lunedì 30 aprile 2012

Perché i capelli corti? (Dialogo)


Perché i capelli corti?


"e tu che ci fai?",
"ma come sei strana",
"tu invece stai un sogno",
"dici?",
"da quanto tempo...",
"allora?",
"perché i capelli corti?",
"che dire, dopo tutto la mia vita...",
"...i nostri amici, la stessa strada...",
"adesso quanto male che c'è",
"e i tuoi amici, la Domenica?",
"un po' di pioggia, quando fa sera":
"mi fa di un male, invece",
"se solo...",
"potrei chiederti perdono, non lo so",
"dicono che torni il freddo",
"giovedì, me lo hanno detto",
"un po' più di freddo",
"ancora più di me?",
"mi stanno chiamando",
"allora...buon viaggio...",
"forse nasce di Maggio",
"ma perché non c'è un perché?",
"e perché i capelli corti?" "
 "dici di me?"

domenica 29 aprile 2012

Scrivo tutti i giorni

Scrivo tutti i giorni. Non per disciplina ma perché lo trovo naturale. Non credo di scrivere tutti i giorni perché si dice che sia molto importante mantenersi allenati; o perché chi scrive davvero scrive tutti i giorni o perché lo dice King. Se non fosse qualcosa di naturale farei altro, qualcosa di altrettanto inutile, forse, ma naturale. Inutile perché non esistono garanti o garanzie in quello che si sceglie e non si sceglie di fare. La probità del talento soccombe all'orgasmo del caso. Qualcuno che ha qualcosa da dire è sempre fuori fuoco, tranne se non lo incroci il caso. Ciascuna strada per chi scrive è al buio. Nella bellezza materna del buio. Un garante che accende la luce, spezza  la polvere dolce del proiettore nella notte. Non credo nelle rassicurazioni. Ciascun intento creativo troverà come primo ostacolo la ricerca di una rassicurazione, da parte di chiunque. Il primo che rassicura sarà investigato come nucleo. Ed è lì che comincia la fine. La stessa fine di mutare una propria idea, un'idea profonda, perché chi ti rassicura la detesta. È terribile.
Non credo così nelle regole assolute. Nei decaloghi, nei programmi confezionati per ottimizzare al meglio un proprio scopo o sogno. Se si scrive per qualcosa di esterno al procedimento e all'intimità dell'atto, si infrange il cristallo, ci si allacciano le stringhe ma non si corre più. La maggior parte degli scopi e dei sogni che mi attraversano, poi mi oltrepassano, lasciando spazio ad altri scopi e ad altri sogni, che come corvi cercheranno di dirottare e di pianificare i miei programmi di volo, per poi mutarsi all'infinito, spruzzando pomata di guano nel cielo e negli occhi.
È bello scrivere verso sera, con le voci un po'stanche dal balcone aperto, i passi delle donne, le ultime rullate dei canarini sassoni. Verso sera la luce diminuisce e c'è disordine, un clima impreciso, imperfetto, con un filo di pioggia negli occhi. Avanzano le ombre sulle case e nei cuori di chi ama.
La perfezione ha le mani sporche. Quella troppo cercata o peggio ricercata per un ascolto certo. Se voglio essere davvero ascoltato, debbo imparare a tacere. Ad ascoltare. Molti vogliono parlare senza imparare a tacere. Senza affinarsi nella creatività dell'ascolto. L'ascolto e la lettura sono scrittura. Più importanti e puri di una scrittura nevrotizzata dal sogno, dal movente, dal bisogno. Leggere è creare, mutare, crescere, chiavare con la propria vita, come quando si guarda il cielo da un campo aperto. Le lucciole azzurre in una siepe, una coscia di donna in uno stivale rosso.
Quante parole oggi? Quante più di ieri, o più di te? Che ti credi più forte, più bravo, più ginnico di me? E allora lo scopo e il sogno si riducono a misurare i tuoi segni, i piccoli traguardi quotidiani, cercando almeno di garantirsi i documenti in regola, il passaporto di scrittura e senza mai dirottare o ruttare a tavola. Il resto, quello che hai e che senti di dire, non conta. L'importante è stare in guardia. Scrittore sull'attenti, che sa bene quello che gli altri hanno bisogno di leggere, del linguaggio giusto per dare un senso alle parole scritte.
Il mio grande limite, e concludo, è quello di non farmi condizionare da quello che potrebbero pensare gli altri e quindi da quello che potrebbe piacere agli altri. Non ho mai amato cose che mi sono state confezionate all'occorrenza, preparate come un piatto preferito in un pranzo triste di compleanno. Credo invece che tutto quello che ho amato era nato per altri scopi, forse opposti alle ragioni oscure del mio amore, che è capitato per caso e senza ragioni.
Ecco perché scrivo tutti i giorni. Per le ragioni oscure di questo amore capitato per caso. Come tutti i grandi amori.

sabato 28 aprile 2012

Leggendo non cerchiamo idee nuove...

