mercoledì 19 dicembre 2012

Un'intervista di Eletta Senso


INTERVISTA DI ELETTA SENSO A LUIGI SALERNO – IL CHIODO NELLA LAMPADINA



Il racconto alterna nel ritmo delle pagine prosa e poesia. Perché questa scelta?

Questo scritto è nato diverso tempo fa, di getto e senza alcuna precisa collocazione formale, stilistica di sorta. È nato come un piovasco, senza alcun preavviso o pianificazione.
Lo stile di solito si forma dentro la tensione e la necessità emotiva di uno scritto, non parto mai con un'idea definita di stile. 
L'unico metro che ho seguito è stata la tenuta della tensione “orgasmica” interna ai due personaggi, l'intensità, i movimenti muti di camera, i chiaroscuri, le luci degli interni, per mettere a punto un affresco sulle lacerazioni di una distanza e di un' assenza, che sono poi il cuore di questo mio lavoro. 
In seguito, quando ho recuperato il testo e l'ho affrontato con occhi nuovi, mi sono trovato davanti a 85 grossi paragrafi, come se fossero dei camion minacciosi gremiti di parole, dove mi toccava mettere ordine e capire. 
O forse sentire. 
Quando scrivo cerco di sentire. Ed è questo sentire che mi ha portato a differenziare l'assetto della stesura in due modalità diverse. 
Però io non parlerei proprio di prosa e di poesia. Non credo che il versus sia sempre sinonimo, almeno in questo caso, di poesia o di poeticità di un testo. La mia scelta è stata ispirata al modello teatrale Der Ignorant und der Wahnsinnige, di Thomas Bernhard, testo che avevo divorato più volte e dove le parti del copione erano distribuite tutte verticalmente tra i personaggi, ma senza nessuna intenzione o destinazione poetica. Adottando solo in alcuni monologhi questo tipo di distribuzione, ho cominciato a scorgere delle voci interne, dei punti che potevano scorrere meglio e differenziarsi dagli altri per una loro natura forse più cantabile e ispirata che invece, nella modalità estesa, avrebbero sofferto il buio.  
È stato un esperimento, che mi pare piuttosto riuscito.
Ho lavorato anche creando un certo criterio di dilatazione di questa sequenza: mentre dall'inizio della numerazione i paragrafi per esteso sono alternati, ma senza alcuna regolarità, ogni tanto spariscono e anche la struttura verticale ogni tanto si assenta, per poi ritornare a una certa minima armonia, che però vive sempre di una continua oscillazione, come se la scrittura si muovesse dentro un' ampolla appannata. 
In effetti la scelta di questa distinzione è anche legata al moto misterioso delle due figure, alle sacche di angoscia che essenziano tutto il loro percorso, come se anche nella forma impressa ai monologhi dovesse avvenire un mutamento irreversibile del loro stadio di quiete.

Vi sono delle mutazioni di significato attraverso la sostituzione/alterazione di una lettera: “Volavi e valevi da sola” “ombretto pe(n)sante”...quale lo scopo di queste scelte linguistiche?

Bella domanda! Diciamo che ho utilizzato, in parte, la tecnica di alcuni giallisti, che giocano col tentare il lettore di dettagli impercettibili, che saranno poi determinanti per svelare alla fine l'arcano. 
Nel mio caso ho voluto annunciare in alcune parole le linee di quello che sarebbe avvenuto in un essere umano, l'impronta dei suoi primi passi, le sue ombre cinesi verso il suo delitto. Ma questi aspetti sono invisibili, un po' come una Ghost note nel jazz.
Se ci fai caso, i termini alterati e sostituibili, hanno sempre una destinazione ben precisa: il pensante (fissità del pensiero) cestinazione (abbandono) valevi da sola (espressione e valore o bellezza di una solitudine). Lo scopo è quindi quello di annunciare una linea d'ombra in una figura ancora sfumata e impalpabile, ma anche di diversificare e di arricchire il testo di effetti e di nuove luci.



“Con la follia non si muore/ ma nemmeno poi si ama”: non si ama quindi la follia?

Questo è un punto molto importante, soprattutto per l'utilizzo del pdv. 
Questa parte dovrebbe essere riverberata da voci in contrappunto (mi dicevano in seguito...) che vorrebbero essere di conforto al personaggio monologante di Teo. 
Ho cercato una sorta di straniamento dal piano esasperante e claustrofobico della storia, verso quello che avrebbero potuto dire e pensare le parti altre del mondo di Teo interpellate sul tema. 
È una zona molto triste, in cui qualcuno farà capire a Teo che in effetti quella malattia, anche se non mortale, non gli avrebbe consentito nemmeno una vita di amore: con la follia non si ama, nel senso che chi è folle non potrà mai amarti e quindi, anche se non muore, per chi ama è come se lo fosse.  È una cosa tremenda, come il non sentirsi più amati o scoprire di non esserlo mai stati.

C'è un grande minuzioso lavoro sul linguaggio: pare che ogni parola sia accostata per peso colore dimensione come le note su un rigo musicale: quanto tempo dedichi alla scrittura di una pagina? quando ti reputi soddisfatto e, alla fine, sei soddisfatto?

Molto bello l'accostamento alle note del pentagramma. In effetti vi sono diverse attinenze con i suoni nel mio modo di procedere. 
In questo caso specifico de Il chiodo nella lampadina, non posso parlare di una media precisa e quantificabile per pagina. Possono capitare situazioni in cui vi sono passaggi che mi bloccano per giorni, anche di poche parole. Il grosso del lavoro è sempre nella fase della revisione, dal momento che la scorsa di getto è immediata e caotica. C'è anche da dire che ogni tipo di scritto ha la sua fisionomia, le sue esigenze, le sue richieste. 
In questo caso degli 85 monologhi è avvenuta una cosa molto strana: il lavoro era stato corretto e revisionato, ma poi dimenticato, addirittura lo ritenevo inutile e molto lontano da me, da quello che sentivo e che cercavo da uno scritto che mi esprimesse. Solo dopo averlo ripreso, come accennavo prima, ho scoperto che aveva una sua risonanza particolare e molto intima, che prima non avevo colto. 
Ecco, allora, quando mi reputo soddisfatto: quando avverto che qualcosa al di là delle parole scritte si muove, come qualcuno dietro a una tenda che mi fa saltare. Qualcosa che esce dal foglio e mi rapina, mi abita e mi fa rimanere dentro la storia come in una casa abbandonata che non ho mai visto prima, ma dove avverto dei buoni odori, delle strane luci, dei suoni, delle ombre invitanti che mi fanno segno di restare e che mi dicono di amarmi e di proteggermi dalle mie paure, anche se non hanno ancora un viso e nemmeno voci troppo chiare. 
Io scrivo quasi sempre nella paura di un forte conflitto interno. La scrittura è insieme la mia paura e il mio amore.  Non altro.
Anche se qualcuno dirà che quella casa è da buttare giù, io di solito mi fido di questa mia difficile condizione e sensazione di stupore e di incantamento, come se lo scritto non fosse il mio. Ma durante la lavorazione sono molto duro con me stesso. Sono perennemente insoddisfatto fino a quando non sussisteranno le condizioni perché questo stupore di appagamento avvenga, e di solito è un lavoro immane, fisico e psichico, perché anche un solo paragrafo risuoni come vorrei. 
Distruggo molto. Scrivere bene è più un'opera di distruzione che di creazione, secondo me. Un buono scrittore deve imparare a distruggere, più che farsi problemi su quanto riesce a creare.

Pensi che un tipo di racconto non lineare e piano, pieno di ombre e riverberi emozionali possa incontrare il gusto di lettori abituati a ben altre sfumature?

Al momento mi ha fatto guadagnare un'intervista così minuziosa, originale e articolata, che per me è già molto ed è un passo molto importante, soprattutto visto il deserto che mi vibra intorno.
Io non mi aspetto mai troppo, io non mi aspetto mai niente da uno scritto. Uno scritto lo si lancia nel buio, solo quando lo si avverte pronto. È una struttura frastagliata e ombrosa che mi rappresenta. Quando scrivo non posso tradire le mie sfumature e i miei riverberi o anche solo attutirli, in cambio di altre tonalità o richiami, ai quali i lettori sarebbero, forse, più abituati o preparati. Sto cercando di fare emergere le mie, ed è già un'operazione laboriosa di ricerca e di gestazione. Si deve essere onesti con il proprio lavoro e con il proprio mondo espressivo, che spesso rappresenta la parte più fragile e più intima di se stessi. 
Non si può mai prevedere l'orientamento specifico di un lettore rispetto a una propria qualsiasi creazione. Se pure avessi la ricetta per orientare o attrarre un lettore in una tela, la straccerei e cercherei qualcosa senza certezze di risultati. Non immagino come potranno mai risuonare le mie parole all'orecchio di un altro, e allora sarà sempre una sorpresa, proprio come è accaduto con questa intervista, una domenica sera, da una semplice mail cominci a rivisitare anni di dubbi, di tentennamenti, di valutazioni, e il tutto in pochi secondi, grazie a un proprio scritto che ha smosso qualcosa. 
È sempre bene rimanere fedeli ad alcuni punti rappresentativi e chiari di un proprio percorso. 
Questa intervista mi fa pensare, per esempio, che a volte  le cose che scrivo non sono così difficili e ombrose come si potrebbe credere, anche per una persona sola, ne varrà sempre la pena di tentare e di perseguire un certo sentiero, secondo me.
Sarebbe bello scrivere per pochi, così come è bello cucinare per pochi amici, senza aspettarsi, solo per questo, di aprirsi un ristorante.
Tutto qui.

C'è un legame con la tua vita e le vicende che racconti?

Certo, c'è sempre un legame, in alcuni casi anche molto profondo. 
Quando scrivo, anche di finzione, esiste sempre la mia vita, la realtà delle mie vicende, i condizionamenti, i retaggi, le risonanze che mi hanno formato. Le esperienze della mia vita impregnano la mia natura e quindi il mio scrivere, anche se in dinamiche diverse da un testo all'altro. 
Questo però non significa che la mia scrittura sia legata a una turbinosa incessante autobiografia. 
Nel caso degli 85 monologhi, la storia è tutto frutto di totale invenzione, ma al suo interno esistono dei legami sottili, intercapedini e passaggi segreti, che riguardano parti di un mio autentico reale accaduto, e  di tutto quello che io sono e che anche non sono diventato, attraverso il suo lento dipanarsi nella mia esistenza.

Qual è il senso e lo scopo del tuo scrivere?

Nessuno. Nessuno di cui possa essere consapevole per includerlo in questo momento in una risposta. 
Ma sono convinto che non abbia nessun senso e nessuno scopo.

Quando termini un progetto come questo hai già altro materiale su cui lavorare o devi far sedimentare il tutto prima di riprendere?

Il movente creativo nella mia vita è assolutamente caotico. Rappresenta la mia parte più selvatica. Sono sommerso da materiale che cerco di accantonare e di far sedimentare quando avverto che abbia raggiunto un suo punto di equilibrio o comunque di una certa definizione del suo plot. 
Ma non avviene mai tutto nello stesso modo. 
Ogni testo avrà le sue regole, perché ogni testo avrà il suo mood, con le sue ombre, i suoi sistemi, le sue nevrosi ai quali devo comunque adattarmi.  
Quando ho concluso gli 85 monologhi,  ho cominciato la revisione di 2 romanzi e di una raccolta di racconti. Poi, per una serie di vicissitudini, i piani di priorità si sono spostati. Può anche capitare che un testo che avevo accantonato, dovrà prendere il posto di quello sul quale stavo lavorando, perché vi è una particolare situazione che mi porta a dover fare delle scelte o dei sacrifici o perché potrebbero capitare delle richieste o avvicinarsi delle scadenze. 
In effetti non sto mai fermo. Non esiste una vera ripresa quando si cammina. O lavoro sul materiale nuovo o sul vecchio o  su entrambi. 
Credo che scrivere significa soprattutto farlo di continuo, quando riesci a carburare e sei in buona forma:  l'unico modo per capire come funzioni il tutto è avere una grandissima pratica di scrittura e di lettura.
A tutto il resto non credo molto.

Se tu potessi scegliere liberamente opteresti per l'edizione di un libro cartaceo o digitale?

Non escluderei nessuna delle due, anzi, farei il possibile perché il testo, soprattutto di questi tempi, fosse disponibile in più formati, in modo da entrare in più mondi paralleli e diversi di fruizione. L'uno non escluderebbe l'altro. Tra l'altro ho una particolare visione sul contenitore di uno scritto. Adesso mi viene in mente il testo Content, di Cory Doctorow, dove si parla del concetto di contenuto rispetto a un certo contenitore. Quello che adesso scrivo, per esempio, così come si dice in quel testo, non è un oggetto, ma è una forma di comunicazione, un processo che muoverà e imprimerà sensazioni, pensieri, emozioni e riflessioni di altre persone che lo leggeranno, e questo indipendentemente da dove sarà letto, a prescindere dal suo contenitore e dal suo mezzo di trasmissione, perché non lo reputo fondamentale quanto saranno fondamentali le dinamiche del suo flusso interno.



Scrivi a macchina o a mano?

Per lo più al computer. Lavoro su di un iMac,  con dei semplici programmi di scrittura (Neo Office, Word). Prendo appunti a mano, diverse volte raccolgo delle impressioni su alcuni quaderni. Di solito questi appunti li tengo come bagagli a mano, da integrare all'occorrenza o da raccogliere come testi brevi. Tutti i processi di revisione avvengono invece a mano, nelle prime revisioni, lavorando e intervenendo sul lavoro finito e poi stampato, il quale sarà a sua volta corretto trasportando su file tutte le variazioni e gli eventuali tagli o aggiunte, che deciderò e appunterò con la penna. 
Ultimamente sto cambiando colori alle penne, differenziando la portata e il grado di intervento. Utilizzo il blu, il nero e il rosso, ciascun colore una fase di revisione, spesso ritornando con un colore nuovo di penna, sul testo già corretto con un altro colore, in modo da non confondere i punti già corretti e risparmiando così anche sulle cartucce di stampa. L'ho sperimentato con alcuni testi brevi, e mi sembra una soluzione interessante. Nelle ultime fasi trasporto tutto in formato ePub, e rifinisco dal mio eBook reader alla carta, ma in quest'ultimo caso, essendo testi in fase molto avanzata di revisione, sono solo dei piccoli richiami e note per piccoli interventi, qualche refuso o punteggiatura che mi sono sfuggiti.

0 commenti: