si conviva con un processo sottile di alterazione. Di alterazione del reale da parte di un pensiero finto, immaginato o fantastico, quanto credibile o possibile, e anche di un'alterazione di una finzione, da parte di un pensiero o di un processo del tutto reale, vissuto, accordato e collaudato alla propria percezione sensibile ed esperienziale, al proprio tãctum.
In questo stadio alterato, a volte sottilmente alterato, comincia una certa ricerca. La mia scrittura, nel mio piccolo, è una forma incondizionata e suggestiva di amore e di accudimento, a volte spasmodici, verso questa certa ricerca.

mercoledì 11 maggio 2011

Il disabitato: copertina romanzo in anteprima


Prima della rivoluzione:

martedì 10 maggio 2011

Appuntamento a Londra con retroscena


Ho divorato questa pièce di Mario Vargas Llosa, Domenica pomeriggio, come una porzione di crostata dopo giorni di digiuno. Un equilibrio sapiente della forma. Una purezza e una chiarezza magistrale di linguaggio, che mi hanno lasciato incantato, per semplicità, grande rigore e raffinatezza stilistica. Quanto i retroscena di cui parla lo scrittore, in relazione agli inattesi trascorsi creativi del suo lavoro in oggetto, nella sua pregevole introduzione.
Ecco un piccolo assaggio e passaggio:

La prima stesura della pièce mi prese appena un paio di settimane. Era una storia succinta, verosimile, in cui i fatti drammatici venivano alleggeriti da momenti umoristici e comici. Come mi capita con le prime versioni di tutto ciò che scrivo, il testo mi lasciò addosso una sensazione di fallimento, l'idea di aver sfruttato male un materiale ricco di possibilità teatrali. Quando ho cominciato a correggerlo non sospettavo che avrei continuato a rifarlo per i cinque o sei anni seguenti e che Appuntamento a Londra sarebbe stata, con il racconto "I cuccioli", che scrissi negli anni Settanta, la storia di cui avrei fatto più versioni prima di arrivare a quella che mi sarebbe sembrata accettabile.
Mario Vargas Llosa.




lunedì 9 maggio 2011

Un mio sintomo di vita o di specie

Non c'è cosa, più della scrittura, che mi renda più felice, più sicuro e più vivo, ma nello stesso tempo anche più infelice, più insicuro e più stremato. E ancora: non c'è cosa che mi riesca meglio, ma nello stesso tempo anche peggio. Che mi faccia più luce e più nebbia intorno – a volte nello stesso istante.
Non credo che questi possano definirsi contrasti o dissonanze. Sono parti di uno stesso fuso armonico, che muta e trasmuta quando esiste, e quando resiste alle cose troppo ferme e statiche che mi capitano.
Un mio sintomo di vita o di specie.

