giovedì 29 novembre 2012

Fuori piove a dirotto. Devo decidere cosa fare di questo post:

Fuori piove a dirotto. Devo decidere cosa fare di questo post, l'ho appena iniziato e non so dove mi porterà. Sento dentro di me la tentazione di cliccare su  Esci, in alto a destra, subito dopo anteprima, e distruggere per sempre questi primi righi, non renderli visibili, mai più recuperabili. Che cosa mi frena e mi fa continuare, adesso non so che cosa sto scrivendo, le dita battono, come la pioggia fuori dal balcone, e bagnano qualcosa, nel buio. Sarei ancora in tempo per distruggere tutto, in fondo sono appena al sesto rigo, ecco, sono quasi alla metà del sesto, adesso posso dire di essere quasi alla fine del sesto, adesso al settimo, ma è davvero divertente, potrei continuare all'infinito, in attesa che qualcosa mi accada, e continuare semplicemente descrivendo il punto esatto di pagina dove sto viaggiando. Ma che senso ha tutto questo? Questo impegnarsi a parlare, a decidere se bruciare quello che ho appena scritto, se invece svilupparlo, articolarlo, renderlo appena più commestibile o ancora più atroce. Non sento più la pioggia. Se avessi cominciato un romanzo in questo modo, avrei già inforcato diversi divieti di sosta, sono ancora sveglio e performante, potrei non distruggere tutto questo, perché almeno qualcosa è cambiato: l'intensità della pioggia e anche la volontà di gettare al macero questa vita polverosa che continua, continua ancora a sciogliersi, adesso ricomincia la pioggia, la sento più intensa, ha la stessa intensità del tocco delle dita sulla tastiera, questo significa che piove forte, ma adesso non posso più orientarmi sul numero dei righi, se volessi riempire ancora spazio e intrattenermi, mi dovrei solo fermare per contarli per bene, ma chi si ferma è perduto, da quando ho cominciato questo post non ho fatto una sola pausa, eppure credo di essere cambiato così come la pioggia, e la mia decisione, anche quella è cambiata, come vedete sto ancora scrivendo assolutamente di un vuoto assoluto, come può essere il rumore dell'acqua, il colore della birra o della lingua dei cani, di quello che farò domani, di quanto mi preme gingillarmi e prendere in giro il mondo in questo post. Eppure un motivo per cui ho cominciato ci doveva pur stare, anche quando sembra che non vi sia un motivo, esiste sempre qualcosa che preme e che si diverte a sfuggirti, fino a quando non la prendi, credo che adesso stia arrivando, la sento così vicina, adesso è come un odore, è più forte del conteggio dei righi, della tentazione di cassare il post o di descrivere la pioggia, ma è un'immagine di me davvero piccolissimo, che in una sera d'estate, per la prima volta avevo deciso di giocare con dei bambini un po' più grandi di me, nel cortile di un albergo dove villeggiavo. È passato molto tempo, ma di quel primo momento di distacco dai miei, ricordo perfettamente tutto. L'intensità delle luci, il tipo di gioco, credo che fossimo allineati, bambini e ragazzine, una sorta di gioco del fazzoletto, ma doveva esserci qualcuno che gestiva il tutto, sono certo che per me era già molto tardi, erano passate le nove e mio padre non era con me, credo sia stato il mio primo dopo cena della mia esistenza passato da solo senza di lui, e così, mentre giocavo, avvertivo il montare della nostalgia, mi guardavo intorno, guardavo le finestre accese e spente delle stanze d'hotel, ma ecco che di colpo, nel pieno del gioco, è lui che mi compare davanti, come se avesse avvertito il mio richiamo. Si fermò a guardarmi giocare, io, non appena mio padre era arrivato, ho cercato di mascherare il mio bisogno di lui, e ho giocato un ruolo di piccola indifferenza, mentre i suoi occhi mi dicevano di quanto anche io gli mancassi, anche se per così poco, e di quanto fosse anche felice di quel suo piccolo sacrificio. Non credo che mio padre abbia mai saputo che il sacrificio era stato anche il mio nel rinunciare a lui. In quel gioco di gruppo mi sentivo ancora solo, perché non c'era lui, proprio come adesso, mentre ne scrivo. Non so perché non gliene ho mai parlato, forse speravo che cominciasse lui, o credevo, come forse sarà avvenuto, che lo avesse scoperto da solo, dal mio sguardo così strano e difficile, quello stesso con cui ancora adesso guardo il mondo....
Adesso, volendo, potrei anche cancellare tutto, ma invece cliccherò sul rettangolo arancione di Pubblica. Non so nemmeno io il perché, ma lo faccio:
forse perché la pioggia è diventata molto silenziosa.

