lunedì 31 dicembre 2012

e adesso, forse, posso anche brindare:

Dunque: ultimo post dell'anno.
Lo farei pestifero se mi riesce. Meglio pestifero, in un tempo di assoluta sordità, che soporifero. Tra i due mali scelgo la peste: 
per la mia visione delle cose, almeno nel mio caso, non posso illustrare buoni propositi, slanci amorevoli, premure, affettuosità, in un momento di desolazione assoluta e di ristagno. Di buio dei cuori, delle mani, degli occhi, delle gambe, delle orecchie, dei visi. La maggior parte delle persone sono interessate a un loro nuovo affare privato o anche solo sognato, che sia artistico o meno, per raggiungere il quale sarebbero disposte a tutto.
Che cosa potrei augurare a persone interessate a un loro affare privato? Ti auguro che la tua vita vada bene e vada tutta in culo a chi ti sta davanti, a chi è più o meno bravo di te, che ti ha ostacolato, ti ha messo in ombra, non ti ha salutato, ti ha sporcato le labbra del suo respiro. Ti auguro di non avere rivali, ostacoli e maiali davanti al tuo passaggio, che la tua arte ogni giorno che passa sarà il mio miraggio, sollievo o giubbotto di salvataggio?
Senza speranza ma io spero. Io spero dove non c'è speranza, e semino sulla pietra e divento driver di un germano reale e me ne sbatto se quello che scrivo è surreale. Lo scrivo perché è quello che mi illudo di saper fare, senza mai poter sapere se farò ridere o cacare.
La meccanica del proposito da ultimo giorno dell'anno, andrebbe armonizzata con una vita di attenzioni, di umiltà, di grandi delicatezze, che sono venute a mancare da diverso tempo, tranne rarissime eccezioni. Auguro il meglio a persone che amano: amano anche senza sentirsi amate, amano come cani, fino a morirne. Che hanno costruito sul dare, investito sul dare, pervertito e sentito e avvertito il mondo intero sul dare. Queste persone non fanno e non ricevono auguri. Amano, e basta...
Non credo vi sia cosa più sensata e più semplice da fare che amare. La cosa più facile è diventata la più rara, la più ostica, scabbiosa e scandalosa.
Il raro è facile; ciò che viene facile sarà il raro, non il difficile. Che strano, odiare è più facile di amare. Per un bambino forse sì: ma per un uomo o per una donna?
Una buona parte degli individui creativi, dimentica chi si trova dietro il proprio angolo, o cerca di recuperarlo all'occorrenza, in nome della propria economia di arte. Un ragazzo, qualche mattino fa, stava sfasciando il cranio a un altro ragazzo, brandendo un casco come un daga. Non immagino quale fosse il motivo, l'immagine annientava ogni motivo se non una pulsione naturale di morte che dilaga, come miele e che in diversi casi viene incoraggiata come essere in gamba o saperci fare.
Così Golding: "L'uomo produce il male come le api il miele". Chi troverebbe, oggi, il coraggio di contraddirlo?
In questa merda scrivo e sopravvivo. Ma vivo.
Gli auguri si fanno col braccio, con la nuca, con il naso, con la fatica, con la punta del cappello e la risata di una fica bagnata. Augurare con le parole e armarsi di buoni propositi quando ci si disseta di questo vuoto abissale e mellifluo, mi sembra troppo semplice se non dannoso.
Sarebbe bello sentire parlare di amore e di auguri, un giorno qualunque. Farsi propositi prima di ferire qualcuno, di deriderlo, di prenderlo a calci, di parlargli dietro, di istigarlo, di chiamarlo ricchione, rotto in culo, bastardo.
Considerare la donna a cui hai appena rotto un sopracciglio a sangue, o a cui hai appena alzato la gonna contro la sua volontà, o quella che hai posseduto nel sonno, con una mano sporca dentro ai capelli, o che hai lasciato in strada, con l'auto, in un luogo periferico senza luci, per raccontare agli amici che se l'è cercata, che quella è la tipica BFLDS: (bella fica la dà spesso) personcina che forse lo voleva, ma se io fossi donna e vorrei darla lasciatemi almeno libera di darla a chi mi pare la voglio dare a dodici persone che dico io perché quelle dodici devono darti il diritto di allungare una mano nei capelli o una mano dentro al culo a te che ti senti di diritto il tredicesimo? E queste considerazioni naturali di odio contro i deboli, dove saranno stanotte, nello scoppio del tappo, come se tutto sfumasse nelle bolle e intanto qualcuno ha sputato sangue per colpa mia, potrebbe aver perso un grande amore, un'opportunità, un dente, una casa, una sposa, un figlio, una speranza, e di quelli che mi brindano accanto nessuno lo sa, mentre alzo il bicchiere quella persona dove sarà?
Non voglio rovinare una festa. Voglio augurare a chi si occupi di cultura, di farlo prima per gli altri e poi per sé. Non ha senso fare le cose per sé in un'epoca di solitudine fobica. Di attacchi di panico. Di infelicità, di diabeti infantili, infarti del miocardio e tumori al seno e metastasi di odio come la testa di Medusa una persona ottusa deve imparare a sfiorare le persone come se stessero per morire. È l'unico modo, anche le più sane, come se stessero in punto di morte o di non vederle mai più...
Auguro a ciascuno di voi di trattare ciascuna persona che incontrerà, come se la stessa fosse in punto di morte.
Non trovo vie di mezzo.
Chiunque essa sia...
e adesso, forse, posso anche brindare...

domenica 30 dicembre 2012

Il monologo dell'invitato solitario (estratto dal monologo n. 32)



C'è qualcuno affacciato,
che guarda verso la mia abitazione,
o in un luogo vicino e parallelo,
o senza sapere di vedermi.
Sono al buio di un telescopio.
Ho guardato molte cose senza sapere di guardarle.
Il tuo sguardo mi vedeva senza saperlo
e senza guardarmi
o senza sapere di guardarmi,
come quell'invitato solitario.
A volte ho l'impressione
che tu non mi abbia mai guardato.
O che, se tu lo abbia fatto,
sia stata una ricreazione involontaria
a un altro riflesso ancora più lontano.
Il riflesso solleticato di un ginocchio,
un movimento distrutto di una mano,
che perde un oggetto e lo infrange.
Adesso hanno sferzato dell'House:
Todd Terry poi Marshall Jefferson,
il nostro invitato è ritornato dentro
con i Paradise Garage nel tuo buon vento.
Le ragazze sono al centro che saltano,
con delle gonne corte e molto rosse.

Estratto dal monologo 36 degli "85 monologhi cluster- Il chiodo nella lampadina" Bookolico  di Luigi Salerno

sabato 29 dicembre 2012

Mario Luzi e Maria Cappuccio sulla raccolta "Hansel e Gretel" di Michelangelo Salerno


"C'è adesione alla condizione d'amore e di dolore dell'uomo del meridione a cui viene fatta aperta e inconscia violenza. Ma in più c'è una libertà, una autonomia assai matura di fronte al problema, una rivendicazione in proprio dei diritti umani e immaginosi e affatto ineconomici del poeta, per fortuna.
Il mondo si può leggere anche da destra a sinistra. Non c'è un senso obbligato. Questo ho colto fra le righe, nella naturalezza e nella cultura del suo linguaggio".

Mario Luzi

"[...] È da rilevare che in questa silloge di Michelangelo Salerno, si afferma una forte tempra di scrittore. Siamo di fronte a un dettato denso di passione covata nell'animo; rifuggente, per partito preso, da ogni facile musicalità, anzi tendente alla prosa, ma non privo di cadenze espressive.
Il linguaggio vi è essenziale; il tono, severo; quasi sempre duro, con rare ma efficaci inflessioni di dolcezza, a volte aspro e tagliente; originale, la tematica; moderna, la tecnica. L'insieme di questa auscultazione interiore, pur non essendo propriamente ermetico, non riesce molto perspicuo, nella sua intensa concentrazione. Vi si scopre, sotto il piglio sdegnoso, una natura schiva, una coscienza seria d'uomo che la vita ha maturato.
Quest'uomo dice soltanto, ma lo dice con accenti indimenticabili, ciò che ha scavato nella sua anima profonda".

Maria Cappuccio (in "La capitale, ottobre-novembre 1971, a proposito di "Hansel e Gretel" di Michelangelo Salerno

E poi il fumo

Rileggo alcuni versi di mio padre, quando è ormai troppo tardi. Lo faccio quasi di nascosto, come se nemmeno loro potessero scorgermi. Di nascosto da loro, da lui e da me stesso. Come farebbe un ladro in una casa, o un topo che affonda in una minestra.
Il rapporto con una scrittura di un consanguineo rimane complesso, uno sciroppo viscoso, fatto di odori acuti, che vanno dalle farmacie dei monaci camaldolesi, a un mattino azzurro della sua acqua di colonia.
In qualche punto anche un filo di tosse. Uno sbadiglio. La luce accesa, dalla sua stanza di scrittura, come adesso dalla mia, contro il vortice della notte, del buio, della dimenticanza.
E poi il fumo. Il fumo di un figlio che ti ama e ti fruga, che forse ti teme, ti pesa, ti condanna.
Quando eravamo a pranzo a Gaeta, nel suggestivo budello di via Indipendenza, mio padre mi diceva che avevo scelto di studiare uno strumento al conservatorio, per non competere con la sua figura. Con le sue ombre sui miei fogli. Con la musica avrei potuto ucciderlo, ma non con le parole. O la musica erano le mie parole, che non potevo ancora dire? 
All'inizio non capivo, ma quello che mi disse sfoderò uno strano pugnale, bagnato di pioggia, di albe, di confidenze murate sulla  misura di un'intimità di espressione, come castigo o come scotto, pena silente che mi spetta, senza dover parlare né tacere, senza dover gridare al lupo o dire niente, di fronte al suo sguardo la nebbia di un valico che mi annotta.
Non abbiamo mai parlato di scrittura, con mio padre. Mai di questo contenitore o trappola e colla per topi per i miei fantasmi, per la mia fragilità tortuosa, per la voglia di un suo abbraccio, di uno schiaffo pieno a quest'ora, da schioccare fino a diventare un tuono e spaventarmi a morte e svegliare di soprassalto il vicinato, da infrangere vetri, incendiare alberi e presepi.
Mai un rigo. Il mio romanzo dei quattordici anni, sembrava un impasto grandguignolesco e intanto lui ne parlava ad altri, ma non a me. Lo seppi da un mio amico che lui parlava di me:
ha detto mia madre che sei bravissimo, ma che dici, mia madre ha parlato con tuo padre, e ha detto che tu sei bravissimo, poi io non capivo che cosa significasse bravissimo, riferito a cosa se a scuola andavo una chiavica, si trattava di quelle mie strane prove oscure e piovose, e poi, in quel giorno a tavola, mi parlava di una mia fuga o di un mio pudore, per mostrare o per svelare le piaghe di questo canto da rapace, o da ultimo veliero della notte, prima del suo naufragio. Che strano, o che brutto assassino!
Una sola parola, a quest'ora, sarebbe come un viaggio. Un treno che canta nella nebbia, e io a scorrere incipit di fiabe, sui finestrini appannati, dove le lettere si allungano sui vetri come lacrime e non mi fanno mai finire.
In questo silenzio ho murato le grandi confidenze, le colpe del figlio, il suo desiderio di non superarlo e insieme di raggiungerlo. Di scrivere come uno che non deve fare tardi, quando a sedici anni lo terrorizzai, tornando alle 02.40  del mattino, senza nemmeno un colpo di telefono - ero con amici, non avevo pensato a chiedere di fermarmi a una cabina per avvertire. Avrebbe cominciato il giro degli ospedali, a chiamarli, con il mio nome e cognome, o delle caserme, quando di colpo mi vedeva arrivare, fischiettando, nel buio.
Ogni parola che arriva, si impregna di questo mio ritardo, sul non avergli chiesto che cosa sarebbe stato giusto fare, con questo dolore enorme che mi divora, quando devo cominciare, continuare e finire. Se tutto questo è normale, se significa vivere o morire di qualcosa.
E chiedergli che cos'è la morte e quanto la scrittura può voler dire morire, a qualcosa che avverti viva e che non sai dire, quando non sai fermarti e non sai incamminarti.
Poi questi pensieri sfumano, diventano più lievi, si appannano, si fanno tiepidi, come il suono di una radio da un auto in fuga. Basta chiudere un libro, distrarsi per poco, guardarsi intorno, e la mia figura ritorna monca e autonoma, come coda di lucertola nel sole, senza il riferimento, la richiesta, l'insistenza.
Basta davvero poco, a volte.
Una sola parola, a quest'ora, sarebbe come un viaggio...e poi il fumo.

venerdì 28 dicembre 2012

L'ossessione dello sguardo che sente in un finale di sequenza:

Credo di non poter fare a meno dell' ultimo minuto della sequenza di questo film. Da anni mi abita e mi ispira.
Sintetizza in pochi fotogrammi tutto quello che amo, che mi commuove, che mi smarrisce, forse uno dei nuclei più profondi e oscuri del mio scrivere o del mio tentativo di scrivere. 
La sequenza finale di questo inserto, con il rallentamento e la sospensione dei visi che guardano il bacio dal basso, con il tipo di tempi, di suoni, di luci, sono tra le cose che ho amato di più e che mi hanno stretto in un abbraccio profondo con la mia vita e con quello che è il mio dire e il mio tacere.
Tutta la sequenza, dall'arrivo in paese, di sera, è pervasa da un'inspiegabile magia e incantamento crepuscolare, anche se non cercato o elaborato volontariamente, che è alla base della mia formazione e del mio movente creativo, forse del mio stesso sguardo ferito che ho sul mondo.
Io scrivo anche per abitare la nebbia di queste dimensioni di sogno, che sono quelle che raccolgono il mio mondo sensibile e se ne prendono cura, in un mondo delicato e parallelo. Per affinare lo sguardo che sente:

La scrittura e l'autunno

Credo che una spinta espressiva di un certo linguaggio, si mantenga e comunque ruoti intorno alle luci di una certa stagione. Nel mio caso il mio scrivere, o il mio tentativo di descrivere e trascrivere la mia scrittura, è molto autunnale, come forse sarà autunnale la mia parte che si trova a divincolarsi per parlare, spesso senza nemmeno saperlo o volerlo, in questa batracomiomachia incessante che si muove verso di me, tra i topi del mutismo e le rane delle parole.
Lo sguardo è autunnale, perché amo il mutamento, i sottovoce, le tinte morbide, le situazioni accennate, crepuscolari, in cedimento, mai troppo forzate, la leggerezza contro il peso: la leggerezza e il silenzio che possono farsi indimenticabili, contro il peso e il delitto persecutorio, che soffocano del loro vuoto e della loro assenza. 
Come nel post di ieri, la pornografia che avverto e che mi circonda, impazza e matura di opulenza e di gioia, contro i dettagli impercettibili di un'identità di caviglie di ballerine classiche, nuche, chignon, clavicole magre e occhi chiusi davanti a fontane al sole, piccole ombre sui visi, primi baci dati solo con le braccia, i gomiti nudi a sfiorarsi sulla stessa ringhiera, è qui che si è sviluppata la mia fantasia, la mia piccola o potenziale espressività sognante e dolorosa: in un piccolo parco autunnale, verso sera, fatto di niente. Nemmeno la luna. E in questo niente, anche se così piccolo, ho imparato a perdermi e ad amarmi.
Un linguaggio non è una parte estranea alle luci di una vita e di una traiettoria. Se osservo un viale di sera, e scorgo delle figure vaghe che si allontanano, rimango rapito, molto di più che se scorgessi un elicottero a bassa quota, una macchina da corsa molto potente. Credo che una certa dimensione di poetica non sia mai una scelta volontaria, ma una conquista, anche in questo caso non volontaria. Una conquista di sensazioni e rifrazioni patite e avvertite, col tempo, indispensabili e vitali, pur nella loro assolutà fragilità, inconsistenza, impermanenza, ma che sono state anche protette, giorno dopo giorno, preservate e conservate come lettere o foto di defunti in scatole di biscotti di latta.
Mi accorgo, questo da tempo, che non vediamo, non sentiamo, non palpiamo le stesse cose. Di questo ne ho fatto un'esperienza diversi anni fa, quando ascoltavo i dischi di musica classica con qualche amico, e cercavo di fargli scoprire alcuni punti che mi avevano letteralmente stregato e reso impossibile distanziarmene. 
Ricordo una notte, ero da solo in casa, credo di essere ritornato sul passaggio di una sinfonia di Brahms, credo fosse la Quarta, circa un duecento volte, se non di più. Ero disteso sul tappeto, al buio, le sole lucine dello stereo acceso, un mondo incantato e senza tempo e io che cercavo di scrutare dentro di me, che cosa accadeva in quel passaggio che mi avveva avvinghiato e sottomesso, come avrebbe fatto una leonessa col fianco di un'antilope. 
Quel passaggio era davvero un delitto. Quel mio ascolto così attento mi immolava a un ruolo di vittima sacrificale da sgozzare nel cuore della notte, senza testimoni vivi. Mi squarciava, dovevo sentire tutta la parte dell'attesa e quando arrivava non ero mai sazio. Dovevo ritornare indietro, nel punto dove cominciava l'attesa, credo che fosse sempre la stessa sequenza, l'attesa mi premeva sul petto, poi mi avvicinava al climax, che quando arrivava io a volte interrompevo, nel suo meglio, per ritornare indietro, ancora una volta, dopo chissà quante, senza stancarmi mai. Credo di aver ascoltato quel punto molte più volte dei fonici che lo avevano registrato, forse anche più volte dello stesso direttore d'orchestra che lo aveva diretto in quella versione digitale. Una forma di ossessione, quella sonora che si è estesa a tante altre forme, quelle visive, per non parlare della letteratura, ma per me i linguaggi hanno una loro economia di fondo relativamente simile, le mie emozioni non distinguono dal tipo di fonte, ma dall'intensità e dalla violenza dell'attrito.
Essere abitati da una tale ricettività, espone quasi sempre a sofferenza. A un filo costante e sempreverde di dolore.
Tornando alla questione sul non vedere, sentire o palpare le stesse cose, ne ho avuto conferma proprio quando cercavo di comunicare in diverse circostanze, la bellezza e la profondità di un passaggio musicale a qualcuno che mi capitava a tiro. Io avevo inserito la traccia e intanto cercavo di descrivere  a parole i suoni, quanto meno i contesti e le situazioni sonore in azione o appena prossime, tutto quello che sarebbe o che stava per avvenire, anche se in fondo non ce n'era bisogno, doveva attivarsi tutto da solo, così come era successo a me, e allora guardavo gli occhi di quella persona, quando io avevo già la febbre dentro, sperando che cogliessero anche loro, ma quelli si sforzavano o fingevano, ma rimanevano tiepidi, anche riconoscendo l'importanza e la bellezza di quel tale passaggio, non riuscivano a carburare, ad emozionarsi e a stregarsi. Mi è successo diverse volte, tutto quel fermento, quel magma informe e miracoloso, era già sfumato, e più qualcun altro non lo sentiva, più riprendeva ad ossessionarmi come le prime volte. 
Non credo, quindi, che le cose siano uguali e le stesse, anche rivelandosi di grande valore, per ciascuno che le ascolta. Non esiste una regola di attrazione che possa far collimare dei punti o dei fulcri verso una sollecitazione comune o sincrona, o relativamente sincrona. Nel mio caso l'armonia è sempre stata tra me e il mio dolore di sentire. Io riesco a sentirmi vivo, a vibrare e ad emozionarmi, grazie a questo filo di dolore, che è parte e disegno del mio sguardo, ecco quindi lo scrivere e l'autunno.
Anche nell'esser felici, la sensazione appena dolorosa e autunnale affiora, con tutte le sue luci, le sue regole, i suoi crepuscoli lenti o tragici e improvvisi. E nelle descrizioni dei personaggi, quasi sempre vi è una pena sottile, una certa premura per quello stesso dolore che provo a dargli una certa linea o fisionomia. Non sono mai tutti uguali i personaggi, perché non è mai sempre uguale questo filo doloroso che li mantiene vivi e vitali e spesso felici, grazie a questa lieve bruma che li contiene e li disegna. 
Credo che senza queste luci di autunno, questo mio sguardo appena nebbioso sulle cose e sulle figure, che vedo e che intravedo,  non riuscirei mai a conoscere e a godere di un'estate. Di una vera e sola estate nella mia vita reale e di scrittura. Perché di quest'autunno sono fatte le mie orecchie, le mie mani, i miei polsi, i miei occhi, le mie dita, tutta la mia vita.
È strano ma è così:

giovedì 27 dicembre 2012

La serata dei ricchi e la pornografia

Invitato da un amico a una serata di sabato a casa di amici suoi, mai visti prima.
Ero e sono ancora figlio di professori,  ragazzo introverso e di certo non ricco, sensibile forse anche un po'scemo, scagliato in un appartamento di lusso, una zona molto su, salgo le scale e leggendo le targhe avverto un altro mondo. 
Ci sono delle belle ragazze, mi dice il mio amico, con me c'è un altro mio amico che è arrivato tramite me a quell'appuntamento di nuove relazioni altolocate.
Quando salivo le scale ai compleanni del sabato o di qualche domenica, imparavo a conoscere il mio cuore e la mia paura. Ogni gradino, ogni vociare, ogni disco che suonava, avvertivo sempre un pugno di ferro al centro dello stomaco che mi faceva rallentare. Ero sempre molto addolorato dalla gioia di vivere e di conoscere. Mi addolorava tutto ciò che amavo, quando qualcosa non mi addolorava e non mi scazzottava al centro dello stomaco, togliendomi tutto il fiato, allora non c'era vita né crescita né speranza. Nè amore.
Ma quella sera, sulle scale del palazzo di lusso, mi sento diverso. È una situazione insolita.
Una riunione in una casa senza genitori, credo professionisti fuori per vacanza in crociera, convegni, impegni lavorativi, o chissà cosa.
Entrando mi guardo intorno: specchi a muro, faretti bassi alle pareti, il tutto annegato in una luce azzurognola e malata, un senso di fiaba decadente, odore di cibo esotico, un silenzio opulente, i cappotti, grazie, così il padrone di casa, molto cortese, in maniche di camicia, gli passo il mio cappotto, così i miei due amici, la casa immensa, non sappiamo come muoverci, nemmeno il mio amico già di casa fa un solo passo, quando l'altro, il padrone o padroncino di casa, tirato tutto a lucido, ci fa: seguitemi, sono tutti qui. Lo seguiamo, in silenzio, nella luce azzurognola che si abbassa sempre di più, verso un primo piccolo corridoio ombrato, che mischia le sue ombre a una luce rosa e soffocante che fuma da una stanza dove il ragazzo che ci fa strada è diretto.
Solo allora il silenzio sarà rotto da qualcosa: come gemiti, fruscii, movimenti di risucchio, schioccate di lingua come di noci, e ancora lamenti, piccole grida di gioia, pareva di essere fuori a una stalla, a un allevamento bovino o meglio a un macello comunale. Il padrone di casa rimane sull'uscio, si gira verso di noi e ci fa segno di accomodarci dentro. Sono il primo ad entrare: una stanza non molto grande, illuminata da un lume che fa una luce calda e rosata da un angolo, e ragazzi e diverse ragazze immobili, seduti attorno a un tavolo alcuni, altri sul divano, tutti di fronte a un televisore che trasmette un Hard spintissimo ed estremo. Mi pare che in quel momento ci fosse un'intreccio di due donne, credo tedesche e un uomo, ma poi avvengono variazioni di postura, acrobazie spericolate, il tutto scandito e drammatizzato da primissimi piani (PPP), la mano rozza della regia che punta ai moti tristi e affamati della carne, e mentre il mio amico si scalda, e comincia a rifarsi gli occhi, io provo un senso tremendo di morte e di soffocazione, scorrendo con lo sguardo, tra le ombre, i visi delle ragazze che assistono allo spettacolo.
Mi suona terribile non soltanto l'indifferenza e la naturalezza delle ragazze di fronte alla proiezione estrema, ma anche la loro compostezza, il loro abbigliamento molto curato, sofisticato; si avverte che sono ragazze di un mondo molto lontano dal mio, ma stanno di pietra, contro l'ammasso gioioso di quelle carni tedesche in fibrillazione, i loro visi invece spenti e tragici, come antichi ritratti di vedove o di madonne.
La visione si prolunga per diverso tempo, io sono in grande imbarazzo, tra l'altro mi accorgo della monotonia del tutto, mentre le statue femminili non hanno fretta, impazienza, emozioni, ma ingoiano tutto, come banane o zucchero filato.
Pensando solo a una di quelle ragazze, che ha un bel carré, un viso magrino e un po' più triste, sembra meno murata delle altre, forse un minimo impacciata anche lei, e ha i capelli, sul lato destro, sollevati un po' dietro l'orecchio, e quella per me è stata una visione bellissima.
I capelli di una donna o di una ragazza, sollevati appena un poco dietro l'orecchio, sono un mondo e una porta aperta che non conoscerà mai noia, ripetitività, torpore, monotonia. Sono una speranza.
Così come sfiorare per sbaglio la punta di un ginocchio, un gomito, una nuca, anche solo col fiato, la punta di una scarpa, i capelli, una spalla da una manica scesa più dell'altra.
Quei capelli dietro a un solo orecchio mi fecero capire che io vedevo altro in quella sera, cose invisibili e che forse ero un fantasma.
Quando ritorno alla proiezione, rivedo i capelli dietro l'orecchio della ragazza seduta attorno al tavolo. Le mie dita, che aggiustano i capelli dietro l'orecchio, mentre quelle degli attori trafugano vagine come barattoli di miele.
La visione si conclude, con qualche commento borghese dei maschi; le ragazze si spostano nell'altra stanza, con indifferenza, senza nemmeno un sorriso.
Nel gelo.

Erano circa le tre del mattino. Na boca da Noite.

Erano circa le tre del mattino. Tornavo da una manifestazione in un albergo da una località di provincia e prima di andare già sentivo delle voci all'orecchio di persone che parlavano dell'autostrada chiusa. A me sembrava così strano, tra l'altro avevo raggiunto quel piccolo centro sempre e solo tramite autostrada. Una volta in macchina, da solo, cerco di non pensarci, avranno capito male, mi dico, ma una volta al casello, vedo tutte le luci sulle corsie di accesso per il ritiro del biglietto rosse. 
Accesso sbarrato. 
Avevano ragione. Il paese è nero come la pece. Comincio a guardare le segnalazioni, mi conviene puntare al centro o al primo paese più familiare, uno di quelli che ho già battuto, dove forse potrei sfruttare un varco autostradale funzionante, o a questo punto, mi dico, seguire direttamente la prossima indicazione verde e rassicurante delle autostrade oltre il groviglio di frecce blu che mi sperdono in frazioncine, rilievi, piccole località fantasmiche e sconosciute.
Ma è così tardi, in qualche modo, mi dico, devo comunque trovare una soluzione e così mi allungo alla sinistra del'autostrada seguendo la freccia di un centro più noto e familiare, che durante il giorno ricordo, in altre occasioni, di aver percorso da più direzioni. Accendo la radio. C'è un mago che parla, una voce rotta dal fumo, mette canzoni anni Sessanta, apro il finestrino, è estate, quando la freccia blu a un certo punto impazzisce e mi devia verso una strettoia in salita. A quel punto non so davvero cosa fare, poi mi faccio coraggio e la prendo.
Credo di aver provato raramente un'angoscia del genere. Quella strada sembrava scorporata dalle tinte naturali e variegate del reale, ma sembrava disegnata in bianco e nero, si restringeva sempre di più se qualche auto dal buio avesse cominciato a seguirmi sarei stato in trappola o anche una banda di balordi, a piedi, un collant gonfio di biglie di vetro dritto sulla tempia o su di un principio di palpebra, sarebbero bastate due persone a piedi per bloccarmi, non avrei avuto scampo. La strada continuava, come un viso umano e minaccioso. La radio era molto limpida nella nottata. 
Comincio ad avvertire palpitazioni allo stomaco, credo che quel segnale sia stato messo lì per sbaglio o per scherzo, intanto devo trovare un varco dove deviare, lo spazio è minimo, davvero una lingua di terra e poi in retromarcia sarebbe stato impossibile, avevo percorso già un bel tratto. Ogni tanto compare un rudere, un cancello vecchio, costruzioni fantasmiche, senza anime. Sono disperato. Sarei tentato di scendere e di gridare il nome di Dio, o di una  persona cara o di lasciare l'auto e nascondermi dentro un campo, immobile, in attesa del giorno, con la speranza che non arrivassero cani sciolti e affamati a divorarmi.
Il pensiero in quel momento, o meglio i pensieri, erano schegge impazzite. Io acceleravo, deceleravo, aspiravo l'aria nera della campagna dal finestrino e qualcosa mi saliva alla gola, quando...finalmente uno spiazzo, una strisciata di calce, come muco, dove poter fare un'inversione. Il cuore mi sobbalza, ancora nello spavento di non  farcela. Mi guardo bene dietro, devo fare diverse sterzate, ma l'auto è quasi orientata nella direzione opposta. Durante la discesa ricordo ancora una telefonata col mago, di una signora dalla voce metallica,  e io avrei affidato a quella voce, mentre la macchina scendeva e mi avvicinava alla strada principale, le chiavi della mia vita.
Ritornai ai caselli, e mi infilai in una delle corsie dove era tornata la luce verde. Il mio sterno, che prima racchiudeva brindisi di fucilate dalle vallate atrio ventricolari, mi ritornava normale e amico.
Ritirai il biglietto e lo baciai.
Quanto ho amato, in quel momento, quella notte e la mia vita...


mercoledì 26 dicembre 2012

Senza movente

Per raggiungere la stanza dalla quale sto scrivendo, l'ultima della casa, devo attraversare una lingua buia di corridoio: adesso che sono entrato col caffè era tutto nero, da quando ero uscito nel pomeriggio.
In questo tratto si forma l'impulso che mi porta a cominciare e a non finire. Senza movente. Un colpo cieco e basso alla mia vita, che mi impedisce di fare altro. Il castigo quotidiano.
Lo scrivere e il dire: le mie parole sapranno se scritte o se dette? Il mio linguaggio non è lo stesso.
Quando stamattina parlavo, nel sole, a una famiglia di amici che ho incontrato, il mio linguaggio non era quello di ora, forse simili i miei pensieri, qualche vezzo, qualche sospensione, qualche tratto del quale non sarò consapevole, come la malinconia lagunare del mio sguardo abbastanza antico, che mi è rimasta dentro e che diversi notano ed è forse l'unica linea di me che imprimo e che con cui attraverso nel silenzio le mie parole scritte.
Quelle dette di solito hanno una destinazione, una certa economia immediata di realizzazione: stamattina sembri un attore di Hollywood, al mio amico che camminava con sua moglie e i due suoi bambini, e mentre quello rideva e mi ringraziava, dicevo a sua moglie, mia amica da tempi lontani – ricordo ancora che quando era molto piccola, senza volerlo, la terrorizzai con una maschera ridicola di vecchia, che i nonni mi avevano regalato per il Carnevale: un personaggio molto comico, secondo me, pieno di rughe, un naso a patata ma che poteva anche confondersi con un  pugno chiuso dell'ultimo dei sette nani, Cucciolo, e la poverina, amica e quasi coetanea di mia sorella, quando uscivo fuori dalla mia stanza così mascherato, scoppiava in un pianto convulso, facendo accorrere subito mia madre e le altre donne di casa, credo che il problema fossero i capelli lunghi e molto bianchi della maschera, che le davano un'aria spettrale e minacciosa, che nascondeva il piccolo goffo naso e tutto il fattore più o meno grottesco del suo insieme – che doveva stare attenta, controllare il suo marito attore, tutto qui: e da quel momento, per uno scherzo, avevo seminato una certa allegria, con scaramucce di coppia, mentre i loro bambini mi facevano mille domande, e allora il padre doveva interromperli: lascia stare Luigi, non vedi che mi sta parlando? E allora, come dicevo, quelle poche parole, seminate nel sole del 26 Dicembre, erano forse anche un po' scritte, ma comunque correlate all'imbarazzo di non saper che dire con la maggior parte delle persone che vivo, che incontro e che sembrano sempre molto contente di avermi incontrato. A quel punto lì il mio linguaggio dovrebbe far così: signori, siete davvero molto amabili, adesso io avrei anche del tempo per intrattenermi insieme a voi, ma sono completamente a secco di parole, di cose sane e interessanti da dire, che non siano battute o piccoli vacillamenti in attesa di qualche vostro aggancio con cui sviluppare la frase di un discorso o di una sola battuta sensata. 
Questo è relato al tipo di frequentazione, alla storia di quel rapporto, ma spesso le mie parole non distinguono con troppo acume il contesto e l'opportunità del dire, il tipo di economia o la libertà di poter disperdere pensieri in un mattino, come carezze sul collo dei piccioni o nei capelli folti dei bambini dei miei amici. Spesso dico cose senza senso, che attraggono molto e suscitano l'interesse, ma credo anche per come le dico. Per gli occhiali da sole e il naso che schiude dagli occhiali, o per come muovo la bocca, per quanto mi guardi intorno. Infatti è difficile che io riesca a intrattenermi con lo sguardo addosso a chi mi parla. Di solito sono attentissimo a guardare e a sezionare chi non mi guarda, ma quando sono osservato mi sento preda, sfuggo, sparo stronzate a caso e non so più che dire.
Il mio linguaggio, in quel caso, è quello di un naufrago alla deriva,  pieno di tosse di alghe urticanti e di salsedine.
Vi sono casi in cui parlo scrivendo, ma saranno così rari da non accorgermene. Ascoltare la mia voce che dice, quando parlo, uccide tutto il mistero e il paradiso di ombre dal quale attingo per dire con parole scritte. La voce è come accendere la luce e impedire al coniglio e all'aquila reale, i miei animali meglio riusciti da bambino con le ombre cinesi, di raccontarmi un'avventura sognante e boschiva immaginandomi parte di un orecchio, di un'ala squarciata su di un picco assolato, di una loro corsa stramba nella notte.
Adesso ho concluso questo post e avverto di aver profuso del fumo, dei banchi di nebbia, ma senza aver raggiunto il nodo. Il punto centrale che mi ha fatto attraversare quel lembo nero di corridoio e raggiungere questa postazione. Solo per il dire a voce o con la scrittura, o tutto questo sarà un pretesto per attraversare la mia stanza con la luce ormai morta, e ritrovarla come non era?
Possibile, che queste parole siano solo un ricordo della luce del giorno, che è passata e un po' mi brucia?
Questo parlando a voce non sarebbe plausibile. Se trattassi una persona che incontro come ho trattato i lettori di questo blog, mi prenderebbero per matto, chiderebbero in giro cosa mi è successo.
Invece un post del genere, da scritto, mi lascia libero di essere, di vivere e di fare. È questo, forse è un grande regalo da conservare. Una fortuna, che darà un senso anche a uno scritto così desolante: senza movente.

Credo che non cambierebbe nulla. Il neo sotto l'occhio di Cixi.

Non è facile da spiegare, eppure sento che se scrivessi i miei post come un cane, non che chissà come li scriva bene, ma almeno cerco di dargli una certa linea, una certa dignità, almeno in base a quelli che sono i miei parametri, ma se invece li buttassi lì, o qui, così, senza cura, forma, dedizione, non credo che cambierebbe niente. Molte persone non ci farebbero così tanto caso. Quelli che mi conoscono penserebbero a uno scherzo, a un mal di stomaco o a una leggera provocazione. Chi vorrebbe colpirmi, lo avrebbe potuto fare anche prima, non ci vuole niente a colpire chi scrive. Anche se sei bravo, a colpire qualcuno, anche di spalle, è facile. Con le parole si può fare e disfare tutto. Si è sempre esposti ad attacchi improvvisi: un minimo errore o anche una svista, cancellerà tutto ciò che di buono hai sperato e hai creduto di fare, come se non fosse mai esistito. Tu sei solo quell'errore. Quell'errore è te, quindi tu non sei nulla. Non esisti e non sei mai esistito. Buio.
L'indifferenza assoluta a tutto il mondo complesso e delicato che si muove dietro una qualsiasi pagina, impera indisturbata. Eppure quando apro la finestra di un file e comincio a lavorare a uno scritto, mi sento con l'espressione di chi si avvicini ad una colazione fumante e profumata dopo un giorno pieno di digiuno, anche se fino alla notte prima ho scritto. Strano, pur sapendo come va il mondo. Questo mi fa pensare:
ho inviato tempo fa alcuni manoscritti, esperimenti, lo ammetto, erano dei lavori molto particolari, dove comunque si respirava un'aria nuova, piuttosto insolita e strana, di certo non troppo ortodossa. In alcuni casi ho avuto risposte di  gran lunga inferiori, come lunghezza, a questo morso di post che ho scritto fino ad ora, diciamo che in certi casi si aggiravano sui 140 caratteri, ma con la pretesa di lanciare anche delle questioni critiche, degli spunti di approfondimento o di correzione, giusto un accenno, ma senza mai svilupparli, tanto non avrebbe avuto più senso, se tu sei un incapace che cosa diavolo devo scriverti. Lei è un perfetto incapace? Lei sarà bravino ma a noi non piace? Lei è un ermetico lirico? Non ha criterio o centro? Lei ci sta sulle scatole? Ogni tanto qualche slancio, qualche accenno a qualcosa che non funziona nella mia scrittura, ma signori, io non cerco una scrittura che funziona, ma che tuona o che risuona o che frastuona così come la mia vita che in quel momento la scrive e la vive. Funzionare cosa vuol dire? Un orologio funziona quando cammina, quando è fermo o quando si ferma troppo spesso non funziona più. La mia scrittura sarà allora ferma,  si fermerà troppo spesso, ma nemmeno questo mi è stato detto, sono state scritte cose senza una loro base, scritte per giustificare altre ragioni che forse non potevano essere dimostrate in pieno.
Ma allora perché incominciare un certo discorso, quando sai che non potrai concluderlo e lascerai solo ombre? Se anche io avrò lasciato delle ombre nei miei testi, vi sono stati mesi di lavoro perché queste ombre si saranno formate e articolate, vi sono state delle emozioni, non credo che contro dei mesi di lavoro sulle ombre e sulle emozioni, sia giusto accennare a un aspetto critico, e poi spezzare. Meglio dire: la sua scrittura non ci piace. Non ci interessa. Non ci convince. Molto più semplice, esauriente. Senza cominciare a lanciare granate sui sentieri, per poi interromperle subito e andare via. La stessa cosa di uno che mi chiama al telefono e mi fa: ma che cosa hai combinato? Non capisco, gli faccio, mi potresti spiegare? No, lascia stare, adesso devo abbassare. E allora, quando mi spiegherai, ma ormai quello ha abbassato, non ti sentirà più. Proprio così.
Questa è una cosa che se qualcuno mi chiedesse un mio giudizio, come diverse volte è successo, non farei. Ho dedicato ai testi dei ragazzi di un liceo, per il progetto Repubblica, di qualche anno fa, molto più tempo di quello che ho dedicato ai miei. Per esprimere un minimo parere su di uno scritto, ci vuole tempo ma anche una mente fresca, libera da preconcetti, ispirata da come si muovono le parole degli altri, e non solo dalle coordinate che decidono come si dovrebbero muovere, che punteggiatura usare, che tipo di stile per creare nel modo giusto e quindi per funzionare.
I testi di quei ragazzi per me erano neve fresca, che andava annusata, tenuta con cautela per non farla sciogliere. Qualsiasi mio giudizio, sarebbe dovuto nascere da un'esplorazione adeguata e approfondita dei loro tentativi e del loro grandissimo impegno amorevole profuso. 
Il problema di fondo è che oggi, per quante persone scrivono, nessuno che dice e scrive di cercare manoscritti, è davvero in cerca di qualcosa. Quel qualcosa già lo ha. Hanno bisogno di un certo tipo di autore, di scrittura, di tecnica narrativa. Non cercano nulla di generale, ma qualcosa di già esistente e particolare.
Ma intanto sono convinto che la pubblicazione non deve essere l'unico punto fermo di uno scrittore, l'unico suo obiettivo. Io credo in un raggio più ampio del discorso o dell'esperienza scrittura, dove conti molto più il terreno di pratica, che una collocazione, ancora da acerbi, in una collana editoriale. In certi casi può essere pericoloso essere scelti con superficialità, e creare molti più danni di un rifiuto più o meno ingiusto. I miei testi rifiutati, in diversi casi li avrei condannati anche io, semmai con uno spirito diverso. Ci ho continuato a lavorare, ho continuato a credere in loro e ad amarli. Ho smussato, ho tagliato, ho sezionato, ridondanze, rigonfiamenti, ripetizioni, ci vuole una vita, davvero, un rifiuto spesso è un' opportunità per fare meglio, una grande opportunità e non solo un'ingiustizia. Anche un rifiuto ingiusto, di solito fa più male a chi lo fa che a chi lo riceve. Anche in un ottimo testo, c'è sempre da migliorare e da rassettare. Ci vuole tempo pazienza, pratica, umiltà, talento, troppe cose insieme, e intanto non c'è nessuno che avrà mai il tempo di pesarle e di misurarle queste cose. Scrivere per sé, è la regola principe, senza aspettarsi niente, perché oggi non c'è quasi più niente da fare se scrivi.
Una pubblicazione di solito può essere anche richiesta, per una serie di situazioni in cui ti sei trovato, - ecco perché è importante vivere un terreno aperto di pratica e di piccoli interventi satellitari, anche in rete, accontentandosi di piccoli passi puliti, pesati e ben fatti, anziché inseguire subito il sogno di una pubblicazione di rilievo. Situazioni in cui sei stato osservato, valutato, con una certa attenzione, nelle quali potrebbe essere accaduto qualcosa, qualcosa che associ al tuo modo di muoverti e di reagire alla parola, una consonanza con un disegno ancora accennato, che cerchi in qualcuno un suo completamento, una sua quadratura, un suo sviluppo. In alcuni casi si viene prescelti per altro, e non per una singola opera che dovrebbe collimare con quelle che sono le visioni di una certa editoria, di un certo mercato, di un certo stile, che andrebbe commisurato a quella certa particolare utenza, per cui è davvero assurdo che questo accada.
Esistono opere e scrittori, anche piuttosto originali. Non si deve sperare di ottenere qualcosa mettendosi solo in fila, e nemmeno osare di tagliare la fila. Ci vogliono altre cose, che uno scrittore deve scoprire da solo. Io sono sempre stato da solo: la mia scrittura è un'avventura di solitudine e di libertà, e solo per questo mi ripagherebbe di qualsiasi affronto, rifiuto, incomprensione, assedio o ingiustizia, che potrebbe capitarmi da stasera in avanti. Io ho già tutto quello che voglio, ho una mia voce. Il resto è solo un di più.
Quindi, ritornando al post, sono convinto che una persona che scrive, vada osservata e valutata per un raggio molto più ampio di situazioni, di suoi interventi e movimenti, anche se brevi. Posso accorgermi di un grande scrittore anche solo per un suo commento, se ho l'occhio fresco e attento. Ma oggi non c'è il tempo di seguire e di guardare su linee ampie un percorso espressivo di un autore. È l'unica possibilità per sentire il polso di chi scrive, per sentirgli il cuore, con il suo soffio, le sue paure, le sue aspirazioni, ma questo avviene di rado, si cerca sempre dell'altro, ma dell'altro noto.
Oggi non c'è tempo per osservare. In una fase di transizione la velocità e la mattanza di esserci, hanno cancellato la lentezza e la pazienza di chi osserva i particolari, i dettagli, i respiri minimi, per arrivare a una conclusione; questo sia riguardo le opere letterarie inviate, che per quanto riguarda i percorsi in senso lato di un autore che si espone, il suo piccolo terreno di pratica a cui accennavo prima.
Mi rivedo, quando costruisco anche solo una piccola situazione di un personaggio, da inserire in un punto delicato, una sola frase, con quanta lentezza, pazienza o anche dolcezza e acume, devo accudire la mia immaginazione osservare occhi, pettinature, occhiali, nasi, nuche, braccia, ginocchia, espressioni, dentro di me, e metterli insieme a quelli che ho visto per caso, a quelli che ho immaginato solo, senza averli mai visti, ma anche a quelli che ho visto e che  ho riconosciuto solo dopo averli immaginati - accade anche così,  quando mi accorgo che le ombre e i tratti che hanno fatto andare avanti un personaggio, li avevo già vivi dentro di me, ancora prima di incontrarli dal vivo. Tutto questo lavoro necessita di una pazienza e di un amore infiniti, e avrebbe bisogno di essere poi analizzato con la stessa pazienza, attenzione amorevole, acume e profondità dall'altra parte e non soltanto annusato e sfiorato. Allora le cose cambierebbero, ma io sono certo che questo non avverrà, per cui le cose, almeno allo stato di questi fatti, non cambieranno mai. O almeno al momento.
Ma per me questo non costituisce alcun problema. Io continuerò ad esercitare la mia pazienza, a esercitarmi nella purezza del tratto descrittivo, ad alleggerire le mie parole per farle andare più in fondo, ma senza aspettarmi niente. Come in un post, in uno come questo.
Se adesso avessi deciso di aprirlo con un dialogo del tipo:
"Me la sono chiavata in macchina, quella brunetta, la vedi, quella sulla destra, di spalle, con il cappotto bianco. Adesso ha tagliato i capelli, ma quando stavamo in macchina ne aveva tanti, tutti nella bocca, la facevano ancora più porca quando mi guardava e affannava, non ti dico quanto strilla! Una sirena!", tutto inventato sul momento, gettato così, intanto c'è già una certa linea che con un titolo adeguato del tipo: "I capelli dentro la bocca", per esempio, potrebbero intrigare, ma se invece io scrivessi così:
"Questo Natale con il mio Enrico ci siamo scambiati i regalini. Ero così emozionata. Lui mi ha regalato i guanti  rossi con la sciarpa, io un disco di Giorgia e un paio di occhiali a specchio. Siamo stati tutti il tempo sul divano, insieme ai miei. Enrico parlava con mio padre, e io e mia madre, tutte emozionate, contavamo quanti sorrisi facesse papà, sempre così serio e burbero quando sale Enrico, e quanto sbatteva la gamba sul pavimento Enrico, anche lui così nervoso e preoccupato. Mamma ha aperto un panettone; quando papà è andato al telefono, io mi sono avvicinata a Enrico e gli ho dato un bacio sugli occhiali. Erano appannati, mi ha detto di volermi bene, ma di stare attenta, che mio padre poteva tornare. Il panettone Enrico non lo ha mangiato perché non ama i canditi, io non amo i guanti rossi", questa è una soluzione molto diversa, sembra scritta da un'altra persona, che non sono io, ma sono convinto, in base a quello che ho scritto prima, che non cambierebbe assolutamente nulla: sia con la brunetta che con Enrico dagli occhiali appannati, troppa fretta, non c'è il tempo. Già i miei post sono sempre più lunghi, così poco da blogger e più da uno che si atteggia a saggista.
Ma io non sono niente di tutto questo. Come ho scritto su twitter, io vorrei essere il neo sotto l'occhio di Cixi. Credo che sia un luogo meraviglioso di scrittura, musicale e molto sognante. 
Tutto qui?
(Ma sì...dài va bene così! Che faccio, lo pubblico?).

martedì 25 dicembre 2012

Augurio di Natale con imprecazione

Davvero strani certi comportamenti.
Stamattina ero al semaforo, da pedone. Fermo. Di fronte a me, dall'altro marciapiede, una coppia, credo marito e moglie: lui abbastanza alto, il volto ampio, dall'espressione pacata di un gigante convalescente. Sua moglie piccolina, una bomboniera di Murano, dietro gli occhiali uno sguardo pacato senza orizzonti. Non c'era più nessuno oltre noi pedoni.
A un certo punto, tra le tante macchine che girano a sinistra, ve n'è una in cui l'uomo della coppia riconosce qualcuno, immagino amici, non credo parenti. All'interno di quell'auto vi sono due individui, piuttosto giovani, piuttosto interessati al saluto natalizio del gigante convalescente, il quale esprime il suo augurio natalizio con una serie di gesti, di imprecazioni, di epiteti, di smorfie, di derisioni, che io non mi sono sognato di fare nemmeno al mio peggior nemico in nessuna circostanza della mia vita - nemico che tra l'altro non credo di avere mai avuto.
Una serie di gestacci equivoci col braccio, poi qualche valanga di termini pesanti, e quelli che sorridevano a tanta generosità, intorpiditi dalla curva appena impegnata, e quando poi erano già lontani, e l'uomo, che finalmente aveva rischiarato il suo viso buio, che prima del passaggio di quell'auto pareva mummificato, continuava adesso con sua moglie le imprecazioni pesanti verso i due della macchina, ancora più felici ed espressive: mi pare di aver colto qualcosa tipo: chillu piezz' 'e (m)merda, che aveva la valenza, almeno in quel contesto di: auguri, auguri di un Natale di pace e di serenità, mi raccomando, anche alla sua signora, e intanto la moglie sorrideva quando quello continuava, senza freni, mi pare di aver colto anche un epiteto tipo: chill'ato è ancora cchiù strunz, o meglio: è sempe stato 'nu dio 'e strunz!
Non credevo ai miei occhi, eppure sembravano così felici tutti e due, il gigante e la sua bambolina di Murano, di sfumarmi oltre e di continuare, una volta che mi ero girato, dopo aver attraversato, sentendoli felici di tanto commentare cavernoso e di quanto i due  insultati, che non avranno colto tutta la fase anteriore all'augurio, quella confidenziale, hanno riempito di vita e di gioia una piccola parte di quel loro Natale e di sempre maggiore stupore la mia insaziabile attenzione.
Mistero:

In una notte festiva

In una notte festiva, qualsiasi sia l'approccio al sacro, si avverte l'arresto dello scroscio recente di vigilia e si considera quello che l'arresto di un flusso emorragico consente a chi si ascolta nel profondo. 
Qualche sportello ancora sbatte nel cortile, il rumore della carta da pacchi, i tacchi alti, qualche risata. Il Natale è amore, ragazzo mio, così mi direbbe mio padre, se potesse guardarmi scrivere adesso, esplode qualche fuoco da lontano, forse una sua fucilata alla mia nuca. Se con te morto continuo a esserti figlio, e ancora da morto continui ad essermi padre, in una notte del genere vorrei un consiglio,  una parola, uno schiaffo, un tuo bacio caldo sulla bocca. 
Alcuni ruoli mantengono una soglia flebile di eternità, un'eternità relativa, fino a quando l'altro capo del filo rimarrà teso.
In effetti il figlio di una persona morta non interrompe il suo ufficio, anche avendo mia madre viva, sarei figlio allo stesso modo con entrambi assenti. Il ruolo si assorbe e contamina del suo humus un'esistenza. Una gabbia di amore e di radici dalla quale non si potrà mai uscire. Anche un padre senza un figlio continuerà il suo ruolo e il suo ufficio. La stessa premura, la stessa attenzione, responsabilità. Così una madre e tutte le altre possibili combinazioni di un'assenza. L'amico vivo avrà ancora un amico, non ne avrà uno in meno. Anche un ateo che perde un amico, continuerà a sentire l'amicizia dello stesso peso che se quella persona non fosse scomparsa. E anche un fratello e una sorella, rimarranno fratelli anche nel buio. Una moglie e un marito. Un fidanzato e una fidanzata. Un amante e un'amante.
Mio fratello morto prestissimo, Antonio, prima della nascita di Chiara, continua ad essere mio fratello, nonostante non abbiamo avuto il tempo per niente, non c'entra. E così rimane fratello anche per Chiara, mia sorella che è arrivata un po' dopo dalla sua morte, e che non ha vissuto la perdita da presente ma da assente, ma ha anche lei un fratello, un altro fratello oltre me, così come ha ancora un padre e così come mio padre morto ha ancora quel figlio morto, allo stesso modo di come ha ancora noi due vivi ed è ancora sposato, da morto, con una moglie viva. L'eternità del ruolo è una strada sterrata dove giocano le nostre polveri e dove studio il mio fumo e il mio futuro, il dolore della nebbia che rimane di un altro, in una notte così bella di Natale può sembrare un delitto, dentro questa pace, invece lo trovo il momento giusto per toccarmi il fondo e sentire:
quello che sono e che ho dato, che cosa rimarrebbe se all'improvvisso io adesso morissi? Quale ruolo, oltre a quelli di sangue, rimarrebbe a pulsare, come una stella o una candela, in altri luoghi, lontani, che ancora non conosco?
I miei amici, i miei congiunti o disgiunti, le persone che ho visto una volta, quelle che vedo di continuo, ma che non sono ancora amici, non sono nemici, non hanno nessun ruolo se non quello di uno sfioramento sottile, quasi involontario. E quello che ho scritto e che non ho scritto scrivendolo. I miei racconti, i miei romanzi, quelli scritti, quelli inediti o solo pensati e amati come se già scritti o anche di più, nella delicatezza sognante di un solo pensiero.
E tutte le persone conosciute in rete, sentite, avvertite vere, in profondità, ma mai viste. Tutti i miei contatti mail, con i quali sono stato l'unico ad avere un contatto, che cosa direbbero del mio silenzio interrotto, senza un preavviso, semmai confidando nella sequenza naturale dall'ultima mail, passano 1, 2, 3, 5, 10, 15 giorni, e da quell'indirizzo non arriva più nulla. Non avranno altro di me. Non hanno un telefono, un recapito, cominceranno a sospettare in un imprevisto, un problema al computer, un viaggio, una malattia, ma non alla mia morte. E chi dei miei si prenderebbe la briga di avvertire uno per uno i contatti disertati, di persone che mi hanno voluto bene o anche solo pensato, semmai molto più di quelli che ho visto molto spesso da vicino, e che non mi hanno voluto bene o pensato quanto quelli fatti di parole, di link, di messaggi, di twitt...
Mia sorella o mia moglie, potrebbero cercare nelle mie parole quelli con maggiore frequenza di scambio, tirare il fiato prendere il coraggio e cominciare. Da un nome a caso, il primo invio, e intanto, sarà passato anche più di un mese, e quello dall'altra parte troverà il mio nome e il mio cognome in grassetto, almeno così avviene in Mail, e mi penserà vivo. Nessuno al mondo immaginerà che da una mail così semplice e immediata, possa arrivare il messaggio di qualcuno che non c'è più, che non sentirà mai più da quel momento e che quella, da quell'indirizzo, sarà l'ultima mail della sua vita. 
E quando leggerà, si accorgerà di come mia sorella o mia moglie o qualche amico, se pure una cosa del genere avverrà, cercheranno di trovare le parole adatte mentre le scrivono, cercando di avvicinarsi alla notizia: Ciao, non ti conosco, sono la sorella di Luigi, per esempio: ho visto che vi siete scambiati diverse mail, da diverso tempo. Mi dispiace doverti dire, ma no, è possibile che a quel punto mia sorella si sia fermata, si prenda ancora del tempo, e allora allunghi il brodo, cercherà inutilmente un'altra strada, forse più indolore, ma si illude, perché in quel momento sta solo ritardando il colpo, o l'eventuale colpo che quella notizia potrebbe dare a qualcuno, e allora ritornerebbe al punto, a un certo punto, esasperata dai tentennamenti e dalle cancellature, scriverebbe di getto e con violenza, la prima successione che le verrebbe, tipo: è successa una cosa tremenda, tutti noi siamo ancora sconvolti, solo adesso abbiamo trovato il tempo. Mi sembrava giusto comunicarlo anche agli amici della rete, so che Luigi ci teneva tanto, e l'altro allora comincerebbe a capire, forse a tremare con una gamba, o con il braccio, anche una spalla, a volte le reazioni nervose a certe particolari sequenze sono davvero inimmaginabili, le zone più sicure e stabili possono cedere all'improvviso, contro ogni aspettativa. Mi dispiace, continuando, comunicarvi, o comunicarle, non immagino come possa scrivere, ma forse mia sorella passerebbe al tu, direttamente, per una situazione del genere non andrebbe tanto per il sottile e arriverebbe in breve al sodo: nemmeno noi ce ne facciamo una ragione, è stato tutto un precipitarsi, non se ne è nemmeno avuto il tempo, ma dicono che non si è accorto di niente...e così via. Semmai utilizzerebbe lo stesso messaggio per tutte le altre mail, almeno per i contatti ritenuti più urgenti da una sua rapida scorsa, i più importanti, non avendo la confidenza che avrebbe con i conoscenti dal vivo e in comune, in grado di sollecitare un passaparola del genere. E tutto sfumerebbe, dopo molto o poco tempo...anche dalla rete, così le mie parole, le mie battute, la mia delicatezza o ferocia, i miei post,  i miei racconti,
il mio strano ruolo indefinito, invisibile, incompiuto.
Capisco che è tremendo. Lo immagino tremendo da ambo le parti, ma soprattutto nei panni di chi non ha altro modo per sapere. Nella rete tutto si semplifica, le distanze, la fluidità della comunicazione, le resistenze, gli impacci, questo quando si è vivi, ma se invece capitasse qualcosa del genere, sarebbe tutto più oscuro, macchinoso, atroce e complesso. Ecco l'altro risvolto.
E il mio ruolo? Le mie parole in una mail avranno mai avuto la forza di un mio sorriso, di una mia battuta, di un mio discorso espresso anche con gli occhi, con una mano stanca nei capelli, aggiustandomi la sciarpa, sbadigliando, o rimarranno segni vuoti, che sfumeranno giorno dopo giorno?
Perché scrivere una cosa del genere, in una notte del genere?
Non ne ho idea, ma la sento profondamente intima e religiosa, in un momento di rivelazione e di mistero, imparare a fare i conti con la propria assenza è importante e formativo. A queste cose non si pensa mai. A me stanotte è successo, se non le avessi scritte sarebbero sfumate, senza ruolo, e io avrei perso questa paternità e loro l'appartenenza a una mia visione delle cose così diversa e intensa, da sembrare impossibile.
Vorrrei imparare la delicatezza estrema, verso ogni parte del mio cosmo, il dare e l'affidarsi, senza reti e senza ruoli, senza temere di sottrarre a qualcuno, e intanto la delicatezza diventa il mio senso, la linea azzurra di un delfino che gioca anche in una notte soffocante, quando qualcuno potrebbe sorridere a una mia parola, a volte ne basta una. Le parole non vanno mai buttate e sprecate. Sono come il pane. Ecco perché scrivere è difficile; farlo senza uccidere quello che si vuole dire e il tempo di chi dovrebbe ascoltarlo, è davvero raro e difficile. La delicatezza, è l'unico genio umano che mi commuove...
Una notte mio padre ricevette una telefonata da un suo amico medico, di origine egiziana, in cui, con una voce concitata, quello gli diceva che voleva morire. Mio padre da allora non lo ha mai più sentito. Quando penso a queste continue notti che incombono sulle relazioni, nei contatti, negli scambi, avverto l'odore di un muro altissimo e la voglia di essere altro, di sconfinarmi di amore e di possibilità, come se con ognuno avessi ancora un solo minuto.
Il Natale è amore, così mi direbbe mio padre, che rimane ancora mio padre e credo che lo rimarrà anche quando non sarò più un figlio vivo, dopo questo post.
Buon Natale, a tutto quello che non è perduto...

lunedì 24 dicembre 2012

La scrittura dall'occhio chiuso.

L'essere personali non è sempre un indizio di originalità. Così come in diversi contesti l'essere originali potrebbe essere molto lontano dall'essere personali.
Per chi sia interessato a scrivere, per esempio, quante volte, anche in vesti diverse, questi due demoni si saranno presentati, l'uno accanto all'altro, l'uno sull'altro o nell'altro, come entità disturbanti ma suadenti e spesso ingegnose per favorire la ricerca di una propria voce.
Io penso:
perché si deve leggere tutto in termini di proprietà? La propria voce vuol dire la mia, che cerco di rendere mia solo nel suo distacco da una diversa e quindi, dentro di me, più originale della tua. Perché molto spesso, quando si è molto in sintonia con un certo delirio di onnipotenza, si pensa che il proprio suono, la propria voce, costruisca il proprio valore su quella certa singolarità, o personalità e originalità di sorta. Una sorta di marchio di qualità, in diversi casi avvertito dentro come fame, sete, spesso arriva come un colpo di sonno, così scrivo per distanziarmi su qualcuno o su tutto il resto che mi supera in qualcos'altro. 
Non sono così veloce quanto te, ma io scrivo e allora ti distruggo. Le mie parole saranno testate per un uomo più bello di me, che potrebbe sottrarmi mia moglie, guardarle le sue belle gambe e farla barcollare, arrossire o ridere troppo, e io allora ti scrivo dentro, come un pugnale, e uccido la tua bellezza o anche il mio limite. O per qualcuno più simpatico, più radioso e meno timido di me, che può ingoiarsi in una sola sera tutti i miei amici: io però scrivo. Tu sei più alto di me, ma non scrivi come me. E spesso ogni paragrafo diventa un accesso all'insondabile e alla necessità di farsi spazio con il gomito nello sterno ferroso di qualcuno che ti supera e che ti macera in qualcos'altro. Che è più ricco, d'accordo, sarai più ricco, ma non avrai la ricchezza delle mie parole, con cui riesco a bagnare mutandine in tempo record, non ci credi? Vuoi le prove, forse? O che avrà più potere, più bravura in altri campi, anche più intelligenza e cultura, ma anche lì, sei intelligente ma non scrivi come me. Quando scrivi sei un deficiente: levati, che sto aprendo un file e con questo file ti rompo il culo, ma di brutto. Vogliamo provare? Adesso, in 30 secondi, avanti, fai saltare quella ragazza dalla sedia, subito, anche un paragrafo, voglio vedere se ne sei capace, e questo demone avanza: si ragiona solo di parole orginali, contro un mondo che non comprende ma compete, che dorme e ti dimentica, che fornica con i tuoi morti e non ti consola, e questa capacità di poter fare e strafare con le parole – che tra l'altro, almeno fino a certi livelli, è una capacità che una persona di media cultura o anche di buona estrazione, può tranquillamente avere: quante volte ho sentito persone rileggere i propri temi, ricordare il loro dolore, la loro solitudine nell'essere definiti i mostriciattoli letterari della classe, ma che temi che scriveva, si vedeva da allora che c'era la stoffa, e la loro vita continua intorno a questo filo che con grande lentezza comincia ad attorcigliare un intero mondo di sensazioni, di relazioni, solo per relegarle nella potenza di un getto anarchico e radioso, personale, quindi originale, solo perché legato alla propria persona che deve rendere muto il resto del mondo e soggiocarlo della propria verità di luce letteraria.
Uno scrittore dovrebbe occuparsi di altro, non solo della bellezza o della forza o efficacia delle sue parole. Io ho capito le parole attraverso le non parole.
Ieri mattina c'erano due fidanzati, seduti su di una panchina, nell'ultimo lembo di una strada che frequento e che amo molto, e che finisce con un panorama delicatissimo. Io ero con due amici, ci siamo spinti fino all'ultima ringhiera, ci siamo messi a parlare, la ragazza fidanzata era seduta accanto al fidanzato, anfibi, collant neri, di sicuro messi nuovi quella matttina, accavallava le gambe con un'eleganza, quelle gambe erano bellissime e non facevano male, odoravano di biscotti Bucaneve e mettevano pace, infatti i miei amici non le hanno notate. Di solito oggi si nota il culo, il mazzo, come dicono molti, ma gambe tristi o felici, quasi mai si notano più, sono ordinarie, poco originali o personali. La fidanzata aveva in mano una macchina fotografica importante, ogni tanto  guardava il ragazzo, poi lo inquadrava dalla macchina, un solo occhio chiuso, quello che rimaneva fuori, e dentro quel buio di quei pochi momenti io immaginavo quello che avrebbe visto. Durante lo scatto c'è sempre una parte di buio, indispensabile per controllare la luce e le sfumature dell'occhio che è dentro la macchina, ma quel buio, nella sua vita, in quel momento, sarà davvero così nero e vuoto, una saletta d'attesa prima dello scatto? Solo in quell'istante ho rivisto con lucidità che cosa rappresenta per me la mia ricerca di scrittura. Esattamente lo stesso gesto prospettico di quella ragazza, ma dalla parte dell'occhio chiuso. La mia scrittura nasce e si sviluppa da quell'occhio chiuso, che sembra morto o inutilizzato, ma che nasconderà un segreto, un mistero. Qualcosa che nella foto non si evincerà mai, e nemmeno il ragazzo scoprirà, il buio di quell'occhio era il suo nudo, più del ginocchio appena scoperto sulla panchina, che in quel momento avevo afferrato solo io. Credo che in quell'istante della foto, prima dello scatto, mi ero preso quella parte di buio, quella che adesso si sta sciogliendo in questo strano post di vigilia, così ordinario, poco festoso, impersonale, scialbo, inconcludente. Come un occhio chiuso sul mondo, ma aperto verso un altro mondo parallelo, che non si vede. Senza quell'occhio chiuso, pensavo, la foto del suo fidanzato non sarebbe riuscita, o forse sarebbe venuta lo stesso ma senza la stessa densità di mistero. Nell'occhio chiuso la ragazza poteva essere altrove, vedere altri mondi impressionanti e impressonabili per altri sviluppi. Eccolo il mio nodo. L'unico e misterioso.
Niente di originale, di personale, ma la ricerca di una verità nell'ordinario, che è l'unico mondo che conosco e che vedo, l'unico che può comunicare con quello doloroso e disturbante che sento dentro, che mi dà vita e mi rende l'esistenza setosa e feerica, come una lunga sera che si allontana.
Mi è molto difficile, proprio per questo motivo, definirmi uno scrittore, anche se oggi molte persone dicono di esserlo e credo anche a ragione veduta, vuol dire che avranno dei motivi per dirlo. Se io non so fare una cosa, e ci sono tante cose che non so fare, non mi sognerei mai di dire il contrario, e cioè di saperle fare. Mi riesce impossibile dire bugie, col rischio che da un momento all'altro qualcuno può smascherarmi. Per questo credo che chi si senta scrittore in qualche modo lo sarà, e quindi, di conseguenza, se io avrò delle resistenze a definirmi scrittore, dei motivi ci saranno. È probabile che lo sia meno degli altri, o che abbia una concezione diversa di scrittura che si fa. Non è un problema,
molte persone mi avvertono reticente, ombroso, lontano. Io continuo a fuggire ruoli, richieste di attenzioni, non sono portato a chiedere a qualcuno: mi leggi, per favore, io sono un super timido, non chiedo mai, ho un po' sempre vergogna di bussare, in un mondo così rapido, dove tutti si sono industriati e organizzati per proporre, rettificare i loro scritti, scagliarli addosso nella mischia e tempestare allo sfinimento le loro cerchie, spesso utilizzandole come platea, non c'è posto per un timido.
Ma io preferisco guardare il mondo dall'occhio chiuso di quella ragazza che stava per scattare la foto, sono certo che il mio mondo sia a suo agio in questi momenti di stupore, di piccolo incanto o miracolo, senza che si chiedano le cose, è come chiedere: per favore, potrebbe amarmi? Io vorrei sapere se lei trovasse il tempo, ogni tanto, di amarmi. Non deve fare niente, lei continui a fare la sua vita, con i suoi affetti, le sue cose, basta che ogni tanto si ricorda di questo amore, che non le farebbe niente di male, ecco, devo riconoscere che quest'approccio sarebbe molto più bello e creativo, senza accostare le persone con la merce conficcata in un gomito, aspettando il momento opportuno per farla scivolare, e dire, oh... che sbadato, il mio romanzo, a volte i casi della vita, e quella: ma tu allora scrivi, ma io non lo sapevo, e allora si tenta di essere reticenti, io dovevo consegnarlo domani, ma se a te va...guarda che per me sarebbe emozionante avere un tuo parere, veramente...l'altra è imbarazzata, ha anche fretta, io, non so se riesco a leggerlo in un solo giorno, sono un po' presa, ma no, chi te lo ha detto, ma...tu dicevi di doverlo consegnare entro domani, ma no, se tu decidi di portarlo con te, per me non ci saranno problemi riuscirò a trovare una soluzione, e questo all'infinito, cercando occasioni perché la propria originalità e la propria personalità siano al centro del mondo.
Io invece concludo dicendo che:
non ho idea che cosa sia originale, dal momento che non ho idea di cosa sia ordinario, comune, normale.
Personale, impersonale, lo stesso, non mi piace stare al centro, mi piace il bello dei pochi.
Esistono persone che ne valgono milioni, e io ogni tanto le ho incontrate. Questo è quello che conta.
Il resto, alla Bret Easton Ellis, è: rock 'n roll!
Auguri...

"Discorso di notte" e "Passeggiate con il suocero" di Michelangelo Salerno


Discorso di notte

Abbiamo guardato
attraverso lo stesso cristallo
il palpito di una stella,
abbiamo bevuto
allo stesso bicchiere,
sorriso
alla stessa maniera.
Un discorso di notte
tra amici
riscalda
le tempie ed il cuore.
Che importa la noia quotidiana?
Ai chicci dell'uva
non basta
la gioia del contatto,
la sola certezza
d'essere parte
del medesimo grappolo?
E adesso,
con una più intima forza,
apriremo i pugni serrati
senza fermarci raccogliere
monete di fango cadute,
biglietti
pagati al passato.

Michelangelo Salerno
"Dalla parte del drago" Intelisano 1961 Milano



Passeggiate con il suocero

Mio suocero
professore di lettere
in pantaloni corti e maglia di cotone
accanto a me passeggia
certi pomeriggi d'estate
in una ferita di tramonto
sulla mano aperta del mare.
E discute e confronta
la sua saggezza scettica
di sessant'anni di vita
con i miei sprovveduti ideali
di trent'anni.

Dio
stella appannata
a milioni di anni luce da noi
sperimentato da me
ignoto alla sua anima laica
è il terreno di lotta
l'amara divisione.
E la morte
assillante presenza
continuo campanello d'allarme
per me angoscia di richiami improvvisi
per lui esaltante avventura
frantuma i nostri discorsi
solleva rigide le braccia
come il giovane morto annegato
per essersi spinto al largo
appena un poco.

Mio suocero ha un cuore da bambino.
Scorgo in lui l'altra faccia di mio padre
morto d'infarto
a volte lo sento figlio
da prendere per mano
e indicargli le strade le parole le scelte.
Questo mulinello di rapporti
con ondate di amicizia
accordo e polemico slancio
è la stima complessa che passa tra noi
la vecchia moneta che ci scambiamo
da quando una sua giovane figlia
è stata la mia esile fidanzata
poi la moglie
che mi ha partorito un figlio.

Mio suocero ha grosse mani da operaio
ma insegna latino e italiano
in un liceo.
Queste mani di forma così grossolana
se le porta
nelle sue avventure in montagna.
Queste mani così forti e sicure
scostano i rami spinosi sui sentieri
conoscono le rocce scottanti di sole
e il contatto di un pezzo di pane
da consumare in fretta
durante una sosta.
Queste mani così ribelli
e mai giunte in un gesto di preghiera
così incapaci di carezzare
le sento segni di estrema semplicità
di pace.
E quando brillano
rifugio al vento per un fiammifero
sono le salde pareti di una casa
dove potrebbe venire a dormire
un uomo stanco o un uccello
al riparo dal freddo e dalla pioggia.

Col dito mi mostra la punta di uno scoglio
che ha raggiunto a nuoto la mattina
un'altra delle sue imprese in solitudine
in luoghi dove io bianco anfibio
non riesco a seguirlo.
Mi dice che spesso
davanti al mare
o in lunghi vagabondaggi in bicicletta
gli capita di sentire
vivi parlare con lui
i suoi morti:
il vecchio padre cieco
(lo immagino un Omero analfabeta)
la madre
versetto di salmo spezzato a metà
che in un convento di monache
(dove gli ultimi anni si era nascosta
dove ora è sepolta)
chinò la testa
su un libro di preghiere.
Lui giovane
unico figlio
girava l'Europa alla ricerca.
E con rammarico parla
di queste sue fughe
di questi suoi appassionati rinnegamenti.

Sua figlia mia moglie
un tempo dopo il parto
è stata a lungo ammalata
a lungo in una clinica
dalle finestre sbarrate.
Allora i nostri dolori di padre di sposo
restavano accesi la notte.
A lungo egli ha dormito su una poltrona
con me è balzato nel breve sonno
interrotto da un lamento di lei
da un doloroso richiamo.
Insieme a me ha osservato
le lente gocce dell'ipodermoclisi
scendere per il tubo flessibile
insieme a me ha lottato con l'angelo insanguinato
presenza di passi silenziosi
ticchettio di orologio nella stanza.
Ha visto con me spuntare l'alba
di dietro i vetri
il suo braccio
sulle mie spalle.

Ci sono anche in queste passeggiate
i motti le risate per le cose
che forse fanno ridere noi soli
il mio prenderlo in giro
per le sue affannate apprensioni
per il suo impaccio
di essere un po' primitivo.
Ci sono le soste
a respirare intero il panorama
l'offerta di una sigaretta
la corsa fino all'ultima cabina
dello stabilimento balneare
il silenzio.
Nel silenzio
lo sento maestro di vita
(se un uomo può essere
maestro ad un altro)
distinguo
nei frettolosi segni della sua scrittura
la parola di un uomo
una frase scritta anche per me.
Nelle vene delle sue braccia abbronzate
andare a tirare a riva
la rete colma di pesci
scorre
il buon rosso sangue di Dio
il vino forte della salvezza.

Michelangelo Salerno
"Di Dio e di altre persone" Forum Quinta Generazione 1976 Forlì

domenica 23 dicembre 2012

Per vederla svanire

La sera, verso il tramonto, prendevo la sua piccola bicicletta, già il secondo anno senza le rotelle, la caricavo in macchina e lo portavo a percorrere tutto il lungomare di Tito Scipione, con il cielo che intanto si affossava in un rosa stanchissimo e le sue gambe felicissime lo allontanavano. 
Il figlio di mia sorella, lo stesso nome di mio padre, in quelle sere in via Scipione: per me era come riattraversare un senso filiale di protezione, una responsabilità verso il piccolo ciclista, che doveva bere l'aria e perdersi nei miei occhi attentissimi a non perderlo mai di vista. La stessa responsabilità che provavo verso mio padre, anche se vissuta da un'altra angolazione. Si è sempre responsabili degli altri, in qualsiasi tipo di rapporto o di relazione, io mi responsabilizzo e cerco di non fare del male, di proteggere, di accudire, di consentire, di lasciar respirare ma di non lasciar morire, perdere o scappare. 
Con mio nipote le regole erano poche ma importanti. Fermarsi alla fine del marciapiede, ma a quel punto lì ero sempre io ad accellerare il passo e a raggiungerlo. Far passare le persone che poteva incontrare lungo la sua traiettoria, quindi decellerare all'occorrenza, e quando arrivava alle rotonde libere, percorrerle in profondità, evitando di intralciare le persone che si intrattenevano in piedi o sedute. L'unica rotonda occupata era quella con i tavolini del ristorante, credo la prima che avremmo incontrato. Lì doveva stare attento a non trascinarsi la lavagnetta con il menù, come stava succedendo una delle prime sere, o la borsa di qualche cliente poggiata sulla spalliera di una sedia. Per il resto era libero di bersi l'aria della sera, con il rosa stanco del cielo e io lo avrei lasciato ubriacarsi di tutto quel niente, che lungo il nostro ritorno sarebbe diventato notte.
Si parlava poco. I bambini non hanno troppo da dire o da ascoltare quando devono bersi un tramonto, un tramonto dentro una bocca, si avverte l'arancione e il rosa, con l'aria diversa, più o meno pungente, rinfrescante, insulare, dolorosa e speziata. Ogni colore del cielo io sento altri odori. L'aria rosa è come di ovatta, anche il rosa ha un odore e il giorno che muore è l'unico punto dove mi sento vivo e penso alla mia vita che mi ritorna nella bocca e poi vi trabocca, osservando a distanza quel puntino chiarissimo che si affanna di gioia, allo sfinimento.
Difficilmente parlo molto quando cammino. Gli altri mi parlano molto, in alcune circostanze, è anche piacevole, ma in certi casi esistono passeggiate silenziose dove si vivono discorsi profondi per il solo fatto di essere investiti dalle stesse luci, dagli stessi suoni, dagli stessi odori. Incontrare uno stesso viso, mentre cammini, che ci guarda quasi allo stesso modo, è parlare. Sono parole che rimarranno non dette, ma illuminando discorsi di cose provate insieme, ricordate con lo stesso testimone, correlato alla luce di quella piccola esperienza che non tornerà.
Camminando.
La tomba di Marco Tullio Cicerone è poco lontana, intrisa dagli odori del mare e delle campagne aperte, e quella bici continua, la catena ronza nella sua cadenzina d'inganno, come il cotone azzurro della sua piccola vacanza, e io attraverso quella scorsa immagino il passare del tempo, l'impossibilità di fermare quei momenti, di renderli immutabili e potabili, di scriverli o di distruggerli, di contenerli, di conservarli e di scioglierli: e che cosa ne sarà di questa striscia di terra quando la guarderò tra due giorni,  piccolino, e tu non ci sarai più e sarai già partito? 
Pensavo a quanto mi sarebbe mancato quel puntino caparbio e sfilante nella sera, che adesso cercavo di ingrandire con la falcata del mio passo appena più ampia. Quando il marciapiede finiva si fermava da solo e si girava per aspettarmi, come un adulto molto preciso e scrupoloso.
Lungo il ritorno, lo stesso percorso al contrario, senza quasi dirci.
La sua piccola nuca si faceva così lontana, e solo allora mi fermavo per vederla svanire: pensando e desiderando all'impazzata di non morire mai.

sabato 22 dicembre 2012

Appunti di viaggio. La descrizione invisibile. L'indicibile.

"Si dovrebbe cercare di scrivere con il viso ancora fresco di strade, o accaldato da locali riscaldati".
Il passaggio puro dell'incubazione di un' impressione potrebbe, con una distanza eccessiva, tradire e  snaturare l'impressione".
"Dire di quello che sai e che sei sicuro di aver visto".

Non so dove ho sentito questi pareri, probabile che qualche volta ne avrò parlato io, in prima persona, ma dovendo appuntare alcuni miei pensieri sulla scrittura, credo di dover demolire quelle che molti ritengono verità assolute. Non credo, per esempio, che un procedimento che funzioni per uno scrittore possa risultare ugualmente valido per un altro. 
Ma questo è elementare, io vado oltre, ma è bene specificare che queste mie esplorazioni saranno solo il resoconto di una mia strada, un modo per raccontare una piccola parte di questa mia esperienza. Nulla di più.

Il primo stadio, parlo per me, è la paura dello scriversi addosso.
È l'elemento principale, ancora prima di investigare sul soggetto e sull'oggetto di uno scritto, io avverto la reale possibilità di essere capace di affrontare questo scritto come qualsiasi altro individuo che non ha mai praticato la parola scritta. Di solito dura un bel po', più che un pensiero radicato, questa paura di non arrivare e non saper dire, è una sensazione di assoluta inadeguatezza alla gestione della parola.
Ma cosa devo dire? Che cosa sarà così importante da lasciarlo scritto? Forse, penso, quello che mi colpisce e che mi attraversa, che mi inquina ma senza che lo abbia mai cercato. Non credo che potrò mai andare alla ricerca di qualcosa che mi colpisca, in modo da avere materiale di lavoro. 
Le cose che mi colpiscono non le conosco fino a un secondo prima del colpo; in alcuni casi, e a distanza di giorni, le stesse cose non hanno più lo stesso effetto. Per cui va aggiunto, all'oggetto contundente, un particolare contesto che renda chi dovrebbe scrivere o tradurre sensibilmente e naturalmente predisposto a una conversione di emozioni. Verso sfumature, riverberi da racchiudere nei codici di un linguaggio, per farla in breve in sterco di piccione, questo se lo si fa con il solo tentativo di sollecitare un'emozione mirata, di costruirla e di confezionarla.
Paura di lasciare solo residui, come quelli che il piccione domestico dispensa con generosità, semmai intrisi di ornitosi.

Parto da stasera.
Sono sceso per poco, ho visto cose normalissime, cose che non colpirebbero nessuno. Se adesso devo raccontare quello che ho visto, nessuno ne sarebbe colpito. Una serata prenatalizia. Isole pedonali. Automobilisti nevrotizzati. Una signora che faceva i bagagli e litigava con la figlia adolescente, la quale la vedeva carica di borsoni e non faceva nemmeno un minimo gesto per aiutarla. Che cosa vuoi? Mi dici che cosa vuoi?, così sua madre e quella si voltava dall'altra parte, poi ritornava  a sua madre, si guardava gli stivaletti blu, mi guardi, per favore? È possibile che tu non riesci nemmeno a guardarmi? Nemmeno per un solo attimo? Ti sta parlando tua madre, mi stai sentendo? Avanti, parla. Ti sto ascoltando.
O anche ragazzi e ragazzine vestiti da Babbo Natale che offrivano abbracci gratis, questo a via Scarlatti. Uno striscione con del pennarello: abbracci gratis. Si lasciano o si concedono abbracci, o qualcosa del genere.
Ma è ancora tutto troppo normale, cose quotidiane, eppure qualcosa deve essere accaduto perché certe cose viste le avrò preferite ad altre, semmai anche più interessanti ma che al momento non hanno interessato quel certo spazio dove deve avvenire quella conversione misteriosa, in cui il codice o lo sterco di piccione, risentono di una mutazione o metamorfosi e si frappongono all'immagine o alla situazione contundente, per renderla quasi un'evocazione di qualcosa che in un altro contesto, un altro luogo o in un altro tempo, avrebbe colpito chi la sta leggendo. Evocazione di un altro accaduto, per esempio. In quel caso il lettore dovrebbe fermarsi e dire: ma è proprio vero, possibile che...che non me ne sia mai accorto? Accidenti, che strano Questo che cosa significa: che non conta quello che accade, non deve essere necessario un delitto efferato o una scopata megagalattica per tenere vivo o ben teso uno scritto, ma conta l'interazione con quelle dinamiche sottili e insidiose che rendono qualcosa, almeno in quel momento, indispensabile e compatibile per chi la legge, con qualcuna già vissuta e provata in qualche contesto della sua vita, e possibilmente con quella stessa particolare intensità, anche se solo rievocata.
Un' intensità non da sapere, ma da provare e da rievocare, o da utilizzare come filtro o bacchetta magica per una certa pescosa rievocazione che forse, senza quel passaggio, non si sarebbe mai attuata, mai scoperta, rinvenuta, riconosciuta.

Torniamo a stasera.
Anche nelle cose normali esistono cose speciali.
Visi o gambe? Dove cade l'occhio deputato alla descrizione di un oggetto o soggetto? Parlo da uomo:
i visi richiamano spesso la forma delle gambe. O viceversa. Quando il viso funziona e canta, l'occhio vuole sempre vedere se canta anche la parte delle gambe. I visi cambiano quando si ritorna a loro dopo aver visto le gambe. E anche le gambe, senza quel viso, sarebbero diverse. A volte guardo il viso e conto fino a 1,2, 3, 4, in attesa di non essere visto, se mi guarda, per spostarlo sulle gambe. Descrivere le gambe di un personaggio, spesso deve essere relato a un viso o a una certa immaginazione di quel viso. Lo sguardo non deve essere mai rozzo, uno sguardo rozzo e superficiale non vede ma beve, e dopo aver bevuto, o sbavato, prosciuga l'immagine e intanto disperde anche quella incamerata per ingordigia. Chi guarda in modo sottile non pensa, ma si trasforma in quello che vede, gli parla, come a una certa essenza creaturale. Altrimenti  le cose osservate sono morte. 
Uno stesso viso entrerebbe poi in relazione con altri fattori, ecco perché è così difficile parlare di bellezza come standard assoluto. La bellezza standardizzata patisce l'impossibilità a mutarsi, deformarsi e nutrirsi delle limitazioni parallele e fantastiche, che possono operare in un qualsiasi individuo l'orgasmo di un contrappunto complesso, con un'affluenza di compensazioni, pieni, vuoti, cedimenti, rinforzi. Il limite di un personaggio è la vita di una forma da muovere in una storia. Sia quello che limiterà di solito le sue azioni in un contesto, che quello che lo raffigurerà e lo riempirà, ma stavolta rondine modulante delle sue mancanze più o meno soggettive. 
Tono di voce, profondità di sguardo, luminosità, espressione, aggressione, e anche per una serie di altre varianti molto insolite e improbabili. 
Le gambe cambiano in base alle scarpe, ma anche a una parolaccia, a un colpo di tosse, a una risata,  a un pianto a dirotto. Una donna che ride non avrà le stesse gambe di quando piange: sì, d'accordo, la struttura sarà la stessa, ma, per me che guardo, quella risata sposterà le ginocchia, così come un sisma una struttura geologica molto giovane.

Uno scrittore bravo deve distinguere le possibilità infinite della zona tra ginocchio pieno e area muscolosa e più o meno flessuosa o tornita (farcita di pieni) della coscia, che dentro un buono stivale di solito rendono in forma anche gambe bruttine o di donne in sovrappeso, ma il dettaglio più trascurato è il tipo di sguardo di chi indossa e di chi muove la coscia. Lo sguardo spento  e smorzato, cambierebbe inclinazione e profondità al ginocchio, nel senso che se devo descrivere un certo bellissimo ginocchio e mi ricordo di quello sguardo, lo sguardo entrerà a disturbare le proporzioni di quella zona delicata. Ancor di più se la scarpa è bassa, se una delle due gambe è ingessata o se la donna in quel momento è incazzata come una iena; di solito si abbellisce, così se fuma o se beve, avrà cosce diverse. In certi casi con un bicchiere in mano si diventa altro. 

Il tutto parte dal contrasto dell'osso del ginocchio e dell'estensione carnosa della coscia, ma lo sguardo diventa osso e carne, può rendere carnoso l'osso e molto ossuta la parte morbida. Così come può accadere in una figura femminile con un cappello. Il cappello modifica l'effetto e il movimento di una gamba, così come l'umore di chi lo indossa. Una gamba anche bella, con un brutto cappello, non riesce a svelare il meglio dei suoi tratti, ma viene appannata o anche amputata. Il cappello che funziona aiuta quindi sguardo e anche zone lontane, anche il ginocchio ritrarrà la bellezza del cappello e anche una coscia non perfetta prenderà la carne viva dello sguardo. Aprirsi il cappotto e scoprire un abito corto in un cinema, con distrazione o guardando altrove ma svelando, anche senza avere gambe perfette, ucciderà qualsiasi fantastica modella di Miss Italia finalista, con tanto di striscia obliqua o coroncina. Fulminata, zac...in un solo istante. Non esisti più! Ancor di più se quello sguardo avrà delle sue ombre, o se la donna sarà raffreddata, o insegnante molto severa o cameriera o direttrice di banca, cantante, parrucchiera. Ogni mestiere cambierà la sua tonalità, la sua storia. Anche la cultura. Una donna con cultura avrà anche cosce incolte e sgarbate, spesso arroganti e sboccate, così come persone semplici, possono avere corpi gentili e istruiti. Tutto questo l'ho percepito; anche se può sembrare assurdo è ancora possibile.

Così i capelli andranno a modificare le mani e anche le scarpe e le gambe i capelli e i cappelli, e anche una donna con i guanti avrà occhi diversi che se non li avesse indossati, così ginocchia, labbra e orecchie. E così via, all'infinito.
Il passo è importante, ma gli occhiali da vista, quelli molto doppi? Cambieranno la percezione del corpo, perché quella donna non avrà il controllo assoluto nel suo passo. Se qualcuno glieli togliesse e scappasse, o ancora peggio glieli rompesse, quella donna sarebbe impossibilitata a procedere, potrebbe essere taglieggiata, molestata e quindi un tocco di fragilità cambierà la linea del cappello e anche quella dell'osso del ginocchio e della parte superiore. Inaffidabile, più sospettosa, ma anche più diffidente o calcolatrice. Chissà. Anche le stesse gambe di chi è sola saranno molto diverse quando quella persona sarà in compagnia, e ancora diverse se sarà al telefono o al videopoker.

Si potrebbe andare avanti all'infinito, un personaggio lo scopro per sottrazione, da un universo di vuoti, di silenzi, di chiaroscuri, quasi sempre immaginati ma anche patiti per compenetrazioni da anni di occhi vivi e innamorati di ogni angolo.
L'occhio vivo è un occhio che ama e che non dorme mai. Ma che è sazio. Un occhio che non è sazio, non guarda ma lecca. Uno scrittore non deve leccare, ma deve istigare un tipo di sguardo intimo e privato sulle cose, ma deve avere la consapevolezza e la fermezza di restituirle in una loro interezza, pregne di un'emozione e non di un'erezione. Il gioco deve essere pulito, le stanze ariose, le cattive parole devono avere un leggero accento parigino.
È qui la grande abissale differenza. Il controllo di quello che fai non vuol dire non sentire, ma guardare sentendo e soffrendo per l'amore infinito che provi verso quello che vedi.
Se patisci l'immagine, se la guardi solo con le tue viscere, non potrai mai tradurla, ma la potrai a mala pena sentire come una lama, che ti spezza e ti confonde. Rendendoti cieco e poco medium. Scrivere di larve di mosca carnaia è facile.

Una ragazza con le ballerine e con i capelli raccolti, la immagino, in una storia, con un tono di voce diverso da una che ha scarpe da montagna con stringhe gialle.
L'osservazione deve entrare in un processo autoptico e impossibile, perché la figura non sia reclusa in uno standard di eccellenza, ma perché risuoni del suo indicibile, che in diversi casi, se lo scrittore è sensibile, può rasentare l'indimenticabile. O il suo grande dolore descrittivo. Quando descrivo e scendo sempre molto giù, ne soffro. Più è autentica la descrizione, più è vivo e saggio il mio dolore.
Ci si dimentica delle cose che si vedono spesso, che sai di non poter perdere, di quelle che hai sempre sott'occhio, che non rischi mai di non trovare, delle parole che ti tempestano, delle canzoni che trasmettono, così come delle persone che sono disponibili e recuperabili senza troppi sforzi. 
Tutto quello che invece non si vede subito in quello che vedi sempre è quello che uno scrittore deve cercare e diventare la siringa azzurra del celato e del misterioso, che diventa, anche solo per un istante, confidenza, segreto, confessione, in modo che chi la riceve si senta unico in quel contesto a ricordarsi di aver colto lo stesso, ma di non aver avuto le parole, in quell'occasione, per dirle: quelle stesse che qualcun altro  adesso ha trovato anche per lui. Ecco perché lettura e scrittura a un certo punto sono parti di una sola attività creativa, di un solo movente o pulsione e perché quest'attività può diventare un'esperienza impareggiabile e meravigliosa come poche.

Nelle gambe io guardo anche la tristezza, la malinconia delle braccia, quella profonda e lagunare delle nuche, credo che nella nuca si celi il cuore e il destino di un personaggio. La sua malinconia, la sua eleganza, il suo sguardo, la sua voce, la sua capacità di amare, di nascondere, di suonare, di disegnare, o di sognare. Il suo nucleo di nudo e di fuga.

Così come uno sguardo può essere porco come un sedere di un invasato da un finestrino, e una natica diventare gentile e sognante, come un ultimo sorriso da un treno.
L'ossessione alla sola penetrazione dei corpi, all'espletamento del rituale di appagamento, cancella da una figura descritta, tutto il suo possibile potenziale di sfumato, di accennato, di doloroso, di celato, di confessato e negato, di istigato, di mai saputo.

Le gambe di chi dice una bugia, saranno più belle, in quel momento, della modella sincera e onesta che le mostra per lavoro. La gamba anche bruttina che si gonfia e si sporca il collant sulla moto giapponese, avrà più erotismo di quella perfetta della soubrette che è inserita in un moto ordinario e quotidiano di svelamento.
La gamba scoperta e scura della madre che si inginocchia, stremata, per aggiustare la camicetta nel calzoncino al suo bambino, avrà molto più fuoco di quella esibita dalla minigonna inguinale di una ragazzina che strepita canzoni in inglese prima di andare a ballare. Così come a volte una gamba storta può farti sognare se a un certo punto quella persona ti prende il polso e ti racconta un suo dolore. Quel dolore può essere bello come un seno, a volte come un viso sereno e disteso, con gli occhi capovolti, mezzo assonnato, stravolto dopo una cena o prima di morire.

Tutto si nutrirà delle sue ombre, del suo negativo, del suo dolore di aver mancato, del dispiacere di essere altrove; una bellezza è sempre la componente di uno strano lutto con una propia parte che manca. L'erotismo è parte di un mondo di fantasmi, spostare la cenere di una sigaretta da un ginocchio, o anche posarvi la punta del naso, può rendere straordinarie e indimenticabili figure all'apparenza ordinarie, senza che debbano dire o fare troppo, ma per il solo contesto prospettico nelle quali le si inserisce, possono cominciare a parlare da sole, e dirci cose che il lettore scoprirà alle spalle dello stesso scrittore. Di questo ne sono convinto. Sono certo che alcune informazioni andranno oltre il programmato, l'ottemperato o il pianificato. Più è indicibile, qualcosa, più può aprirsi a un raggio molto ampio di sfumature e di trafitture.
L'occhiale di chi scrive deve essere ampio come quello della civetta. Spietato, silenzioso, istintivo. E solo in quel caso si potrà raccontare di un topo con la stessa leggerezza di un castello luminoso e innevato di fate.