domenica 8 maggio 2011

La lezione di Ionescu

sabato 7 maggio 2011

Solitudine in due di Adele Iazzetta

Questo racconto di Adele Iazzetta è anche il racconto inedito di una giovanissima scrittrice, che tra l'altro non è stata lei a chiedermi di inserirlo nel blog. È stata una mia scelta.  Mi è sembrato giusto condividerlo nel post di oggi, perché credo che abbia dei numeri interessanti e stia sperimentando una sua strada, anche piuttosto coraggiosa. E perché credo che qualsiasi scrittore debba imparare ad ascoltare e ad apprendere dalle cose buone degli altri, e anche dei giovanissimi, invece di mettersi in cattedra con la matita blu e  rossa tra i denti.
Proseguo. Perché ho scelto di pubblicare questo racconto? L'ho scelto per il suo mood:
Aprire un racconto con una domanda da parte del narratore, ancora avvolto nel fumo del sogno possibile di un personaggio, ma non del tutto sicuro. Già partiamo da un livello di realtà sospeso e originale. Subito dopo un luccichio che si confonde con un sorriso, e poi decidere di far arrivare un profumo insieme a una voce umana. Una prospettiva interessante e matura, sospesa tra dimensioni emotive, che ho trovato molto fresche e poco macchinose. Il taglio di questa narrazione mantiene questo filo particolare intrecciato con delicatezza alle parti della trama tra l'onirico e il fisico (La valigia piena di sensi di colpa e tabacco/ i “fiori-di-non-so-cosa/ ...le scarpe zuppe di melma./ Me ne vado a spasso con la mia bisaccia di errori e di rimpianti/ lasciarsi disabitato per un po). Non so quanto vi sia di consapevole, ma questi piccoli interventi sospesi lasciano un senso di orientamento attraverso un suo livello personale di realtà, che si rivela come un ottimo indizio su quello che vuole raccontarci di sé o di una parte di un mondo che ha saputo osservare e poi narrare, senza dircelo mai direttamente, anche se filtrato da una sua dimensione fantastica e creativa, come accade in ogni finzione scritta. Non credo che sia sempre così importante quello che accade, quanto il modo in cui questo accaduto si dirami e si mostri. Il racconto scivola come un fiumiciattolo o un sonnellino pomeridiano; con molta scioltezza e fluidità, anche per l'uso dei dialoghi, con i quali Adele pare avere un orecchio attento e ben esercitato. Anche l'utilizzo del suo punto di vista spaziale è originale e molto sentito: una terza persona molto cosciente di alcuni aspetti del personaggio, e ispirata verso alcune dinamiche della relazione, ma allo stesso tempo poco invasiva e leziosa. Credo che anche da questa prospettiva vi sia una sua ricerca e una sua originalità. Io cerco sempre di leggere una storia secondo una mia visione, aperta a quello che rimane dopo, e non solo a quello che appare al momento della lettura. Potrà essere un modo sbagliato, ma ritornando indietro sui punti che mi sono rimasti più vivi, ho poi disegnato la mia linea di pensiero senza preconcetti ma sulla sensazone ancora viva della suggestione dell'ascolto di un suo mondo o meglio di un suo mood, che è riuscito a convincermi.
Continuando e concludendo, con il racconto: bello anche il piccolo salto, o spostamento temporale, che Adele ha chiuso in un inciso: -Tre mesi prima-. Ancora molto più accattivante in coda, il suono metallico delle risate con il successivo contrasto di quiete, molto ben riuscito.
Preciso che questa versione del suo racconto è così come mi è arrivata, senza nessun tipo di intervento da parte mia. In seguito, in caso di editing o di ripensamenti da parte dell'autrice, potrei aggiornarvi sui cambiamenti.
Auguro ad Adele tutta la fortuna di questo mondo e di questo suo mood.
E adesso tocca a lei. In bocca al lupo:
l.s.