mercoledì 28 novembre 2012

L'ospite (estratto da "Il cattivo tempo: bad poems")



L'ospite

La luna si addentrava in cucina,
come un gatto impregnava
il tavolo, una scodella rossa,
il tuo braccio disceso.
Saremo stanchi o già morti,
se quel bianco ti ha raggelata,
credendo fosse una volpe
hai già franato di paura.

Mi hai teso una mano,

ti ho lasciato scorrere
la paura negli occhi bassi,
l'ho allontananata
con un solo dito,
appena un punto sotto
l'occhio sinistro,
scostandoti i capelli
pesanti dagli abissi
del sentirti già amata.
La paura, la volpe e la luna
sono ritornate fuori,
in aperta campagna
c'era un odore di latte.
Dall'altra stanza un bambino
si domandava della morte,
e la sua madre muta
gli sbadigliava neve
dentro una bocca.

domenica 25 novembre 2012

Troppi dolori addosso: (Un pensiero per un giornata e una vita contro la violenza sulle donne:)





Troppi dolori addosso


La nottata che farfuglia
tra i pochi rimbombi
l' ultima voglia
del mese,
nel raglio
di un palo
della luce
da voler
poco a poco
scomparire
nelle dolci
penombre
di Aprile
e dei racconti
di avventure.

(A una ragazza,
in quella stessa sera,
qualcuno ha spezzato
il braccio sinistro, 
nel crollo di una chiavata;
"si è pensato
a una punizione
perché vestiva
troppo corto,
telefonava di nascosto
con un vestito
stretto e rosso.
Troppi colori
addosso,
anche il fratello
del ragazzo
ha detto
lo stesso").

Adesso fischio alle nevi
più alte dell'eremo,
che smozzicano
come volpi il tuo pallore 
da una luna di muro,
sbandata nei tuoi tacchi
 al vomito terso
del firmamento,
allontanando
il perdifiato dei primi cani,
dai vespri più fragili
e teneri dei fidanzati.
l.s.


sabato 24 novembre 2012

Sale da ballo (improvviso) estratto da "Il cattivo tempo: bad poems"

Sale da ballo (improvviso)

Di sera
si arrendono
i tavolini
dai bar
e si addensano
luci di candele
dai vetri d'oro
dei ristoranti,
nei tovaglioli
le nuvole chiare
dei visi stanchi
sanno di treno;
gli occhi a mandorla
sbirciano
carezze
americane
sulle calze
nuove
e nerine
di seta,
ma non hanno
la forma rotonda
dei bei ginocchi
pieni delle musiche
e dentro i bicchieri
ancora belle giravolte;
si allacciano il fumo
dei polsi alle nuche,
piove e c'è un vento
da lupi sui capelli
corti della tarda ora,
e c'è chi ancora,
per una tempia
a filino di guancia,
un pochino
si tormenta,
si addormenta
e ti innamora.