"Leggendo non cerchiamo idee nuove ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi".
Cesare Pavese (3 dic.1938, Il mestiere di vivere)

venerdì 27 aprile 2012

La sassata: revisione prime due pagine

La Sassata Rev 1

I processi di asciugatura de "La sassata"

Asciugare un testo è un'operazione meravigliosa e delicata. La sua difficoltà consiste nell'individuazione dei punti umidi o in eccesso, e nel preservare allo stesso tempo la vita e la scorrevolezza di una storia. Ogni minima amputazione  e manomissione maldestra, può abbassare le luci nella narrazione o lasciarla addirittura al buio. Allo stesso modo di come può accadere con i dettagli eccessivi di una descrizione, che invece di mostrare, si attorcigliano spesso a più nodi su se stessi, interrompendo quel certo flusso che uno scrittore dovrebbe rievocare in chi lo legge (o lo regge...).
L'asciugatura di cui parlo è relativa al racconto "La sassata", che ho proposto giusto ieri in una delle sue ultime bozze, proprio per mostrare, in seguito, in che modo vi entrerò e mi muoverò per asciugarlo, creando quindi, per chi mi segue, l'interesse e la curiosità di un confronto fra le due, o forse, anche fra le tre ultime versioni che cercherò in seguito di affiancare. Come accennavo nel titolo del post precedente, avverto ancora una dimensione troppo barocca, nell'insieme, quella stessa che però mi ha consentito di entrare  e di mantenermi entro certe atmosfere. Quella proposta ieri, quindi, dovrebbe essere la più grezza o rigogliosa.
Staremo a vedere.

giovedì 26 aprile 2012

La sassata (revisione recente da scribd: ma ancora molto barocca)

La Sassata

Le cose come sono

Da un film di Godard: "Due o tre cose che so di lei", qualche battuta:

"Noi proviamo spesso a cercare e analizzare il significato delle parole. Però sono spesso equivocate. Non c'è nulla di più semplice...che prendere le cose come sono".
Jean Luc Godard

mercoledì 25 aprile 2012

Appunti e ambizioni

Ciascuna ambizione al mondo mi porta dolore, quanto la sua assenza.
Ciascun passo fatto con una tensione di accumulo fa male quanto il suo corrispettivo senza l'impulso.
La strada ideale potrebbe frapporsi tra queste che ho scritto, ma non essere previdibile nei tempi tecnici di una messa in scena.
Non camminare, per esempio. Decidendo di non camminare e di non fare passi, si potrebbe scavalcare il rischio doloroso dell'ambizioso, quanto quello altrettanto graffiante della mancanza di ambizione.
Camminare con un terzo fine. Per sentire l'odore degli alberi. Per guardare scendere la sera, sulla ruota panoramica che si accende, le voci lontane dai ristoranti. Cose che si conoscono e si raggiungono quando si vogliono, senza doverne soffrire la mancanza. Amare ciò che vi è di più comune, imparare a desiderare ciò che non andrebbe desiderato perché già c'è. E parlarne, o scrivere. Nulla di speciale, di tragico, di morale.
In ogni parola che aggiungo, che correggo, che sottraggo, c'è un'ambizione, ma non un'ambizione privata, intima, che mi appartiene, ma una di un altro tipo. Una molto comune, che mi porta a desiderare un linguaggio fatto di parole giuste e disinfettate, anche se non mie. Un linguaggio non più mio, che potrebbe desiderare anche lo speciale, il tragico o il cazzotto morale che non conosco, non capisco e non mi appartiene, ma che mi conviene. Ma nessuno riuscirà a riconoscere la differenza tra quelle che sono mie ambizioni e mie parole, e quelle che invece sono di altri. Potrei fare qualsiasi cosa e il suo contrario e tutto rimarrebbe uguale, non cambierebbe nulla. Non cambierebbe l'ambizione, nemmeno il dolore. L'assenza di ambizione, il tipo di parole, o surrogati. Mi si troverebbe più originale se ladro di parole non mie, e folle o ladro, se invece onesto e originale nelle mie scelte più sentite. Potrei essere il primo a confondermi e a confonderle.
Scrivere di cosa, allora? Ma di questo: dell''odore degli alberi, del guardare scendere la sera, sulla ruota panoramica che si accende, qualcosa che c'è e che non c'è...
La strada ideale potrebbe non frapporsi tra queste, ma essere invece in ciascuna. 
L'unica possibilità è imparare l'assenza del proprio gesto o passo creativo, dove saranno inclusi e sorpassati i conflitti, i delitti, i profitti di una certa esperienza. Amarla e odiarla dal suo negativo, senza nessun'altra interferenza: forse.