Solitudine in due di Adele Iazzetta

Era vero o stava sognando? E quello strano luccichio, da dove diavolo veniva fuori? Era il suo sorriso, forse? No, non era il suo sorriso, quello se lo ricordava fin troppo bene: gli aveva scombussolato l’esistenza, messo in disordine l’anima e i pensieri.
Un tonfo. Sordo, preciso. Metallico. E poi la sua voce: “Ma porca di una puttana, non c’è una cosa messa in ordine in questo posto!”
-“Jen?”, chiese incredulo.
-“Si, Ian, sono ancora io.”
E in quell’istante seppe che era lei. Con la sua voce arrivò un profumo. Il profumo che odiava, quello ai “fiori-di-non-so-cosa”. Lo aveva odiato da sempre, gli ricordava una valanga di cose che doveva dimenticare. Perché con Jen era sempre stato così. Dimenticavano per non farsi male, perché in realtà erano sempre stati sbagliati.
- “Non ce l’hai fatta.”
Non la stava colpevolizzando, lo stava semplicemente constatando. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Sapeva anche che non avrebbe preso una decisione, e che alla fine la vita avrebbe deciso per lei. Per Ian l’indecisione non era altro che una forma diversa di vigliaccheria.
La guardò. Fu una frazione di secondo, un attimo, e si rese conto di trovarla orribile. Un’eterna bambina, in viaggio con l’aria afflitta e la valigia piena di sensi colpa e tabacco. Aveva lo sguardo colpevole di chi è tornato sui suoi passi, di chi si è tradito e s’è deluso e poi si è tradito ancora. Aveva lo sguardo di chi si faceva schifo, di chi voleva fuggire e lasciarsi disabitato per un po’, sperando di trovarsi diverso per miracolo. Era orribile e la odiava, perché se lo ricordava ancora quant’era stata bella.
- “Lo so”.
-“Tu non puoi permetterti di usare quel tono, Jen! Tu non puoi usare quel tono con me.”
-“Quale tono?”
Lo chiese con una voce strana, inespressiva e terribile. Non lo sapeva davvero, e questo gli faceva più male del previsto.
-“Il tono di chi sta tornando, il tono di chi non ha scelta. Tu sei qui perché non sai dove altro andare, ed io non ti voglio più. Io… io non ce la faccio. Vai via, ti prego, vai via…”
Lo sapeva e sapeva che esserne a conoscenza non sarebbe bastato. Alla fine le avrebbe detto che poteva dormire sul divano e che ne avrebbero parlato. Si sarebbe messo a letto, ci avrebbe riflettuto e si sarebbe addormentato sentendosi il più grande idiota del pianeta. Si sarebbe svegliato, sarebbe andato da lei e l’avrebbe trovata ubriaca. O fatta. Allora avrebbe aspettato, come faceva da quando l’aveva conosciuta, pentendosi di aver potuto pensare che potesse essere diversa. Avrebbero parlato e non si sarebbero detti nulla, perché la verità è che non avevano più nulla da dirsi da tempo.
-“Lo so, ti ho lasciato, ma non so che fare. Sono sobria e sto di merda. E voglio che tu mi dica che andrà tutto bene perché sto impazzendo e… e perché non posso più dirmelo da sola. Neanche me lo ricordo com’è quando tutto va bene.”
-“Non riesco a crederti...”
-“Una novità, insomma. A quale parte non credi? Ti sei fermato al “sono sobria”?”
Era sarcastica. E un tempo questa cosa gli piaceva persino. Era stato pazzo o terribilmente stupido? Si disse che il termine giusto era “innamorato”, ma si rese conto che poi, alla fine, era sinonimo di tutt’e due.
-“Allora rettifico. Io non voglio crederti! Gli ultimi mesi tra di noi sono stati i peggiori della mia vita, ora vorrei… vorrei andare avanti, soltanto questo.”
- “Non puoi andare avanti, io sono qui e ti amo”.
-“Non mi hai mai amato Jen, mai…”
Aveva tutto l’aspetto di un vecchio bambolotto di pezza, abbandonato negli angoli più remoti e solitari, rattoppato troppe volte e troppo velocemente, troppo malandato perché qualcuno potesse desiderarlo ancora. Se ne stava lì, lo sguardo vitreo e le braccia penzolanti, a parlare. Parlava perché nella vita non aveva mai saputo fare altro e perchè nessuno l’aveva mai ascoltato abbastanza.
Inspirò rumorosamente e guardò altrove.
Jen si accoccolò in un angolo della stanza, le mani incrociate, lo sguardo fisso. E poi cominciò a piangere. Era uno di quei pianti che non chiedono conforto, che ti lasciano solo con la tua voragine e sai che l’unica cosa che puoi fare è aspettare che passi.
Non voleva guardarla, non ce la faceva. La sentiva singhiozzare silenziosamente e aveva paura di lei.
Non aveva mai avuto un buon rapporto con le persone che soffrivano, non sapeva come prenderle. E non aveva mai avuto un buon rapporto con Jen, esattamente per la stessa ragione.
Alla fine si voltò, la guardò in tutta la sua miseria e sentì dentro la voglia di raccoglierla, abbracciarla e dirle che lui c’era, che era ancora lì per lei.
Si avvicinò e le spostò i capelli dal viso.
-“Puoi restare, puoi restare quanto vuoi... Sai già dove dormire, le coperte sono nel mobile accanto alla porta. Buonanotte, Jen”
Lei annuì, fu un segno impercettibile. Ian si diresse verso la porta, senza guardarla e senza avere voglia di farlo. No, non l’aveva perdonata e non l’avrebbe mai fatto. C’erano tante di quelle cose che non riuscivano a perdonarsi. La amava, o almeno, così aveva creduto. Ma quel misto di paura, bisogno e rabbia era mai stato amore?
-“Ne parleremo, ti giuro che ne parleremo… Domani, o quando sarà…” -disse Jen con voce tremolante.
Ian annuì, sapeva fin troppo bene che alla fine sarebbe arrivato il momento di parlarne. Lei si rannicchiò tra le coperte e piombò in un sonno etilico.
Avrebbe voluto dirle tante cose. Dio, quante cose che aveva da dirle. Più la guardava e più tutte quelle parole gli morivano in gola.
Le mani sulla testa, gli occhi umidi… Ian si accoccolò sul pavimento e si sentì improvvisamente più vecchio.
-Tre mesi prima-

- “Sono stanco, Jen, sono stanco!” – Ian urlava, era paonazzo e fuori di sé. Non s’era mai visto in quelle condizioni, l’aveva ridotto uno straccio. Lei era sempre stata questo: un guaio. Nient’altro che un guaio.
- “Lasciami in pace, Ian…”- Jen si stropicciava gli occhi e lo guardava perplessa.
Era sfinita…ma la cosa non lo toccava minimamente. Era stato così pieno del dolore di Jen da non aver più spazio per il suo, che ora avanzava prepotente e ottuso. Non aveva pietà di lei, nel suo sguardo non c’era altro che rancore.
- “Ma cosa!? Ha chiamato tua madre, non ti fai vedere da un mese, credeva che finalmente fossi morta! E avrei potuto crederlo anch’io, dato che hai tenuto spento il cellulare tutto il santissimo giorno!”
-Silenzio. Tensione e silenzio. Jen sapeva di dovergli dare il tempo di calmarsi, di riprendere il controllo e reprimere ciò che pensava davvero. Non furono più di due minuti, ma gli bastarono: lo sguardo di Ian si fece improvvisamente opaco, la furia si tramutò in dolore passivo e represso, si sedette e continuò:
- “Noi avevamo dei progetti. Il matrimonio, la casa e i bambini e… il futuro. Non c’è più niente, Jen, hai ucciso tutto. Ora ci sono io e basta, che ti rincorro e raccolgo i cocci di te stessa, di me e di noi… Li rimetto insieme come posso, ma tu calpesti tutto di nuovo, come se non te ne fregasse niente. E io non riesco a distinguere più nulla… Ci sono soltanto minuscoli frammenti, briciole insignificanti di quello che è stato, mi chiedo che senso abbia raccoglierle ancora, se non sia meglio gettarle via…”
- “Siamo arrivati al punto in cui mi lasci, giusto?” – disse sarcastica Jen – “Aspetta, mi metto comoda. E’ la mia parte preferita, di solito mi ci faccio anche due risate! Sai, il mio comportamento scostante è proprio incomprensibile. Certo, mi hanno licenziata, non ho più una lira e non ho nessuno a cui chiederli, dato che, tra parentesi, mio padre mi odia. Però già, forse sono troppo negativa, nessuno si butterebbe giù per questo!”
- “Ti ho forse ordinato di sentirti meglio? Tu non capisci! Ti sto dicendo di rendermi partecipe! E smettila con questa storia del lavoro, ti prego. L’hai perso perché non ci andavi mai, perché ci arrivavi fatta e perché ti eri fatta odiare da più di metà del personale. La tua vita non è il problema! Lo sappiamo entrambi, purtroppo, che il problema sei tu!”
Ian si era appena lasciato sfuggire qualcosa che non avrebbe mai dovuto venir fuori dalle sue labbra. Rigido e spaventato, con l’aria di chi ha appena sganciato l’ultima bomba, se ne stava lì a tremare e sudare, temendo e sperando che distruggesse tutto.
- “Vuoi lasciarmi?” – Jen lo disse con prepotenza, quasi sillabando. Era pronta.
- “Non banalizzare…”
- “No, non banalizzo affatto. Non sono una donna speciale, non sono di quelle di cui si dice “Quella lì? Oh, quella sì che è una brava persona!”, tant’è che tu stesso non me l’hai mai detto. Non ho progetti che vadano al di là del pranzo di domani e, soprattutto, non ho legami: non ne ho mai voluti. Sono una persona qualsiasi, che ha lasciato andare tante altre persone qualsiasi, che si è mischiata con il mondo e ne è uscita con le scarpe zuppe di melma, proprio come te e milioni di persone come noi! Me ne vado a spasso con la mia bisaccia di errori e di rimpianti, vivo giorni in cui mi odio persino più di quanto mi odi tu, non mi conosco e mi fa impazzire il sapere che tu non sia mai riuscito a conoscermi ma… Tu sei libero! Se vuoi andare via, se non trovi più nulla che sia “casa tua” in me, allora vai! Va’ dove ti pare, innamorati e metti al mondo il figlio che volevi da me! Dio, Ian…La verità è che la vita per me è sempre stata questo, nient’altro, mai nient’altro di diverso da questo! Tu, invece, tu hai così tanta vita! Provaci, se non hai più ragione di essere qui, allora sii altrove! E se anche dovesse andare male, insomma… nessuno ha stabilito che esiste un tempo per essere felice! Sarai libero di essere altrettanto infelice e solo, come lo sei oggi di varcare quella porta e andare via, per essere amato e forse felice, altrove e senza di me!
-“E se non avessi nient’altro? Se non me ne fregasse nulla di me o della mia felicità? E se alla fine, alla fine di tutto questo vivere, non ci fosse alcuna scelta e io fossi soltanto stanco?”
- “Allora saprei di averti consumato, e andrei via domani.”
- “Mi stai lasciando?”.
- "Non banalizzare..."
Risero. Di una risata vuota e senza gioia, una di quelle risate orribili, di cui non restano altro che stridule urla nel vento e un immenso silenzio quando il rumore cessa.
- “Buonanotte, Ian. E addio”.
- "Buonanotte Jen. Sii felice".

Adele Iazzetta

venerdì 6 maggio 2011

Riconoscimento e vocazione letteraria, da una lettera di Mario Vargas Llosa

Stupende le lettere scritte e immaginate dallo scrittore Vargas Llosa, che rispondono a una figura possibile quanto ideale, su questioni fondamentali, riguardanti la scrittura, la predisposizione, la vocazione, l'autenticità. Da uno di questi "ingranaggi meravigliosi", uno stralcio, secondo me prezioso, sul riconoscimento e sulla vocazione letteraria.
A voi:

"Mi azzardo a suggerirle di non contarci troppo, e di non farsi troppe illusioni a proposito del successo. Non c'è motivo che lei non lo ottenga, naturalmente, ma se sarà costante, scriverà e pubblicherà, ben presto scoprirà che i premi, il riconoscimento del pubblico, le vendite dei libri, il prestigio sociale di uno scrittore hanno un percorso sui generis, quanto mai arbitrario, perché talvolta evitano tenacemente quelli che più li meriterebbero, e assediano e opprimono quelli che li meriterebbero molto meno. Perciò chi individua nel successo lo stimolo essenziale della propria vocazione, probabilmente vedrà fallire il proprio sogno e confonderà la vocazione letteraria con la vocazione per gli splendori e i benefici economici che la letteratura concede ad alcuni scrittori (molto pochi). Sono cose diverse.
Forse l'attributo maggiore della vocazione letteraria è che chi la possiede vive l'esercizio di quella vocazione come la sua migliore ricompensa, superiore, molto superiore, a tutte quelle che potrebbe ottenere come conseguenza dei suoi  frutti".
Mario Vargas Llosa.  Da  Parabola della tenia. 

giovedì 5 maggio 2011

Incanto di Maison Tellier e ritrovamenti letterari

Cercavo da un po' di tempo il testo del meraviglioso episodio di Guy De Maupassant, dal titolo La Maison Tellier, espresso in modo incantevole da Max Ophüls nel film Il piacere, basato su tre racconti dello scrittore francese. La Maison Tellier interessa il secondo episodio del film, ed è quello che mi ha toccato di più. Credo che sia davvero raro trovare una trasposizione cinematografica tanto intensa, leggera, ma allo stesso tempo così profonda e ispirata. Un ritorno profondo a sensazioni dell'infanzia. Una musicalità del gesto di ripresa, un silenzio intimo. La finestra che si apre nella notte, per esempio, è uno di quei momenti indimenticabili di silenzio e di splendore, che non sono così frequenti sia nel cinema che nella letteratura.  La versione del film in mio possesso è nella versione originale, quindi in francese, e con i sottotitoli in italiano.  Ricordo ogni piccolo istante di quella pellicola, e per ogni istante si riproducono ancora emozioni nuove e diverse, a distanza. Folgorato mi metto alla ricerca del testo, ma senza sapere di esserne già in possesso. Collezione Bur: volumi grigi e molto piccoli, da leggere con fatica ma altrettanto utili per fermare il tempo e favorire una certa perdita – l'odore dei libri appena estratti dagli scaffali, rappresenta una prima tappa di una certa perdita. Credo che i più accaniti lettori potranno capirmi quando parlo di sensazioni olfattive anche sugli involucri, e non soltanto sui contenuti di un testo. Da questi scaffali,  giusto ieri, ritrovo il libro di Maupassant con il titolo del racconto in oggetto, in una Prima edizione del 1950 insieme a una bellissima edizione integrale della Gerusalemme del Tasso – ero in possesso di una Gerusalemme dell'Einaudi, molto articolata nel compendio critico al testo; di sicuro da confrontare. E infine il Don Chisciotte di Cervantes. In quattro volumi quasi intonsi, e da accecarsi per la grandezza dei caratteri. Accecarsi per un libro è forse l'inizio di una nuova vista? O vita? Potrebbe essere una forma sottile di doloroso piacere, anche quella.
Vaneggio. 
Adesso un solo filo di incipit, prima di andare...

Si andava lì tutte le sere, verso le undici, semplicemente come si va al caffè.
Guy De Maupassant

mercoledì 4 maggio 2011

Un taglio interessante sul surreale

È un taglio di Thomas Bernhard:

Il surrealismo del maestro era di un tipo completamente nuovo, non si trattava nella sua arte di una tematica surreale che il maestro mostrava, tutto ciò che era disegnato sui fogli del maestro non era nient'altro che la realtà. "Il mondo è surrealistico da cima a fondo", disse. "La natura è surrealistica,  tutto è surrealistico" disse mio padre.

Thomas Bernhard.  Perurbamento

Una questione di confini, a volte molto più sottili di quanto non si creda, o meglio, di quanto non si immagini.

martedì 3 maggio 2011

Post dopo un temporale

Ha smesso da poco il temporale. Pensando: che i peggiori momenti di sconforto hanno sempre una radice molto nebbiosa che li complica. Non sono chiari. È quella la loro parte più complessa e affilata, quando sono nel pieno della stretta e non lasciano spazio sufficiente per un'inquadratura pulita del problema. La loro natura risulta confusa e illusoria. Le cause a volte sembrano inconsistenti, ma sono associate a tante altre piccole accidentali dinamiche e frizioni, che messe insieme provocano l'uragano.
Il dramma è che molto spesso è quella stessa natura confusa e illusoria che contraddistingue anche quegli stati d'animo opposti,  quelli associati con i momenti  migliori, ma con la differenza che questi momenti più radiosi e positivi, lasciano molto meno spazio a riflessioni e introspezioni, pur essendo, in diversi casi, ugualmente illusori e privi di una radice chiara e pulita da analizzare. Sono contento se i personaggi di una certa storia vivano con me o con qualsiasi scrittore questi contrasti, o quanto meno il profumo incerto del primo piovasco sulla campagna notturna. Penso che sia molto importante introdurre, anche in situazioni irreali, moventi concreti di vissuti illusori ma personali, da sciogliere e articolare dentro un certo impianto narrativo. Lasciarli scorrere e vedere poi che cosa succede. Dove arrivano. Lo trovo vitale. E a volte lo cerco e lo annuso, nei personaggi delle storie che leggo e che amo, come piccoli segnali cifrati di una certa idea complessa della vita e dei suoi dolorosi ostacoli e temporali da superare.

domenica 1 maggio 2011

MaggiooiggaM/ Specchio d'acqua serale

Un mio specchio d'acqua d'inizio mese; appena serale:

Masticando da fondali
Anemonia Viridis  Procidana
Giallini di limonastri
Gelati blu di fregola
In macchine aperte
Oziose farfalle pensanti
Oro bianco nelle nottate
Intime dalle lenzuola
Gentilezza di gambe e
Ginocchia Giunoniche
Aspettando che mi rilassi
Magistralmente il Maggio;

Scrivere e tacere di Maggio

L'inizio di un mese che amo. Il mese della mia nascita e di quella di mio padre e di mio nipote. Il mese in cui uscirà il mio romanzo Il disabitato.  Dovrei o potrei scrivere l'impossibile in questo post d'inizio mese, ma mi limito a scrivere che ho un gran sonno e che mi sento molto avaro di pulsioni e di intenzioni. Esistenzialista.
È appena arrivata una linea pallida di sole, sul mio balcone. Un cane abbaiava, fino a qualche istante fa. E adesso mi manca, perché ha già smesso. Ma mi mancherebbe allo stesso modo questo bel silenzio che ha lasciato nell'aria la sua bella codina, se dovesse riprendere ad abbaiare. Che silenzio squisito, adesso, a quest'ora del pomeriggio. Cosa si potrà mai desiderare di più?