giovedì 22 novembre 2012

Estratto di intervista a Roberto Calasso

mercoledì 21 novembre 2012

Indifferenza da "La notte" di Michelangelo Antonioni

martedì 20 novembre 2012

Il talento e i processi di revisione

Nei processi di revisione si alternano di continuo diversi livelli di appagamento e di apprendimento, legati in primo luogo a come credevo che fosse questa robaccia che ho tra le mani, e che fino a ieri pareva funzionare, o ancora: chi mi credevo di essere io per essere in grado di valutare una certa chiusa alla revisione di questo letame, meno male che ho controllato...
insomma, questa è routine, una lotta infinita in questo percorso itinerante di illusioni, fraintendimenti, punti di svolta, strazi, stati d'animo contrapposti, intuizioni, ripensamenti, sensi di colpa, quando ormai non posso più intervenire, ma qualche volta, invece, accade quel qualcosa che ti fa pensare che il bello del gioco è proprio nel disordine del cantiere. Nelle ferite, nella polvere di marmo, nella bevuta di una bevanda ghiacciata al sole, dopo la nebbia fitta di un ultimo paragrafo.
Imparo sempre di più che quello di cui si è capaci, quello che ti viene naturale, non è sempre un merito. È solo un inzio, non sei quasi mai tu. Il talento non dice di me qualcosa di più di quello che non mi riesce e mi sfigura, non credo proprio che sia io. Chi si identifica col proprio eventuale talento, senza interessarsi a tutto il resto, scrive per se stesso e non per gli altri. Scrive per dare alle proprie capacità una boccata d'aria, ma non sempre alla propria vita. Non credo che la personalità di uno scrittore si limiti al suo valore o al suo talento, ma abbraccia il mistero molto più ampio della sua vita non scritta e non conosciuta. 
Oggi si valutano le capacità delle persone dai propri doni, dalla propria quantità di talento, ma non dall'equilibrio molto più ampio di altri fattori qualitativi di interazione, dalle soglie di sogno, di buio e di dolore che un'esperienza creativa trattiene e cede, come nell'orgasmo di un maroso.
Che merito c'è a ricevere un dono? Che cosa ho fatto per meritarmelo? Mistero, hai avuto un dono, chiuso, con questo dono sei un eletto, il resto non ci interessa.
I regali è bello farli agli esseri viventi, e farli piangere di gioia per una sopresa, una citofonata imprevista, per cose vive, che fanno bene e che non sono numeri olimpionici. La semplicità...
Ho scritto di getto gli 85 monologhi, in poche sere, ma non credo che vi sia un merito in questo. Il merito è, secondo il mio modesto parere, il tipo di dedizione amorevole e sollecita ai propri tentativi, alla codifica, al lavoro vivo e scrupoloso sui testi. Alla ricerca di un proprio suono e non solo di un proprio acuto. 
Questa odissea di rapimento, turbamenti, odio e fatica, sono quello che ci rimarrà, l'amore per un tempo che è stato nostro, da non misurare con quello di qualcun altro, ma con quello che si era e che si è diventati, nell'esercizio assurdo e delicato di questo impossibile amore.