martedì 24 aprile 2012

Il sentirsi o il sognarsi capaci

Il sentirsi capaci e quindi adeguati a un certo intento, diverse volte è una sensazione, non sempre supportata da dati concreti e inconfutabili. Avvertirsi molto adeguati non sempre tradisce una reale capacità, così come il sentirsi inadeguati, può ugualmente trarre in inganno dall'altro lato della prospettiva. Quello che si avverte di essere non è sempre esattamente corrispondente a quello che realmente si è, e di questo me ne convinco sempre di più. Ho detto le mie più grandi sciocchezze spesso supportato da una  grande sicurezza e baldanza di propositi e di forma interiore. In entrambi i casi, di grande fiducia o di grande sfiducia verso un certo percorso, si insinuano delle varianti impreviste, che potranno darci un risultato ancora diverso e allontanarci dalla nostra immagine allo specchio. È per questo che cerco di non misurare quello che penso e che decido di fare, di non catalogarlo, etichettarlo, archiviarlo. Non commisurarlo alla mia capacità di farlo o di non farlo, dal momento che potrebbe essere un fattore volubile e relativo. In questo post, in questo preciso istante, mi sento un idiota, che batte sui tasti, senza ulteriori pensieri. Quello che scrivo potrebbe essere superfluo, anche se scritto bene, secondo i canoni. Potrebbero essere però meno idiote le cose che scrivo sentendomi idiota, forse più interessanti di quelle che avrei scritto con la certezza del mio intento, sentendomi capace, intelligente e ispirato per renderle uniche e vederle unicamente così, credendo che chiunque le leggerà, le vedrà così come io le ho avvertite e imbestialendomi quando c'è qualcuno che non vi vede tutto il sogno che io vi ho visto e immaginato. 
Spesso non conta molto quello che si pensa di sé, quando si procede o si  recede. Quello che si pensa di sé, mentre si è in opera, non sarà che una sensazione, un sogno. Ogni volta che comincio a scrivere qualcosa, che continui un testo già iniziato o che ne impianti uno nuovo, vorrei dimenticare di esserne in grado. Non pensarci troppo. E godermi il fascino oscuro del rischio, il triplo salto nel vuoto, senza rete. È l'unica certezza che mi farà più vivo ma anche più sano e incosciente.

lunedì 23 aprile 2012

L'epigrafe di Thomas Bernhard a "L'azzurro della notte"

Questa di Thomas Bernhard, è un'epigrafe che non ha avuto rivali. Da quando l'ho incontrata ed estratta dal libro Antichi maestri, è rimasta incontrastata. Non ho pensato più a nessun' altra epigrafe per introdurre il mio prossimo romanzo L'azzurro della notte (Edizioni il Pavone Messina 2012). Le ragioni di questa scelta sono molteplici. Alcune più razionali, altre, forse la maggior parte, fanno parte di una sensazione di risonanza, che quello stralcio preciso mi ha rievocato, fin dalla sua prima apparizione, riportandomi all'interno delle stesse atmosfere e dimensioni emotive che hanno attraversato e ancora, mi auguro, attraverseranno, in modi diversi, la storia. Qualcosa di irrazionale e di impalpabile che però mi ha convinto, senza lasciarmi alcun dubbio.
Non mi resta altro che riportarla:
"Ho sempre creduto che fosse la musica a significare tutto per me, a volte anche la filosofia e il prodotto letterario di alto, altissimo, di supremo livello, così come ho creduto che fosse semplicemente l'arte in generale, ma tutto questo, tutta l'arte, quale che sia, non è niente se paragonata al solo e unico essere umano che abbiamo amato"
Thomas Bernhard

domenica 22 aprile 2012

Intervista ad Antonio Scurati. L'Autofiction. Intelligenza delle superfici.

sabato 21 aprile 2012

Appunti e dissonanze

Uno dei momenti peggiori tra quelli che riserva l'attività di scrittura, così come immagino tutte le attività in cui si collaudi un percorso solitario e artigianale sulle scelte complesse di un linguaggio, e quindi di ricerca stilistica e di ripensamenti attorno al profilo di una certa opera, è quello della scoperta, anche a una certa distanza di tempo, di elementi nuovi e indesiderati, che nelle scorse precedenti di lettura non si erano notati e previsti. Di note fuori dell'armonia generale dell'impianto, che di solito non hanno il fascino e la modernità della dissonanza, ma nemmeno la relativa compostezza delle consonanze o la funzionalità delle note di passaggio. Sensazione molto interessante e accattivante quando si è ancora in corso d'opera, con le mani impastate nel testo e si avverte che ci sia un gran da fare per esplorare le zone più o meno infestate; molto meno attraente, invece, quando la scoperta avviene a cantiere ormai chiuso, a libro pubblicato o comunque infornato e non più modificabile. Per me è quasi sempre così. Vi sono alcuni momenti in cui la presa di contatto con un vecchio lavoro già chiuso mi sgomenta. Avviene spesso che uno stesso testo, o anche stralcio di testo e paragrafo, viva anche diverse fasi e oscuri processi, nei quali le stesse strutture di parole, prendono forme diverse, a seconda della particolare fase emotiva nella quale mi ci accosto. In quel caso la dissonanza potrebbe nascondersi nel mio sguardo di quel momento, per cui il testo risulterebbe innocente, o quanto meno più stabile e non  un fattore mutante nel tempo, come avrei sospettato in partenza. Quando non c'è più modo di intervenire, sarebbe forse utile dimenticare di aver scritto, o comunque dedicarsi a testi nuovi, freschi, quelli in corso d'opera, o ancora in forma embrionale, dove tutti i demoni del senso di colpa potranno sciogliersi e dissolversi in un nuovo contesto plasmabile e modificabile con la massima libertà di intervento e di relativo e momentaneo appagamento – quello stesso che avevo forse provato con i lavori precedenti, prima di accostarmene a quella certa rischiosa distanza –, e cercando di fare tesoro di quello che non è avvenuto negli altri casi.
Se ci si incanala in un certo sviluppo e ricerca della propria forma espressiva, qualsiasi sia il proprio bagaglio, avverrà sempre questa resa dei conti, in relazione a questo strano qualcosa su cui si è lavorato molto e con tutti gli sforzi possibili, ma avendolo creduto forse altro, perché allora risuonava davvero come un altro che ci appagava, e riscoprendolo invece molto lontano e diverso da quello che un tempo si credeva. Tutto questo fa parte del gioco e quasi sempre nasce dalla percezione di scollamento da quelli che sono i propri parametri di buona condotta letteraria, assimilati attraverso letture, approfondimenti, ma anche rapimenti e passioni per una certa mano, un certo stile. Ci si accorge di non essere dissonanti a un proprio ideale assoluto e personale di espressione, ma a un modello, perfettamente efficiente e pregevole, che appartiene ad altri mondi, ad altri occhi sul mondo che non sono e che non saranno mai i miei. Che senso ha offrire a un lettore la visione di un mondo già esistente, la ripetizione di un altro filtro, che non è nemmeno il mio? A questo punto, pur invidiando o desiderando di ottenere a distanza quel suono  e quella compattezza, si dovrebbe investigare sulla possibile reazione che ciascuno scrittore potrebbe avere di fronte a un proprio testo brillante, compatto e armonico, anche a distanza di tempo, solo perché imprigionato in un telaio precostituito, come un pattern ormai rodato e ingegnato,  che basta applicare al proprio plot per renderlo luminoso ed efficiente. Dove sarebbe, in quel caso, il sollievo? Nella correttezza formale, tecnica, stilistica, assorbita e codificata sulla falsariga di un certo modello, modello di certo amato e divorato a tal punto da assimilarlo in ogni sequenza creativa? È proprio questo il punto oscuro e complesso. Se la mia insoddisfazione debba necessariamente portarmi verso una riva nota e quindi più sicura, acclamata e amata e quindi ottimizzata per un certo percorso di diffusione, anziché a nuovi larghi, ancora più profondi e sconosciuti.
Elaborando il materiale su cui lavoro, mi accorgo di essere sempre in balia di più forze e di più correnti contrastanti, in gran parte disordinate e trasgressive, che dovrebbero essere poi incanalate non in un modello di correttezza o di efficienza assoluto, che accontenti gli amanti dei cloni e dell'aderenza quasi etica a un certo standard – non credo nemmeno che esista, anche se oggi si ragiona su modelli di efficienza, su come si debba partire, finire, e che cosa mangiare o indossare prima di una session – ma in un compromesso tra quello che si è capito, amato e assimilato, e tutto il dimenticato o il mai saputo perché percepito dall'unicità di esperienze esistenziali, intime e non semantiche, e dove potrebbe nascondersi l'inizio-indizio di una propria piccola voce. Ignorante e selvatica, quanto oscura, ma forse per certi aspetti anche più saggia e pulita di quanto mi sarei mai immaginato, chissà. Ma in ogni caso continuo a preferire la solitudine rischiosa del mare aperto.


giovedì 19 aprile 2012

Fare una novella ha due tempi, secondo Pavese

30 nov. 1938
"1) Fare una novella ha due tempi. C'è un'acqua che s'intorbida, ci sono dei gesti violenti, dei sussulti, della schiuma; poi c'è una calma, una passività, l'acqua che trema si fa immobile, dirada, si schiarisce, e tutto traspare impreveduto. Il fondo e il cielo eccoli immobili."[...]
Cesare Pavese, da Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950.

Tutto questo, mi dico, fa pensare. In alcuni punti Pavese sembra rifarsi a una storia zen, alla dinamica oscura di un koan; alla raffigurazione di un evento naturale improvviso, al passaggio di un volatile sulla superficie di un lago. La fase dell'avvenimento o accadimento è dolorosamente naturale, non sempre controllabile o contenibile da una sequenza pianificata di eventi o di tattiche. Si è parte della struttura, del torbido, del disordine, dell'imprevisto e impreveduto (ancora più potente); a volte diretti artefici di quel disordine, parte del getto, il nostro stesso intento sarà parte plasmabile e non solo impulso formale ma elemento casuale e non sempre causale. Il movimento stesso, l'impulso ostinato della costruzione, potrebbe smuovere l'acqua e causarne l'impurità.  Pavese vedeva molto lontano e in profondità, e poco più avanti, continuando al punto II:
"Così nasce una novella: l'acqua scomposta si schiarisce tremando e si ferma".


The new blogger

mercoledì 18 aprile 2012

La comunicazione secondo Godard

"Non cerco di comunicare qualcosa; cerco di comunicare con qualcuno".
Jean-Luc Godard

Mi accorgo che col tempo...

Mi accorgo che col tempo cambiano alcune visioni sulla vita. Visioni non sono solo pensieri sulla vita, ma anche altro. Immagini, evocazioni, bagliori, resistenze o sensazioni. Lo spettro di visione sulla propria vita è spesso una mensola con due dita di polvere, con qualche granello d'oro, sparso e nascosto, ma anche con tanto di sottile, di tossico e di oscuro, che si accumula e si aggiunge al quadro generale o tragico che ne appare.
Dunque, ritornando al punto: cambiano alcune visioni sulla mia vita, quindi anche sulla mia scrittura, che è parte della vita, non solo della mia vita, o almeno così dovrebbe essere.
Cambiano gli atteggiamenti e le risposte, anche a distanza di giorni, di mesi. A volte  rimango fermo nella nuova visione, in altri casi ritorno sulla vecchia strada o visuale, ma con un'aria e un atteggiamento diversi, più malinconico e segnato. Non si è mai più gli stessi. Non sono più lo stesso, nemmeno nel  rettangolo bianco di questo post, che mi avrà già visto un altro dal primo paragrafo a questo che sto scrivendo o sporcando con le mie parole scritte di getto.
Dunque la mia visione mutata o maturata, è che su cento parole mi accorgo che in media dovrei salvarne tre, o a volte nessuna. Su duecento due, o al massimo nessuna. Su trecento al massimo: nessuna. Su cinquecento ancora meno, e così via. Quello che noto è che quello che vale davvero la pena di lasciare scritto non è sempre di un rapporto di due o tre parole su cento. Che scrivendo di più, da atleti ben allenati all'esercizio muscoloso e tenace della scrittura, (così come si incita e si invita ad essere: automi dal polso facile e leggero), il rapporto del numero delle parole da salvare, con l'accrescersi del numero dei caratteri scritti, si riduce e non aumenta, come invece un procedimento matematico e statistico potrebbe indurmi a credere o a sperare. Questo se non cresce la mia vita, la mia cultura e la mia sensibilità e il mio amore nel sentirmi vivo, a prescindere dalle cartucce di caratteri snocciolate nel vuoto in un solo giorno o notte che sia. È una mia sensazione, non sempre avviene questo, parlo comunque sempre per me. Intendo scrivendo nel deserto rosso di un territorio dove la mia creatività non sarà contestualizzata a un processo sinergico di relazioni, di scambi, di crescita, di confronti, di riscontri, ma alla semplice e muta sentenza di approvazione o disapprovazione, che è purtroppo un fattore così cangiante, personale, impermanente, anonimo, dal cui risultato si possono ricavare le stesse informazioni sul proprio testo che si potrebbero ottenere da una gracula religiosa in esposizione, che sia ispirata a parlare mentre ti guarda fisso.  
La mia creatività non ha bisogno di una casa dove stabilirsi, ma di un territorio vivo e radioso nel mentre del suo esistere e articolarsi, anche se rimarrà per sempre clandestina e senza tetto. Di piccole ma delicate attenzioni e conversioni, di avvenimenti, accadimenti di vita, che nulla hanno a che vedere con la sorte definitiva di quel testo, ma che contribuiscono ad affinare al processo di scrittura, una componente di vitalità e di ricerca, e non di mero esercizio.
Posso studiare il violino facendo scale maggiori e minori, con tutte le varianti possibili, tutti i giorni della mia vita, e diventare impeccabile. Ma se non leggerò mai un rigo di una sonata di Mozart insieme a un pianista, se non varcherò mai una sala di concerti  o non chiacchiererò anche solo a cena con un addetto ai lavori appassionato, non mi occuperò mai davvero di musica, non suonerò un bel niente, ma sarò solo un tecnico, un calcolatore di suoni senza vita. Un esercizio creativo ha bisogno di getti complementari, difficili da trovare in un deserto. Un libro è la fine di un lungo viaggio, spesso doloroso, dove di solito la sua pubblicazione è stato l'ultimo pensiero, l'accadimento accessorio o incidentale, rispetto al molto altro che include la sua strada e la sua storia. In un percorso narrativo avverto l'esigenza di un tessuto di piccoli moventi che lo rendano vivo perché contestualizzato. L'odore di un teatro, anche delle sue poltrone vuote, o delle briciole della sera prima.
Il problema di fondo è la mancata propensione per un ascolto che si discosti dal solo approccio giudicante e sentenzioso. Sento parlare anche persone giovani, molto capaci e dotate, parlare di scrittura,  qualche volta anche con me, e mi accorgo sempre di più che parlare di merda di vacca e di razzatori con un allevatore, sarebbe, in confronto, molto più creativo, letterario ed edificante. 
La mia visione continuerà a cambiare, ma quello che non voglio è che un qualsiasi procedimento creativo sia ridotto all'esecuzione solitaria e ossessiva di scale maggiori e minori, protratte all'infinito, e a un contesto in cui ci si accanisca sui gradi delle scale, come se la musica fosse solo lì.
Credo che a volte sia così.
Ma oggi è solo mercoledì...

martedì 17 aprile 2012

Fontemaggiore: Regine, tratto da Elke Naters

lunedì 16 aprile 2012

Vicolo del Precipizio, di Remo Bassini


In una lettera di Rilke del 17 febbraio 1903 a un giovane poeta: "Se la sua giornata le sembra povera non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi differenti o miseri".
Il romanzo di Remo Bassini Vicolo del Precipizio,  è costruito su di una serie di luoghi e di ricchezze evocate, che raccolgono e diffondono il proprio valore sulla qualità preziosa dell'evocazione. Contenitore primigenio di questi luoghi è la sua scrittura, la sua idea e il suo passo di scrittura, come componente vitale: liturgia del sigaro acceso, finestra accesa nella notte insonne, silenzio. Vi sono alcuni momenti in cui si sente il desiderio di essere in quei luoghi, a testimoniarli o solo a viverli di passaggio. A sentirne l'aria, a spiarne i visi o a esserne spiato, fingendo di non esserci e di non saperlo. Ho avuto la sensazione che Remo sia dentro il romanzo in più ruoli e prospettive: fantasma dei suoi vicoli, lampeggiante incantato, parte viva delle sue pietre, dei ritrovi, delle lacerazioni, maledizioni e benedizioni che lo essenziano. Un occhio tra gli occhi, dentro e intorno agli occhi di un territorio di voragini e di addii che lo hanno formato, segnato di uno strano e complesso innamoramento perpetuo, che pervade ogni parte del libro. Testimone ma anche artefice e parte del fatto testimoniato, del suo profumo lontano.
Ho cominciato a leggere Vicolo del Precipizio sabato, e l'ho concluso ieri sera (Domenica):  fin dalle prime pagine ho avvertito la forza di questa  evocazione e la sua capacità di renderla intima anche per chi ne sia estraneo. Il lavoro di Remo è costruito sull'intimità del ricordo, snodato attraverso diversi livelli di tempo e di realtà, che confluiscono tutti attraverso la sua voce posata ma non stanca, paziente e nebbiosa, come quella di chi ti parla  quando si è appena alzato ed è al buio, senza una volontà di trattenerti, di colpirti o di volerti stupire troppo o a tutti i costi con le sue parole.
Remo  si concede a questa scorsa delicata e ingegnosa con grande competenza e ispirazione, ascoltando quasi da lettore le sue storie, come qualcuno che sta dall'altra parte a guardare il terrazzo e il fioco del suo portatile acceso nella notte.
Quello di Remo è un territorio vivo di memorie e visioni, di visi e di sguardi presenti e affettuosi perché assenti, e rivisitati nelle sequenze potenti e ispirate dei suoi squarci. Io ne ho trovati molti e credo che questi squarci siano il filo sottile e conduttore che anima il suo lavoro, rendendolo ancora più naturale e suggestivo nel suo bel suono: l'auto che si allontana con Battaglia; la piccola cardiopatica; la carezza di Antonio; il sorriso di Cristina per la guarigione; le  vicende tragiche e misteriose di provincia; le ossessioni degli affetti passati e presenti; l'appartenenza a un territorio delle origini, che oscilla tra l'accoglienza del riparo più noto alla soglia oscura del mistero; i suoi familiari, la loro fragilità e forza intrinseca e schiacciante.
Il punto di vista narrante si alterna tra una terza persona e una prima, introspettiva e compatta, lasciando la lettura accompagnata dalle diverse prospettive di visione, sempre mobili e mai ristagnanti.
E ancora: la scrittura come strumento operaio o contadino, lampada magica, arma contundente affilata o passaporto per un viaggio solitario di rivalsa o di perdita: ma in ogni caso necessaria.
Concludendo ancora con Rilke: "Un'opera d'arte è buona quando nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v'è".
Credo che nel tuo caso sia così, Remo. E aggiungo che quando un lavoro letterario è davvero e naturalmente necessario per chi ne sia l'artefice, lo sarà in egual misura per chi avrà la sensibilità di coglierlo e di raccoglierlo nella sua delicata urgenza di esserci. Come ti auguro che sia.
È tutto.

domenica 15 aprile 2012

La morte di un calciatore

Il cuore gonfia il viso
nell'aggancio del prato,
al mistero di un'ultima
corsa di amore alle vele
e ai verdi delle marine;
ai lanci tirati a lunghi
varchi sui visi alzati,
e da un grande lampo
nel petto la tua notte.

sabato 14 aprile 2012

Da Codicillo 3: primo verso

faccio scrittura, e non sono scrittura:
Edoardo Sanguineti

venerdì 13 aprile 2012

Baricco parla di Gadda

giovedì 12 aprile 2012

Un grande silenzio intorno


Un grande silenzio intorno, appena il soffio delle pagine in penombra, quando aprivo per la prima volta l'edizione Adelphi del 1987 dei Pensieri del tè di Guido Ceronetti. Scovata dalla collezione paterna, gli scaffali bianchi solcati nel muro. Divorata e poi ripresa, in momenti diversi, ma con lo stesso stupore e rapimento della prima volta, con lo stesso mormorio soffuso dell'acqua che bolle appena.
"Due volte al giorno, verso le sei del mattino e le cinque della sera, tazza ripetuta di Tè verde della Cina arriva con la sua infallibile virtù unitiva, confirmativa, risuscitativa, a disincagliarmi e a preservarmi da ogni specie d'inerzia, d'inebetimento, di abbatimento". Così cominciava – e ancora così comincia – l'immersione. I pensieri del mio primo Ceronetti più mistico, che all'epoca in cui li incontravo erano ancora ostici ma non per questo privi del loro fascino naturale; delle pietre misteriose di luce diffusa, dove era difficile cogliere subito le trasparenze e le ombre, perché l'una nasceva e sfiniva nell'altra, il chiaro e lo scuro erano mischiati come capelli.
Dalla campagna, a quell'ora della sera, si bruciavano foglie, e io leggevo i primi Pensieri ai tempi lenti e leggeri del Tè, quello che capivo e anche quello che non capivo, lo leggevo e lo facevo mio.  
E sono quegli stessi pensieri, mi dico, a disincagliare, a preservare, a risuscitare nella stessa virtù confirmativa di cui sopra, la necessità di rinsanguarsi dell'incontro intimo con le parole, e con tutto quello che dicono e che non dicono. Nel silenzio. 

mercoledì 11 aprile 2012

Paese è notte

Un paese è notte
se rimorde la seta del rosa
dalle luci spente del corso,
per ogni passare una voce
che mi rideva di stare,
raccolto dalle poche mani
in un silenzio nero di amore.

Ridesto ancora all'oscuro
di molti visi già restati,
alle finestre deserte scandivo
gli chignon della prima pioggia,
la tua strada dal borgo vivo
è una canzone che non mi lascia.

martedì 10 aprile 2012

Aprile dolce smarrire

Aprile trascorreva dal mare
nella cruna di case e maioliche
suonando tirreniche le posate
che rompono il silenzio delle barche,
gli specchi fawn della darsena
al muro di madre delle tue risate.

La sera ci darà più lontani,
aperta come un velo di suora
nella vacanza della passeggiata,
i tuoi capelli raccolti all'aurora.
Dispersa in solitudine al tempo
nel canto baltico di un ricordo,
la giornata si corica in un lampo
alla carezza finita di uno sguardo.

lunedì 9 aprile 2012

Home sweet Home

Mischiato nel fumo il balcone,
un limbo d'ardesia e balia fantasma,
dalla sua luce farà in un lampo
che attira pace dai rilievi e disegna

d'autunno le nevi, se resisti più a lungo
all'esercizio incestuoso, (nel silenzio
un treno scompare e libera dall'ago
il filo bianco di una casa sul poggio,

distesa ai lumi d'oro di una volta).

domenica 8 aprile 2012

Da una tenda sollevata

Da una tenda sollevata
il fumo chiaro della campagna,
la lentezza morta dai carri
cammina prima della pioggia.

Si sente anche il mare
e il cielo basso sulle cene.
Qualche voce che scorre
e che muore dal voler bene.

venerdì 6 aprile 2012

La maledizione del verso

Nel lavoro sul verso, o esercizio, si assapora la tensione a un completamento, o effetto di risoluzione armonica dopo la tensione di una ricerca nel buio, (o dal buio al buio), che potrebbe non avvenire mai. Il completamento può anche non essere il fattore risolutivo. Un verso riuscito non avrà una testimonianza oculare sentenziabile. Avrà tante possibili vite quanti saranno i suoi incontri. Rispetto alla prosa la dimensione è sospesa, potrebbe rivelarsi illegittima per il suo troppo oscuro o per la sua eccessiva semplicità e immediatezza. Dovunque ci si muove scatterà la tagliola.
Bisognerebbe scrivere versi per chi non abbia idea di cosa sia la poesia. È pericoloso parlare di poesia a chi si sente poeta. A chi sappia definire che cosa significhi la poesia. A chi si sentenzia molto esperto.
Ho sentito una delle frasi più belle ed edificanti sulla poesia, o presunta tale, in un convegno di Alexandru Cistelecan "La poesia, qualcosa che non si può leggere" quando dice, con il suo bellissimo accento rumeno:
"Non esistono esperti di poesia. Perché la poesia ci manda tutti, accademici o non accademici, alla prima classe elementare. La poesia si legge così: tornando in quella fase, di prima elementare".  Conosco molte persone che si sentono e si dichiarono poeti, col tesserino plastificato e lucido nel taschino della giacca, ma che sono così presi dal sentirsi assorbiti dal proprio ruolo, da non riconoscere il fischio di un merlo nostrano dal rutto metallico di una passera mattugia. E chissà se una quartina che ho lasciato nel pomeriggio, in  cucina, non vada a sbattere sulle sue remiganti brunite, quando viene a mangiare, sempre alla stessa ora, le briciole d'oro della mia colazione, futuro prossimo del suo tenero funicolo spermatico. 
L'esercizio al verso è un lavoro tremendo e senza speranza. Lo sto aumentando e articolando sperando di non doverlo maturare con un fine, abituandomi a rinunciare a sperare – che forse è il più grande sollievo per chi scrive oggi. Sintomo di follia o di amore per la vita. Maledizione, senza dubbio. L'unico specchio reale sulla sgangheratezza e impurità di un linguaggio, ma anche sulle sue vedute più mirabili, delicate e profonde di mistero. È solo attraverso i versi, che ho ricevuto in assoluto le parole più gratificanti, ma anche le più spietate. Non ho mai incontrato il giusto mezzo: o bianco o nero. 
A volte giuro a me stesso di non spezzare mai più una frase in un verso. In altri momenti mi dico di non voler buttare giù una riga se non sia versificata. Tra questi due estremi, continuo a camminare, spesso senza pensare a quello che succede mentre lo scrivo. 
La tensione o esercizio teso all'idea di un completamento, può rappresentare anche un percorso oscuro ed esistenziale, dove ci si allena una vita intera senza certezza di agone, o di sconfitta, o di vittoria. Abitudine sublime alla pazienza del proseguire con ostinazione nel vuoto. 
A questo punto potrei ragionare al contrario, e immaginare quindi un esercizio al disfacimento del completo, verso la certezza dell'incompletezza – movente antieconomico quanto ispirato. Forse sarà la strada più sicura per non scivolare sull'illusione o sulla matematica delle proprie prove. Malinconico arrembaggio degli esperti. Magro e limpido divertissement per gli sventurati.

giovedì 5 aprile 2012

La partenza di un bambino

Uscendo fuori,
in un'alba cara e sognante
con ancora del tuo vago intorno.

Le luci del portamatite
solo adesso mi ricolmano
del tuo tempo lieve di contromano;

il bel torrente terso
delle tue ultime giornate,
il tuo piccolo atroce ritorno
sul finire murato del giorno.

mercoledì 4 aprile 2012

Della mia vita, per esempio.

Un pensiero diventa parola. Di solito si comincia a pensare una parola, quella parola, molto tempo prima di scriverla. A volte il pensiero diventa un'altra parola, non proprio quella. Quando questo accade non si sa che cosa fare, perché ce ne si accorge spesso in gran ritardo.
O anche: un pensiero non diventa una parola nota, ma qualcos'altro, che non sia quella parola, ma nemmeno un'altra parola. Qualcosa che non si può scrivere. Un pensiero, mi dico, dovrebbe significare qualcosa. Dovrebbe costituirsi significato.
Ma nella mia volontà di scrivere di significati, di pensieri che dovrebbero significare qualcosa, le regole possono cambiare. Non c'è un risultato certo e sicuro a cui attenermi. Quando voglio decidere troppo, penso cose poco scrivibili. Pensieri che si ostinano a significare troppo si perderanno, molto prima di arrivare.
Si perderanno per il loro troppo significato, per lo spasmo a costituirsi esatti, commestibili e significati(vi), a tutti i costi.
Ma ancora un'ultima cosa: perché dovrei tradurre solo di pensieri voluti, accaduti, costruiti? Potrebbero esserci anche altre origini e altre voci meno pensate per quello che scrivo, dico che scrivo e che non voglio sempre scrivere. Scrivere non è solo descrivere. (Potrei risultare riconoscibile attraverso parole e situazioni che né io né chi mi legge potrebbero cogliere nel dettaglio del loro significato, ma comunque ritrovarci. Voltarsi, all'improvviso, come quando si incrocia un viso già visto da qualche parte, ma chissà dove e ci si tormenta, ci si pungola, e quel viso lontano e sfumato, anche se sconosciuto, potrebbe ritornarci familiare se non indimenticabile, proprio per la sua strana sospensione di assenza o di intima estraneità).
Così come un pensiero può diventare o non diventare parola, diventare altro, qualcosa di diverso, anche quello che scrivo può scivolare da altre fonti. In questo momento penso, ma poi non penso più del tutto. Ho degli intervalli in cui mi perdo, ma sono ancora parti integranti della mia vita.
Mi interessa partire dal punto più oscuro, non da quello più noto. La mia vita e le mie esperienze non sono divise in cose note e in cose ignote; in cose chiare e in cose oscure, vive e morte. Mi appartiene tutto, quello capito, codificato, pensato, ma anche dell'altro, il suo opposto. Perché scrivere e descrivere solo una parte di me? La mia strumentazione dovrà affinarsi a tradurmi nella mia totalità più ispirata e naturale, e non in una ragione di economia di quello che convenga inserire per risultare accettabile e significativo.
Se penserò di continuo a quello che dovrò scrivere perché funzioni e perché significhi, o ancora peggio, se penserò di continuo alla parte esteriore della mia scrittura, mi perderò tutto il meglio. Della mia vita, per esempio.

lunedì 2 aprile 2012

L'intimità

Della scrittura mi interessa l'intimità di una ricerca. Il resto sarà relativo, anche superfluo.
La fragilità di questo processo è l'unico fattore che potrebbe dargli un senso.
Mi sento sempre più mutevole e forse mutante nello strano ruolo non ruolo che si riveste scrivendo.  Potrei non avere ancora inziato, e credere di averlo fatto, o al contrario aver solo già finito.
Ma rimane importante l'intimità di quello che si prova verso il fantasma sfuggente del ritratto. Rimanere vincolati all'intimità e alla fragilità di tutto il processo, che in fondo è la cosa che mi rende più vivo, al di là di quello che accadrà o che non accadrà. Il solo abbandono allo sforzo è già di per sé una forma di ricchezza accaduta. Un valore oscuro e delicato, in cui credo.