mercoledì 4 aprile 2012

Della mia vita, per esempio.

Un pensiero diventa parola. Di solito si comincia a pensare una parola, quella parola, molto tempo prima di scriverla. A volte il pensiero diventa un'altra parola, non proprio quella. Quando questo accade non si sa che cosa fare, perché ce ne si accorge spesso in gran ritardo.
O anche: un pensiero non diventa una parola nota, ma qualcos'altro, che non sia quella parola, ma nemmeno un'altra parola. Qualcosa che non si può scrivere. Un pensiero, mi dico, dovrebbe significare qualcosa. Dovrebbe costituirsi significato.
Ma nella mia volontà di scrivere di significati, di pensieri che dovrebbero significare qualcosa, le regole possono cambiare. Non c'è un risultato certo e sicuro a cui attenermi. Quando voglio decidere troppo, penso cose poco scrivibili. Pensieri che si ostinano a significare troppo si perderanno, molto prima di arrivare.
Si perderanno per il loro troppo significato, per lo spasmo a costituirsi esatti, commestibili e significati(vi), a tutti i costi.
Ma ancora un'ultima cosa: perché dovrei tradurre solo di pensieri voluti, accaduti, costruiti? Potrebbero esserci anche altre origini e altre voci meno pensate per quello che scrivo, dico che scrivo e che non voglio sempre scrivere. Scrivere non è solo descrivere. (Potrei risultare riconoscibile attraverso parole e situazioni che né io né chi mi legge potrebbero cogliere nel dettaglio del loro significato, ma comunque ritrovarci. Voltarsi, all'improvviso, come quando si incrocia un viso già visto da qualche parte, ma chissà dove e ci si tormenta, ci si pungola, e quel viso lontano e sfumato, anche se sconosciuto, potrebbe ritornarci familiare se non indimenticabile, proprio per la sua strana sospensione di assenza o di intima estraneità).
Così come un pensiero può diventare o non diventare parola, diventare altro, qualcosa di diverso, anche quello che scrivo può scivolare da altre fonti. In questo momento penso, ma poi non penso più del tutto. Ho degli intervalli in cui mi perdo, ma sono ancora parti integranti della mia vita.
Mi interessa partire dal punto più oscuro, non da quello più noto. La mia vita e le mie esperienze non sono divise in cose note e in cose ignote; in cose chiare e in cose oscure, vive e morte. Mi appartiene tutto, quello capito, codificato, pensato, ma anche dell'altro, il suo opposto. Perché scrivere e descrivere solo una parte di me? La mia strumentazione dovrà affinarsi a tradurmi nella mia totalità più ispirata e naturale, e non in una ragione di economia di quello che convenga inserire per risultare accettabile e significativo.
Se penserò di continuo a quello che dovrò scrivere perché funzioni e perché significhi, o ancora peggio, se penserò di continuo alla parte esteriore della mia scrittura, mi perderò tutto il meglio. Della mia vita, per esempio.

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