sabato 17 novembre 2012

L'attenzione a uno scritto. La nostalgia verso chi scrive

Dove mi giro vedo persone che scrivono, che descrivono e che cercano in tutti i modi di far sì che qualcuno sia disposto a leggere di questi scritti, di queste descrizioni. A dedicarvi del tempo. A lasciarsi trasportare. Sta diventando molto comune, almeno così la vedo, il desiderio di esporsi e di imporsi all'attenzione, spesso implorandola, sentendosi bene o anche male al solo pensiero di sentirsi letti, semmai immaginando che molte persone a cui si è appena ceduto il dattiloscritto, non stiano pensando ad altro. Cercando un pretesto per telefonarle, senza accennare subito al discorso scrittura, ma andando al largo, in attesa che da un momento all'altro, o anche a inizio telefonata, quello dica: 
"Che cosa incantevole, non pensavo, ma qualcosa di simile, insomma, ma come fai? Me lo dici, è impossibile che con le parole si riesca, ma certo, certo, l'ho letto tutto di un fiato, è stato qualcosa di...come? Sì, il punto della vecchietta che si divora una castagna bollente con tanto di buccia, e del venditore di arance, sì, quando la squarcia e trova un grillo verdissimo e bagnato, che gli salta in bocca, sono scoppiato in lacrime, ma certo, credo che questo tuo stile abbia qualcosa di spaventosamente originale, senza dubbio, adesso lo dovrò passare a Rosanna, vedrai che lo passerà anche alle sue amiche, scusami se non ti ho chiamato io per dirtelo, sai come vanno certe cose, il lavoro, i bambini, adesso anche la danza classica per Ludovica, uno ci pensa, adesso lo chiamo, adesso glielo dico, comunque non appena Rosanna lo attacca, avrai una telefonata per ogni capitolo, con tanto di resconti, sono certo che dirà che sei un genio, anche io credo che tu sia un genio, non ci è mai capitato di conoscere un amico genio, geniale, che scrive in questo modo così diverso, di vecchie che divorano castagne e di grilli bagnati che saltano dalle arance nelle bocche di un venditore, il tuo verde e il tuo arancione saranno i colori della nostra nuova casa, intendo abitazione, no, non parlo di una casa editrice, lo sai che dobbiamo trasferirsci, no? Si tratta ancora di poco, vedrai che quando saremo più vicini potremmo gustare di più la tua genialità insieme ai nostri nuovi amici, e credo che anche loro avranno piacere di leggerti, tu permetterai naturalmente che noi, ma certo, certo che organizzerò una cena sul tuo testo, tutta in tuo onore, faremo l'orata alla brace, sappiamo che ti piace tanto, ma ci mancherebbe, mi hai appena tolto le parole di bocca...",
e così via. Se questo invece non avvenisse, allora il soggetto in questione verrà abbandonato, non più frequentato con la stessa assiduità e intensità di una volta. Rottamato, dopo quel torturante assedio fallito.
Questo è quello che sento un po' nell'aria.
Tornando sulla terra. Cosa c'è di male a scrivere a descrivere e a cercare in tutti i modi che qualcuno sia disposto a leggere e a rileggere gli scritti? Nulla, a meno che non si dimentichi completamente la prospettiva di un ascolto e di un ricambio di attenzioni verso le persone che si assalgono in una sorta di writing-stalking. Chi sa ascoltare, non ha bisogno di mendicare un'attenzione per quello che scrive. Di sognare la celebrazione. Uno scrittore che mendica attenzione o celebrazione, non ascolta e forse non si rende conto di quanto sia difficile riuscire a intrappolare una persona anche per un solo secondo, sfiorarla appena con la parola scritta! Ci vogliono un'infinità di cose, alcune visibili e tangibili, altre inspiegabili. Un accordo di un medio pianista, messo al momento giusto, già ti semina. Uno scrittore non deve competere solo con altri scrittori e scritti, ma anche con altri linguaggi paralleli che possono spiccare per intensità e per tanto altro. Io la vedo così.
C'è bisogno di ascolto. Un ascolto assoluto e silenzioso. Lasciare i pochi scritti a chi dimostri un interesse e quindi coronarli come un aspetto più complesso di relazione, che non sia blindato nella prospettiva murante di un senso unico di assedio, ricezione, fruizione, ingurgito, decantazione.
Vi sono molte persone della mia vita, ma davvero tante, che non sanno che io scrivo. Non sanno che ho questo blog. Non sanno un accidente di questo mio lato oscuro. Qualcuno lo ha saputo da altri, ed è rimasto anche male. Io ho detto che non scrivo, non si scrive fin quando non si cambia qualche piccola cosa nella giornata o nella prospettiva di chi ti legge, o ti elegge. Nello sguardo. Fin quando non si rimane un po' nell'aria in modo che quella lettura sia un piacere per un lettore e non per lo scrittore. Io non posso provare piacere nell'essere tollerato. È molto più edificante ed espressivo essere riconosciuti e amati dalle persone della mia vita per quello che sono e non per quello che tento di fare o di gridare ai quattro venti. Solo quando quello che fai diventa quello che sei, allora qualcosa può accadere. Quando lo scrittore diventa una piccola mancanza, qualcosa a cui ogni tanto si ritorna, senza nemmeno volerlo, come una sorta di nostalgia. Solo in quel caso qualcosa avrà infranto il confine tra lettore e scrittore e avrà dato un senso e una direzione nuova allo scritto.
L'importante è imparare ad ascoltare gli altri, e mai utilizzarli come strumenti di ascolto,  ma come persone da cui imparare e da cui attivare una relazione sana e nutriente di scambio.
Non credo necessario imporre attenzione, se uno scritto avrà gambe per camminare, lo farà da solo, in qualche modo. L'importante è allacciargli le scarpe per bene e consentirgli una piccola strada sterrata.

Tutto qui.

mercoledì 14 novembre 2012

Breve estratto da "Il cattivo tempo: bad poems"



Il tuo scorcio dal tram
di questa sera,
ha la fuga di un sorcio
rosso & grigio,
che imbuca
e imbroglia
il tuo golfino
nel groviglio
(e nel
gran
balzo
le tue calze
da schianto
Asos Fair isles),
divorandosi
il frullo del
mio cuore
come
formaggio
alpino
di Fundres.

Thomas Bernhard e sua madre, da Pinterest:

lunedì 12 novembre 2012

Il terrore dell'invisibilità



Negli 85 monologhi,
la più grande costante
è il terrore dell'invisibilità,
quello di non esistere più
di non essere mai esistiti,
in una certa memoria
enormemente amata,
cosa che spesso
non avviene
con i defunti,
dove si avverte
sempre quel
contatto vivo,
anche se doloroso,
di sensazione muta
o di vago conforto,
nel sentirsi più amati
anche da un'assenza.
La malattia nervosa,
in alcune sue forme
e particolari sindromi,
riesce a creare
una spessa cortina
vicina a una morte in vita
senza risoluzioni di sorta.
Parlo dell'impenetrabilità
pietrosa di alcuni stadi,
dove una persona
è murata in un altrove
inscrutabile, riavvolta
o mummificata dentro
uno stadio
di sogno
senza sonno
o di sonno
senza sogno.
Ho cercato
di analizzare,
in questo frangente,
la possibilità
di un amore.

domenica 11 novembre 2012

Coincidenze e misteri.

Certo, rimane singolare:
sono reduce dalle ultime rifiniture dei monologhi de "Il chiodo nella lampadina", un percorso che si snoda entro uno o più fili narrativi in sequenze parallele epistolari, abbastanza dense di simbolismi, citazioni, passaggi segreti, piccole sperimentazioni (troverete di più e nei dettagli, nello spazio apposito che gli ho dedicato e ho adibito per un certo progetto), quando oggi, a pranzo, un rumore forte e deciso, che ci fa balzare, proveniente dalla cucina.
Strano a dirsi, ma una delle lampadine che illuminano la base del forno, si è infranta da sola.  Ma non perché sia caduta, il connettore a vite era ancora fissato; si è semplicemente infranta, o stancata di esserci o per mandarmi un segnale o un vai a farti fottere, perché no.
Nulla di che, ma questo piccolo episodio mi ha fatto avvertire ancora molto viva la corrente interrotta della mia storia. Il suo significato. Il suo piccolo chiodo che batte nell'aria, forse per paura della possibile dimenticanza che tutte le fatiche e gli innamoramenti creativi annusano del loro possibile nebbioso destino, spesso inesorabile, alle spalle del loro autore.
A quest'ora, nel silenzio della mia casa, scrivo e ripenso al piccolo capriccio eroico di quella  lampadina, che  mi ha fatto sentire amato da quello che ho scritto, come se in qualche modo mi avesse mandato un bacio di addio dai suoi vetri o dalle mie pagine, questo a suo e a mio modo, naturalmente. In una sorta di indisciplinato quanto fantastico appagamento.
Chi leggerà il libro capirà...
C'est tout:
nuit...

Qualcosa di molto lontano

La memoria abbraccia uno spazio e uno spettro molto ampio di riferimenti e di possibilità.
Qualcosa di molto lontano, che ho visto e che ho vissuto da bambino e che ho ricordato:
oggi pomeriggio ho ricordato la bicicletta del mio nonno paterno, una bicicletta da corsa nera, che gli fu chiesta in prestito da una ragazza con i capelli lunghi, cliente del nostro stesso albergo. La bicicletta le fu prestata, ma la ragazza tardò parecchio ad arrivare, credo che tornò quando era già sera inoltrata. Mio nonno era molto agitato, passeggiava lungo l'ingresso, accanto al cancello, si affacciava di continuo per controllare quando quella cliente ciclista arrivasse; addirittura sospettava che quella ragazza coi capelli lunghi fosse una ladra e non una cliente del nostro albergo, ma io non potevo immaginare che i ladri fossero ragazze coi capelli lunghi. I ladri erano uomini con i capelli corti e con le mascherine ben strette sugli occhi, che arrivavano a notte fonda, e non nel nostro albergo. Quando la ragazza tornò era una ragazza diversa, aveva nello sguardo qualcosa di spaventoso: l'oscurità della sera negli occhi e nei capelli lunghi. Aveva gli occhi lunghi e scuri, come i capelli. Io credo che non sia più tornata quella stessa ragazza del pomeriggio; il viso era il suo ma era devastato da qualcosa che lo rendeva spaventato e infelice. E anche la bici del ritorno non è stata mai più la stessa, nei miei occhi. 
E in quello stesso albergo, ricordo una notte, credo di quella stessa estate, dalle finestre, era molto tardi, sentire dei clienti cantare. Erano clienti dell'albergo, di varie nazionalità, tedeschi, inglesi, francesi, c'era anche un medico egiziano che cantava insieme a tutti gli altri, canzoni napoletane molto antiche e stonate, in coro e tutte con l'accento sbagliato. E dal mio letto vedevo le ombre di una lanterna sull'intonaco rosa, e provavo lo spavento per  tutti quegli accenti così diversi, intrecciati al dialetto antico, nelle diverse faticate tonalità, che cantavano e sembravano felici ma toccavano il mio sonno dell'infelicità di quella ragazza tardiva sulla bicicletta nera di mio nonno, quelle voci, come se fossero mani bagnate che mi toccavano la faccia con i capelli lunghi.
Nella stanza ero da solo con mia madre. Nel giardino dell'albergo, a quell'ora, si sentivano anche i limoni, anche quelli molto verdi, che con il loro odore sostituivano le chitarre  nell'aria della notte e non lasciavano dormire per quanto entravano con forza nelle camere d'albergo, come ladri imbavagliati. Le voci straniere e le canzoni napoletane e la ragazza che era tornata in ritardo e diversa con la bicicletta del nonno e i limoni del giardino dell'albergo, diventavano lunghe ombre tremende dentro il mio cuore di bambino nella notte fonda; tutta la mia vita di quel momento era dentro quell'unico gorgo. 
Le imposte della nostra camera erano socchiuse. E durante il ritornello sembrava che la mia notte avesse dei custodi speciali. Mio padre era anche lui laggiù nel cortile del nostro albergo, insieme agli altri stranieri, uno dei custodi speciali che cantava, era il migliore. Molti anni dopo, a notte fonda, uno dei clienti e custodi speciali di quella serenata dolcissima, lo chiamò a casa, con una voce disturbata, implorante. Gli disse che voleva morire. Poi abbassò.

mercoledì 7 novembre 2012

"Il chiodo nella lampadina. 85 monologhi cluster": sinossi.



Teo incontra una giovane donna in un aeroporto, di sfuggita, poco prima di partire per Parigi. Al suo ritorno la rivede in una sala da tè, e in altre circostanze piuttosto strane, che lo avvicinano sempre di più verso un mondo nuovo, delicato e misterioso, che lo attanaglia e lo rianima dal suo piccolo quotidiano borghese e rassicurante, verso una dimensione completamente nuova e spiazzante, quanto irresistibile e crepuscolare.
La relazione prende piede con una certa tragica vitalità ansiosa, ma stagliata su di un fondo abissale e incantevole, dove Teo non riesce mai a toccare, e dove si affanna con ostinazione a ritrovare a tutti i costi un suo ruolo e un senso definito e compiuto, murandosi, giorno dopo notte, nell'esplorazione di quel viale decadente e serale, senza entrata né uscita, del quale non riesce più a fare a meno. In leggero contrappunto, l'arrivo di alcune lettere anonime da parte di un misterioso mittente, che cerca di avvicinare la coppia all'unico fratello vivo della donna. 
In questo rapporto così intenso e complesso, la giovane donna esprime a Teo le sfumature di un suo universo artistico e mutante, come se dedicategli, che gli rivelano, per gradi, una sua particolare concezione e percezione della vita, del sogno e delle cose quasi reali, così diverse da come lui le credeva o le immaginava. Ma, nello stesso tempo, i sintomi sempre più riconoscibili di una spaventosa sindrome nervosa, che attanaglierà i riferimenti più teneri e lo sfondo incantato e nebbioso di entrambi, travolgendoli di quella stessa alluvione. 
Gli 85 monologhi cluster, sono 85 diverse prospettive e rivisitazioni di questa esperienza e del grande mistero di questo ritratto di solitudine insulare, che Teo rielabora e cerca di schiarirsi dentro, a una certa distanza, cogliendo nell'atto doloroso di espiazione-epistolare della memoria, un significato e una nuova soglia di concezione e di percezione della sua vita, del sogno e delle cose quasi reali, ancora diverse da come le credeva o le immaginava.
 “Il chiodo nella lampadina” rimane una metafora sulla dicotomia della possibilità e dell'impossibilità, tra il reale del sogno e l'irreale o quasi reale del più certo e del concreto. 
E ancora: il triangolo scaleno: amore-arte-malattia; l' archetipo e inconscio collettivo, di Jung; il valore assoluto e incomparabile di un qualsiasi amarsi. Nonostante.
(Il cluster, in musica, rappresenta l'esecuzione simultanea di più note adiacenti, con un effetto molto duro, metallico e invasivo. Come se esploso nel vetro).


martedì 6 novembre 2012

Un crepuscolare: Fausto Maria Martini

Sul finire di quest'estate, trovo un bellissimo testo sui poeti crepuscolari, dal taglio prettamente antologico, curato da Francesco Grisi. I vari autori trattati sono presentati in primo luogo da una selezione ben nutrita di loro versi, estratti tra le varie raccolte più signficative, per fissarne connotati stilistici, impronte e tipo di ricerca. Tra questi, tra i più o i meno noti, condivido questo singolare e confidenziale momento, giusto le prime due strofette di Quando venisti, un testo silenzioso, per paura che si interrompa la pace di un sonno domenicale e sospeso, sussurrato, scritto in forma privata o accennato in un orecchio, come un piccolo o tragico segreto doloroso; ma anche immerso nell'aperto e nella freschezza di un mattino assennato e muto, ma cosparso già di un'ubriacatura sottile che quasi si odora nel suo dilatarsi, così come la presenza ancora invisibile sfiorata dalla seconda persona nel secondo verso, e poi subito ritirata in un cassetto, così bene annunciata da elementi in apparenza estranei, animati e inanimati, ma che vivono di riflesso uno stadio di misterioso e comune mutamento nel tempo. L'ho trovato incantevole. È di Fausto Maria Martini, poeta del gruppo dei crepuscolari romani, estratto dalla raccolta "Poesie provinciali". Giusto un accenno:



Ricordo la domenica lontana,
quando venisti...Stava addormentato
nel sole, un mendicante, sul sagrato
della chiesa e dormiva la campana.

Dormiva nella cella solitaria,
in alto, in alto, quasi oltre la vita,
quella che all'alba sveglia la sopita

gente e nel vespro s'ubriaca d'aria. [...]

Estratto da Quando venisti di Fausto Maria Martini (1886-1931)

Qui, un interessante articolo di Roberto Carnero sul Crepuscolarismo, dal sito di Treccani.it.

lunedì 5 novembre 2012

Writing-Koan: la scrittura reattiva

Credo che:
se dovrò scrivere da cento, dovrò sapere almeno duecento, meglio cinquecento, o anche mille.
se dovrò scrivere da mille, dovrò sapere al massimo duecento, meglio cento, o anche cinquanta.

sabato 3 novembre 2012

Il chiodo nella lampadina: una strana sinossi

Questo autunno si è presentato molto più ricco di scadenze, di imprevisti, di nuovi contatti, di sorprese, scritti recuperati, dimenticati, trasformati, rielaborati, insomma tutto molto bello ma anche molto faticoso.
I monologhi cluster, che compongono questo mio lavoro dal titolo Il chiodo nella lampadina, fanno parte di una delle operazioni più insolite di questo periodo di ricerca e di condivisione, che cercherò di tenere sempre aggiornato sul mio blog, nel suo sviluppo e nei suoi relativi (o tragici) esiti.
La mia strana sinossi (una tra quelle in prova) per questo lavoro, ancora a cantiere aperto.
Appena un accenno:

Di solito in qualsiasi affare di cuore o faccenda più o meno affettuosa, dalla trama più intima e sofferta alla più lieve, appare sempre costante una verità, che è quella dell'impossibilità di attuarla o di realizzarla, intendo la faccenda di cuore, e di risolverla in quel certo modo, in quel certo modo che si avverte il più vicino al proprio sentito possibile. Un qualsiasi affare o faccenda sentimentale, più o meno complessa, sarebbe spesso traumatizzata dal suo grado di impossibilità nel realizzarsi a confronto con un ideale, e per quella certa amara dissonanza con quel fattore più familiare e rassicurante idealizzato, che si immagina o si crede di conoscere e di controllare a tal punto da poter escludere al suo cospetto tutte le impossibili alternative.
Quando invece, molto spesso, sarà proprio quel fattore oscuro  di impossibilità, il cluster che sorprende e che spezza l'impianto dell'armonia, quell'unico spazio dove si cela il cuore più delicato e intenso  di un incontro, a volte la sua sola speranza. 
Il chiodo nella lampadina, è una rappresentazione dolorosa di questa particolare dicotomia nell'impossibilità e possibilità di un amarsi, analizzata nella vita di due persone, e divisa in circa 85 monologhi cluster.



giovedì 1 novembre 2012

Poetiche del pensiero. Convegno di poesia:



Link alla pagina di Anterem
Il programma: