Scrivere senza speranza, è la più grande certezza. Ma allo stesso tempo farlo come se quelle parole fossero le ultime della mia vita. Non trovo una contraddizione. Scrivere a volte è la ricerca di un sentirsi amati che non si conosce, la stessa che ti costringe a non amare, se inciampi nella rogna della cattiva abitudine a farlo per mostrarlo o dimostrarlo, e non per svanirvi dentro. Se l'acqua non raggiunge i 100 ° non credo che abbia tanto senso. Non credo possano mai esservi speranze per ciascuna forma di espressività, quando sia infiammata da una certa foce di feroce e viscoso talento. Il talento cattivo inchioda lo scrittore alla sedia a rotelle del sogno stupido di poterlo cavalcare e scavalcare, come un cavallo baio o una ruota panoramica stagliata in un abisso al crepuscolo, e di poter raggiungere i punti più alti dove guardare un paesaggio irreale, un precipizio, o la stella polare che fuma anelli celesti da un comignolo rosa di Cerreto Sannita, dimenticando il piccolo incanto del molto altro. Il talento va ignorato. Non ci sarà mai nessuno così onesto da riconoscerlo, quando è puro, nessuno così coraggioso da contestarlo, quando invece è impuro e fittizio. I pochi competenti rimangono muti, e lo ignorano se c'è. Così come ignorano lo scrittore accanito e barcollante che ne sia privo. Tutti in una stessa fornace. Sublime e tecnica indifferenza. Rimarrà così la maledizione ringhiosa dei più fragili, di quelli che continuano a scrivere per il solo bisogno di essere amati di più. Una sorta di marchio bovino, una forma raffinata di follia del grafomane. Va bene così: è una strada cieca. Vi sono migliaia di persone che sono meravigliose in quello che fanno, e non pensano minimamente che quel loro fare debba ritornarle indietro, prendere una forma definita, dispensare certezze. L'atto di scrittura migliore equivale al gesto del chitarrista, molto giovane, che ho visto stamattina. Stava suonando, con una mano sciolta e molto tranquillla, sopra al prato dove di solito vado ad asciugare le mie sudate di jogging. Di fronte a lui una ragazza distesa, di cui scorgevo le caviglie accavallate l'una sull'altra nelle scarpette ballerine, e un ragazzo accovacciato accanto, a farle da ombra. All'aperto quel suono sottile e vetroso di vari stralci sonori, si dipanava, e tagliava l'attimo silenzioso nel sole del mezzogiorno. Pensavo: se solo riuscissi a scrivere un rigo, anche uno solo, nella mia vita, con tanta naturalezza, scioltezza e libertà da intenzioni, vincoli, rigori, schemi precostituiti, condizionamenti, verità, assiomi, radici culturali, fobie di linguaggio esatto, stralci semantici, copioni, riverberi, gestioni, rigori, languori o crepacuori. La musica del dilettante spaccava l'aria come un coltello da cucina nelle mani di una bambina cieca, una notte di luna nuova sulla nuca di un'anziana che l'ha perduta. Non c'era intento di perfezione, ma i passaggi sulla corda erano colmi di mistero e di poesia visionaria. Non credo che quel ragazzo avrà mai avuto grilli per la testa. Probabile che farà l'università, o avrà un gruppo rock con cui si spaccheranno le dita in una cantina o nel boxe di un garage, due o tre volte alla settimana; ma quei momenti di suono saranno estranei a qualsiasi logica di economia, di volontà a qualsiasi tipo di accumulo, di ricerca, di movente, verso qualcosa di altro e di lontano, ma non disgiunto dal senso profondo e unico di quella gran bella giornata passata, dalle caviglie eleganti e incrociate della ragazza che gli era di fronte, con le calze lilla, oscurata dall'ombra del suo amico assorto e silenzioso, che ascoltava. L'arte ha la perfezione medica dell'abisso di un attimo, che non ritornerà mai più se non sei bravo come l'ape al tempismo immediato di suzione del suo nettare o veleno. Eppure quei pochi passaggi e il tipo di tocco ispirato e così istintivo, forse non educatissimo, avranno fatto impallidire migliaia di pagine che ho sognato o che ho elucubrato nella mia mente e nella mia vita, privandole della spina naturale del giorno di vita in cui le ho vissute. Eppure sono immerso e sommerso da progetti: la scrittura è una lunga e lucida ventosa che mi intuba, a volte la mia balia, in alcuni momenti il mio ossigeno, ma senza nessuna speranza, nessuna che mi distolga dalla vibrazione naturale verso la mia vita senza parole, senza la quale non avrebbe alcun senso impugnare una penna. Voglio imparare a dissanguarmi e a ricercare nelle parole qualcos'altro, che non sia la mera ricerca di sfoggiarle. Il mio linguaggio non deve essere di tessuto pregiato, ma deve odorare delle mie coronarie, del mio pancreas, della mia corsa in salita. Il gruppo è rimasto al sole, ero disteso e quindi non li guardavo più. Devo progettare una divagazione o un saggio, su come sia bello imparare a scrivere o a modellare il proprio impulso naturale a macinare parole, da fattori che siano immersi nella luce e non nelle feci del proprio regno incontaminato, con sudditi fantasmi che ti allacciano le scarpe e distendono le gobbe dei tappeti al tuo passaggio. È molto tardi. Credo che dovrei comunicare le mie parole in primo luogo al passero che beve nei sottovasi, sul mio balcone, quando la pioggia li ricolma per bene e lo sazia di luce riflessa, nel bianco neve che stacca nel sottogola, dove gli allungherei un piccolo bacio, se solo riuscissi a non farlo scappare. La mia sola speranza di scrittura sarà di baciare il sottogola imbiancato di un uccellino, sentirgli il cuore che spinge e riconoscervi la macchina da corsa delle mie paure più lontane. Una scrittura dell'impossibile, senza l'interferenza del sogno complesso e della volontà di misurare quello che si fa con quello che si è. Se riuscissi a scrivere per quel passero e diventare la sua acqua di quel momento, lo schiocco e la vibrazione del suo becco, allora avrei la stessa calma indiana del tocco chitarristico del ragazzo. Che forse avrà già dimenticato la filigrana di quelle note, che avranno lasciato un loro profumo, senza cercarlo né mai volerlo.
Come una distesa stellata in pieno giorno.
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