domenica 9 dicembre 2012

Non credo nelle mie parole

Quando avverto una storia, o anche una sua ombra, avvicinarsi e tentarmi perché avvenga qualcosa in modo da darle voce, avverto la mia completa fragilità. La mia più assoluta fragilità e sgomento davanti all'attrito del mio mutismo, sarà l'unica mia speranza di forza nel caso riuscirò a narrarla. L'espressione non si muove dall'espansione di un muscolo, almeno nel mio caso. Quando scelgo di narrare avviene il contatto con un'intimità che mi è sempre più sconosciuta. Conosco il mistero di quello che mi è sconosciuto, solo dopo averlo subìto. Non conosco il mistero all'origine del suo svelarsi. Non credo che si possa custodire un mistero senza averlo subìto, patito nella sua muratura. Ogni narrazione al mondo nasconde un segreto, che lo è stato in primo luogo per chi dovrà serbarlo, custodirlo e non svelarlo. O fingere di svelarlo, scriverlo senza parole, o nasconderlo attraverso le proprie parole.
Non credo nelle mie parole. Quando scrivo non sono le mie, ma fanno parte di uno stato transitorio in cui la mia persona è vulnerabile e incolta. L'atto creativo e il rapporto con il mutismo e con la possibilità della parola, sono la mia più assoluta vulnerabilità. Quello che imparo quando riesco a scrivere, è la mia vulnerabilità alla gestione del mistero, che avvolge e sconvolge i rapporti tra la memoria, l'emozione e l'idea. L'idea, o il pensiero narrante, non è sempre frutto di un deposito di memorie, di fatti vissuti. Nemmeno di emozioni o risonanze legate alla memoria. Posso essere emozionato per una dimensione di vulnerabilità del mio presente mentre scrivo e ricordo. Posso scrivere di un presente emozionante e intanto essere raggiunto dall'evocazione di un ricordo. L'emozione è uno stadio feroce del mio presente, anche se riferita e riverberata da uno strato di passato che affiora. Occuparsi della parola, in questo stadio di vulnerabilità, significa scorporare i detriti di una ferita in suppurazione, che rischia di infettare tutto un tessuto. 
Quello che di solito arriva con una storia, parlo sempre per me, è una sorta di lacerazione, una lacerazione costante, un attrito che mi fa vivo di quello che vorrei dire, che sento di dire ma che rimane impedito. Senza una vulnerabilità e un impedimento, non avrei la lacerazione, che mi consente il contatto con le regioni del profondo, le uniche dove riesco a comunicare. Quando scrivo  ho bisogno che la parola sia il risultato di un processo complesso di lacerazioni e di attriti con il mio vissuto reale, il percepito, l'immaginato, il sognato, il ricordato. In ognuno di loro vi sarà una mia piccola parte, anche una sola vibrazione cercherà la sua strada, come il viaggio incantato di un bambino sperduto in un bosco immenso, al calar della sera.
La fase in cui avverto una storia, è una fase di lacerazione e di profonda solitudine, la possibilità che lo star muti, che in quel momento è lo stadio più naturale, abbia la meglio. L'ideale è scrivere restando muti, senza fare chiasso, come se ci fosse qualcuno con la febbre alta accanto a me, o dentro di me, che mi impedisce di muovermi. Dovrò toccargli la fronte, anche solo con il mento, il gesto bellissimo di tante donne, quanto irresistibile erotismo in una donna che sente la febbre di un figlio, che gliela sente con la parte scoperta di un braccio, con la guancia sul suo viso, con un palmo fresco, e così l'accudimento per il mio ignoto febbricitante è materno, una gestazione complessa alla mia zona febbrile che non può parlare, ma che se non parla non guarirà. La mia lacerazione e il mio attrito, diventano la voce, la zona ruvida dove sfregare un fiammifero in una notte buia. 
Ogni volta questo rapporto con la mia intimità, con la mia voce e con il mio mutismo, è sempre nuovo e spaventoso, come è spaventoso ogni innamoramento. Sono profondamente innamorato del mio star muto, quanto della mia voce, e anche della stessa lacerazione, della dimensione dell'attrito che consente a una storia di nascere, di emergere, a volte di morire e di abbandonarmi. Ma non delle mie parole: non mi appartengono quanto la complessità e la delicatezza di questo processo invisibile e misterioso che le tiene incubate. In ogni caso va preservato tutto il delicato processo, con un senso di responsabilità ma anche di affidamento a parametri spesso insondabili e occulti, che alla fine mi fanno più chiaro e mi raccontano. 
Ci sono momenti in cui il restar muti vorrà dire, e altri in cui il mio parlare mi farà muto. Essere uno scrittore significa anche indovinare e sentire quando sia il momento giusto perché le mie parole facciano il silenzio dell'incanto e non del mutismo, e in cui il mio mutismo abbia la vibrazione di un'eco e non di una tomba. Questo non lo saprò mai attraverso le mie parole, ma attraverso la risonanza, che è un fattore diverso, un fattore sottile e non tecnico, che non si ottiene con un sistema o con un metodo.
Ma ogni volta che accade qualcosa e comincia l'intero processo di lacerazione, è sempre la prima.
E lo sarà per sempre la prima. Quello che scrivo adesso non mi farà più forte o più intenso domani, forse più pratico, ma la pratica non è sempre indice di intensità.
L'unica strada che conosco è quella di adattarmi a una soglia costante di dormiveglia, di torpore e di ascolto sensibile di quello che dovrei dire e che ancora non dico. In questa esatta intercapedine di lacerazione si nasconde il seme di una storia.
È molto tardi e c'è un silenzio immenso. 
Adesso sento il rumore di un' automobile lontana, ancora più lontana, adesso appena un filo, non c'è già più. 
È già passato. 

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