lunedì 31 gennaio 2011

On the phone è su Terra Nullius


Una  mail delle 6.38 del mattino,  mi annuncia che il mio racconto "On the phone" è su Terra Nullius, atelier di scritture a sorgente libera 3.0. Ottimo inizio settimana e conclusione di mese.

On the phone di Luigi Salerno

domenica 30 gennaio 2011

Il conforto dell'errore

Mi conforta la presenza dell'errore in un certo percorso; la  possibilità che possa accanirsi e rapprendersi dentro ogni mio passo. Credo che sia l'unica certezza su cui ci si può basare quando si parte: lo sbaglio. Nessuno può mai dirsi troppo competente da escludere la naturale propensione a fallire e a nutrirsi del suo errore, come un frutto di bosco avvelenato.
L'errore lo vedo come un compagno tagliente, che quando piove a volte ti apre l'ombrello, altre volte la gola. Frutto di un grande maestoso equivoco sulla giustezza dei propri passi e sui propri mezzi tecnici ed espressivi di scrittura, lo trovo l'unico maestro dal quale si possa ricavare qualcosa di buono e di sicuro. Anche gli scrittori possono stonare, come i violinisti o i cantanti. Anche quelli con un ottimo orecchio stoneranno. Avere un ottimo orecchio non significa che non si possa stonare e quindi sbagliare. Significa di accorgersi per tempo del proprio errore e avere così una maggiore possibilità di correre ai ripari e a volte di mascherarlo, facendo di quell'errore mascherato la parte più giusta  e più sana- anche se artefatta- di tutto un insieme.
Il grande problema è vedere dove si rintani il grosso equivoco. Se è quello che ti si fa notare e che per un meccanismo di accondiscedenza o anche per un'insicurezza intrinseca si tende  a prendere per buono, lasciando perdere tutti gli altri punti ritenuti buoni, e che invece potrebbero essere ancora peggiori degli altri evidenziati. Ma dove sarà la chiave? Quante persone diverse troveranno errori diversi in punti diversi, avendo letto lo stesso scritto con occhi diversi, in momenti diversi e probabilmente con errori ancora inversi e diversi? L'errore si nasconde sempre e solo nel testo e mai nell'osservatore? Oppure, al contrario, sempre solo nell'osservatore e mai nel testo? Quanti osservatori hanno confidenza con la posssibilità di osservare alcune cose con la lente sbagliata? Quanti scrittori hanno la certezza di essere infallibili e di gridare al delitto per ogni minima critica che gli viene mossa? E quanti critici ed editori grideranno al delitto quando uno scrittore sbaglierà senza saperlo?
Credo che la possibilità di un errore comune, che si allontani da un'altra eventuale superiore verità e  forse da un altro eventuale tipo di errore, anche se più vicino alla verità, sia l'unico elemento di conforto. Credo che la ricerca della perfezione, a discapito di tutto il resto, sia una forma raffinata di errore perché prende le distanze dalla possibilità di fallire. Sbagliare qualcosa, come si può sbagliare un film, una canzone, una relazione, un verso o un intero romanzo, non credo che sia tanto delittuoso quanto la certezza di essere esente da sbagli e da cadute di sorta. Molti scrittori alle primissime armi credono che aver commesso un errore significa essere degli stupidi, degli incompetenti o in diversi casi degli incompresi, e per di più geniali. Questo soprattutto perché molte persone non si interessano a quello che hanno da dire, ma a quanto risuoni geniale. Qualsiasi cosa che puzzi di genio andrà bene. Anche se non li riflette, anche se è una bugia. E se qualcuno si azzarda a trovare qualcosa che non va, allora scatta l'agguato.
Esiste invece una possibilità naturale e confortante di errore che è il seme principale per indovinare una propria strada. Non credo che lo sbagliare significhi essere stupidi e incompetenti, a volte gli errori sono grandi quanto l'animo e il talento di chi li commette e non li nasconde. Esistono grandi opere con errori frequenti e grossolani, che non le ridimensioneranno, perché c'è ancora dell'altro. Sentire un artista grande che sbaglia, a volte è la parte più artistica di tutta la performace, soprattutto quando lo sbaglio è accompagnato da un sorriso. Qualsiasi figura al mondo si completerà con una linea sottile d'ombra, che l'attraversa e la purifica, distinguendola da qualcosa di morto e di troppo preciso. Concludendo: ecco perché mi conforta la possibilità dell'errore; la possibilità che possa rapprendersi e accanirsi dentro ogni mio passo. Questo post ne è un esempio illustre.

sabato 29 gennaio 2011

Inserto da romanzo inedito

Ho visto donne spaventose, più che centenarie, sbeccuzzare truccatissime la strada sui tacchi alti intrecciati ai lunghi capelli bianchi, e spezzarsi le ginocchia sporgenti passando con le gambucce scoperte e con secchi neri pieni di rospi vivi e schiumanti.

E dietro di loro ragazzine stanchissime, dal poco trucco, rannuvolarsi nelle coperte militari per la fatica della giovinezza.

Cercavo di non farmi scorgere da nessuna di loro, rimanendo nascosto senza muovermi e respirare, in attesa che passassero oltre. Credo che sia stata tra le immagini più spaventose di quella sera, e anche di molte altre successive della mia vita.

Invocazione ed evocazione. L'ascolto mancato.

Credo che in qualsiasi processo di buona scrittura, conti molto una certa componente di erotismo musicale e di sensitività, verso quello che si decide o che non si decide di ottenere. Credo che l'erotismo musicale e la sensitività, siano due componenti essenziali per chiunque si occupi di una comunicazione di impressioni. Che si parta dalla tela di un quadro, o da un quartetto d'archi, o da un breve racconto, l'ascolto attraverso i sensi è fondamentale. Non sempre si riconoscono questi due fattori come importanti e superiori. Non tutto quello che riguarda una componente prettamente culturale o colta, si associa a fattori di una certa sensualità o di una certa sensitività di approccio. Questo avviene perché si sta sviluppando sempre di più la tenedenza a incalanare i luoghi di un prodotto in stereotipi ben precisi e determinati, in arnie pseudoscientifiche che si attorcigliano attorno allo stesso monotono fuso. Alla stessa conclamata verità. Si discute di dettagli, e si perde l'incanto dell'insieme. Dice Thomas Bernhard che da un singolo frammento, se è quello giusto, si può cogliere la profondità di un insieme, senza fatica, come nel maglio di una visione.  È una questione di abitudine di esercizio, ma di ascolto. Ho incontrato lungo la mia vita poche persone che sanno ascoltare un disco, un quadro o una pagina. Sono prese da altro. L'ascolto è qualcosa che si divide con qualcos'altro, che non è così importante, tanto l'orecchio fa da solo. Siamo poveri di musica come di baci. Ho provato più volte ad ascoltare della musica importante con amici, e a cercare di fargli individuare il punto massimo di intensità e di ardore, quello dove il diagramma era al suo zenit, dove avveniva il miracolo. Il punto dove nessun passaggio di tempo avrebbe mai sfiorito la magia di quell'istante; ma mi sono accorto che puntualmente fingevano di averlo colto, ma intanto erano già altrove, non erano lì con me e nemmeno con la musica, ma in un certo altro altrove. Una volta perso l'incanto, non lo trovi più. Pensavo di essere ammalato di troppi particolari. Di sentire forse le parti sbagliate di un brano e di trascurare quelle più importanti. Ma mi sono accorto che anche durante le parti meno importanti- almeno secondo i dettami del mio eventuale errore percettivo- la loro espressione rimaneva immutata, era ancora altrove, anche nelle zone che avrebbero potuto preferire o avvertire di più rispetto alle mie.
L'ascolto attento di un'opera è la prova che si è vivi. La presenza sensitiva nella profondità di una pagina è la prova che si è vivi, più del battito del proprio cuore. L'ascolto attento e consapevole, è una prova dell'esistenza della vita in un uomo. Ci sono pagine, quadri o musiche, che mi hanno trafitto, graffiato a vita, solo per averli afferrati di passaggio.  Ritornando ai processi di scrittura, credo che oggi siano oggetto di illustri processi autoptici e di relativa o assoluta sordità al loro fulcro e al loro insieme. Si discute sul dettaglio e non si ascolta più niente e così ci si confonde:  il male con il bene, il bello con il brutto. Da sordi tutte le cose sono mute e uguali, molto più uguali di chi davvero non le può sentire e sviluppa altri canali paralleli.
La sordità per scelta, per esercizio e per essiccamento di facoltà sensitive, è quella che riscontro nella stragrande maggioranza delle persone in cui mi imbatto. Io credo che l'unico metodo per rapprendersi di qualsiasi cosa sia quello di emozionarsene a morte. Un libro deve rimanere impresso come qualcosa di vivo e non di imparato né troppo capito, ma carpito: come un viso; un particolare luogo che si rabbui verso sera; la scollatura oscura e profonda di una commessa che mi sorride o di un grande dolore; un giorno fitto di pioggia e di lampi; un'esplosione improvvisa di fuochi d'artificio in piena notte, che mi sveglia. La descrizione  nella buona scrittura deve evocare e non invocare.
Oggi si tende a parlare di una scrittura  che invochi e che in alcuni casi  revochi e convochi, trascurando il mistero profondo e sommerso dell'evocazione. Il mistero del suono perduto e non sentito.

venerdì 28 gennaio 2011

Gli occhi del tempo e il cane blu

Credo che dovendo dare una scorsa ai  miei post di questi ultimi anni, ne salverei davvero pochi. Ogni tanto faccio un balzo e vado a rileggerli, e non sempre mi ci ritrovo. Non so per quale ragione, e nemmeno che cosa abbiano di preciso che non va. Ma il mio occhio e il mio orecchio del momento avranno forse bisogno di una certa immagine di scrittura, di un certo particolare suono che allora non sentivo e non suonavo, e che è probabilmente quello che al momento avverto di più e che forse mi rappresenta più di altri.
Avendo puntato l'orecchio a un certo suono, tutto quello che se ne allontanerà comincerà a creare una serie fitta di dissonanze, rimorsi, ripensamenti e sensi di colpa.  Certo, non si morirà mica per un post che non suona come adesso vorrei che suonasse, ma io parlo di una mia sensazione ancora più profonda, e che riguarda l'insieme di quello che ero o che credevo di essere circa un anno fa, o forse due anni fa. Ero un altro. Così le mie parole di allora e tutto quello che cercavo di dire e di comunicare. Parole lontane da questo mio me di adesso. Per una questione di stile o di piccole  passioni o vibrazioni momentanee, che mi avranno portato a trascinarmi dietro certi atteggiamenti o certi vezzi, che potevano andare bene e funzionare solo se incalanati in quel certo momento, in quel certo ascolto, quello che mi conduceva e mi riduceva mentre lo vivevo, lo sentivo e lo scrivevo.
Certo, ragionando così, ogni po' di tempo le proprie parole dovrebbero scadere, e non risuonare più valide per la mia nuova visione attuale e più matura delle cose. Scadrebbero come abbonamenti ferroviari o prodotti alimentari. Ma che cosa, oltre al solo tempo di vita e di scrittura, mi renderebbe capace di sezionare con occhio più freddo e più attento quello che ne è stato di un testo, di un paragrafo, anche di una sola frase o di  due parole, che una volta sentivo perfette e riuscite e adesso non più? Credo un certo sesto senso, che mi porterà non tanto a stagionarmi in maturità, ma a rivitalizzarmi in freschezza dell'istante di schiusa. Non altro. Credo infatti che la chiave sia proprio nel momento violento del getto, dove a volte non ho la possibilità di controllare tutto nella massima estensione, ma dove c'è ancora la memoria di un certo suono nella parola pensata, e una certa fascinazione del pensarla, trattenerla, sceglierla o escluderla, e che mi porterà  a seguire certe strade, certi tempi, certe dinamiche, anziché altri. Eppure, anche se a distanza di un certo periodo di tempo riterrò tutte quelle parole così brutte e stonate nel loro flusso, non avrò perso del tempo, ma avrò vissuto una mia percezione delle mie idee sulle cose del momento, anche se sbagliata. Si può essere veri scrittori e cattivi scrittori, come falsi e molto bravi. Un grande cuore di scrittura sbaglia mosse come un cuore insensibile, se non di più. La scordatura o la dissonanza del mio strumento espressivo, potrebbe non essere stata notata all'epoca dalla mia furia di accumulo, non per una mia incapacità percettiva dell'armonia e del buon suono, ma perché forse in quell'istante le regole della mia corrente mi stavano trascinando altrove, in un luogo dove vigevano altre regole, che probabilmente stavo rispettando con grande rigore e serietà, pur nel disordine e nella cacofonia- anche fare molto male è impegnativo. Può suonare strano quello che scrivo, ma qualcosa di sbagliato, a volte, richiede lo stesso spasmo di sacrificio, e spesso si persegue un errore con ottima buona fede, e anche con la stessa attenzione e impegno e premura di un qualcosa di assolutamente corretto e ineccepibile. Non si sbaglia solo per leggerezza e faciloneria. Quello è un modo sicuro per sbagliare, ma ve ne sono molti altri, che partono da atteggiamenti e da intenzioni completamente diversi, ed è per questo che alla fine si sta più male. Altrimenti, se avessi percepito il tritono all'istante, non avrei potuto inoltrarmi nel testo con tanta tenacia e voracità.
Credo quindi che il segreto di certe esperienze di scrittura, sia molto legato a questo offuscamento alternato, che rende (almeno come luogo comune) , lo scrittore, in un certo stadio d' incoscienza creativa, molto fertile di grandi idee e belle tensioni - quanto disordinate-, se in piena poppata e suzione di  trovate narrative e talentuose, e al contrario anemico e stitico, nella fase più controllata, quando è molto più austero, fermo e disciplinato nel suo agire.
Amo entrambe queste anime, quelle che mi portano a sbagliare e a fallire e quelle che ogni tanto mi rassicurano che non sia andato tutto perduto. Questo perché non andrà mai tutto perduto. Credo che sia la rivelazione più meravigliosa che uno scrittore, se si sente davvero uno scrittore, possa sentirsi fiorire nel suo intimo più profondo. Ogni testo da me rinnegato e lanciato contro una parete, non sarà mai un amore finito, ma sarà la possibilità di amare meglio e di più tutto quello che ancora farò e cercherò di me, attraverso i deboli fantasmi delle mie parole.
Scrivere è soprattutto cadere e farsi del male, come lo sciare,  il suonare il piano o la tromba, il crescere, l'ammalarsi o l'amare. Non credo che scrivere sia soltanto comparire e mostrare il proprio possibile meglio o talento davanti al mondo, e nemmeno solo pubblicare e diffondere il proprio pensiero con una storia indimenticabile, ma credo che sia soprattutto vivere e resistere nell'ombra delle proprie esitazioni, dei propri continui ripensamenti e ripiegamenti, e delle proprie inesorabili trasformazioni e piccoli terremoti di identità. Se così non fosse, non credo che scriverei più un rigo. Se non incontrassi più lungo la mia strada persone o addetti ai lavori che non apprezzeranno e non capiranno a fondo quello che ho fatto, vorrà dire che non avrò fatto abbastanza per rischiare dentro una certa idea di ricerca, e allora quella sarebbe una soluzione irreale, così perfetta e improbabile da essere già morta. Credo che oltre le parole che possa contenere un uomo che scrive o che tenta di farlo, vi sia molto altro,  di molto più importante e prezioso. Le parole sono l'ultimo punto e mai il primo e all'inzio possono  appena annusare quell'altro, ma rimanendo spesso opache e spente, dopo diversi tentativi, come punte nere di candelabri. Non  comincio mai a scrivere con le parole che si vedono e si conoscono, ma con tutto il resto che ancora non c'è e che non so. Con il candelabro ancora muto di luce.
In ogni revisione esisteranno sempre più anime e ombre che si scontreranno dentro e fuori di me; ma anche lo stupore per quel piccolo disegno tremante e in filigrana, così ben riuscito, che mi ha colpito molto e anche commosso, perché lo avevo del tutto dimenticato. Non ricordavo neppure di averlo mai scritto, eppure ancora esiste e resiste al tempo di lettura e del mio severo controllo a distanza. Ed è per quel piccolo punto dimenticato e sconosciuto che varrà la pena di continuare, e che potrà cominciare la ricerca delle mie parole oltre l'annusamento al buio. Sarà quello stesso punto che potrebbe allungarsi di qualche millimetro e farmi giorno dopo giorno da guida, nel tempo e in assoluto silenzio. Come un cane blu...

giovedì 27 gennaio 2011

Giorno con sguardo della memoria


"Voglio diventare una campionessa di pattinaggio e una scrittrice. Voglio che ci sia la mia foto su tutti i giornali; o forse sarò una stella del cinema. Voglio essere diversa dalle altre ragazze; voglio essere una donna moderna. Voglio viaggiare, studiare lingue, lingue e storia. Voglio fare tutto, voglio..."
Annelies Marie Frank, detta Anne. (1929-1945)

mercoledì 26 gennaio 2011

Mi chiedo:

Mi chiedo: quando ci si trova davanti a una qualsiasi opera d'ingegno, che cosa scatta davvero prima di apprezzarla o disprezzarla? Un piccolo apparato mnemonico di elementi critici acquisiti nel tempo sul bello, sul giusto, sul funzionale, sul sorridente, rabbrividente, suadente, fendente? E accostati e traslati a volo nel corso di quella esperienza? Un campanello che suona e mi avverte di quello che sia giusto apprezzare, anche se non lo si capisce? Non ho ancora capito cosa vuol dire capire un prodotto di arte. È come capire il cioccolato bianco, il vino di una particolare riserva, un bel sedere, un bello sguardo ancora assonnato? O c'è dell'altro? O qualcosa che non si può dire, ma soltanto avvertire?
Ho aspettato anni prima di aprire "La Montagna incantata" di Thomas Mann. L'ho aperto in una mattina prestissimo, di alba e di grigiori, senza nemmeno capire il perché. Dovevo intrattenermi in qualcosa, l'ho fatto perché forse non mi andavano i notiziari tv o i cartoni del mattino. L'ho aperto senza volerlo, perché volevo trovare il momento adatto e involontario per incontrarlo, dimenticando tutto quello che avevo sentito sul suo conto, e cercando di accostarmene nel disagio assoluto di un libro assolutamente oscuro, che non avesse alcuna risonanza esterna se non le pareti e il paesaggio del sanatorio. È solo attraverso questa strada che l'ho sentito davvero e che vi sono entrato dentro, come un tisico, nella tosse e nelle bellissime mattine azzurre di Castorp.
La sfera di approccio con un linguaggio artistico, andrebbe vissuta in un'arnia preconcettuale, senza rimanere sull'orlo, ma mettendo tutto il braccio nell'acqua, fino alla spalla e semmai entrare dalla parte delle gambe e ficcarci anche la testa sotto, e non respirare più. Cosa avrei ottenuto ricordando le parole di mio padre sull'opera? O quelle di qualsiasi altro critico o lettore? Lo avrei letto con gli occhi delle loro parole, rimanendo troppo soleggiato da quell'esperienza e ancora seduto e rimbambito sulla riva. Le parole vengono dopo. L'arte le supera, le assorbe, le include, le esclude, le elude. Alcune opere vanno accostate come labbra o come lebbra, o come porzioni di cibo, o di acqua ghiacciata dopo una corsa, o come un sorriso inatteso, un insulto telefonico, uno schizzo di olio bollente sul braccio nudo, un grande lunghissimo abbraccio profumato che ti spezza il fiato, mi chiedo.


martedì 25 gennaio 2011

La scuola della pioggia

Uno scrittore svogliato e pigro, ma corretto e ben fedele alle formule e alle regole che gli sono state illustrate e impartite a cucchiaiate per raccontare qualcosa in modo impeccabile secondo i nobili dettami di certa giovane scuola, parlerà della pioggia, se la sua storia a un certo punto glielo richiederà, con le  parole necessarie e più pratiche, senza imbucare viottoli oscuri senza cielo e senza impantanarsi fino alle cosce nelle buche profonde della fuorviante e anarchica immaginazione. Quelle parole magiche ed essenziali, che arrivino subito al punto e al cuore di un lettore, senza complicazioni e accidenti anarchici vari. Cercherà quindi quelle più giuste e più adatte, dallo stile meno involuto, ma con l'ombrello ben aperto e attento a non bagnarsi. Le infarcirà per bene con qualche buon tuono di maniera, o qualche lampo giallastro e ben disegnato, senza mai esagerare troppo (nessun lettore ama le esagerazioni e i getti anarchici: quelli divertono solo chi li scrive), e poi infornerà il tutto, a fiamma media o bassa, e senza complicare troppo la situazione. In fondo si tratta solo di acqua, e di esprimerla con delle semplici parole, niente di più. Perché dannarsi così tanto? Chiarezza,  semplicità, economia, punteggiatura, poche tortuosità e sterzate sul bagnato-  niente curve, per cortesia: un vero scrittore non scrive mai in curva. È pericoloso, dà la nausea all'editor e a chi poi leggerà. Tassativo! Piccole e moderate distese di sole acquatico per ogni lettera, come riflessi dolci di acquerello. Tutto deve scintillare, esprimersi senza creare disagi. Altrimenti tutti a casa! Acqua e parole, cosa esiste di più spontaneo, utile, nutriente, naturale? Pochi ritocchi puliti, e la pioggia comincia a scendere, a scorrere con elegante descrizione, a coprire i vezzi della scrittura cattiva, del talento cattivo, del paragrafo cattivo, del periodo cattivo. Non crede che debba complicarsi più di tanto la vita per qualche goccia e per una ciocca di righi in più o in meno. La vita è molto più complicata della descrizione di un piovasco, come ne cadono o ne accadono di milioni al mondo. Così  potrà dedicare a quel punto di pioggia, il minimo necessario, e in quel modo una bella piovuta in qualche pagina si realizzerà con poco sforzo. Roba da ragazzi, una passeggiata purificatrice e distensiva. L'importante è avere i documenti della giusta e sublime pubblicabile scrittura. Rinnovarli ogni due anni con il nostro timbro scolastico editoriale tecnicistico di appurato vidimato consenso. Tutto qui. Non altro, al momento -(per cortesia, per le scarpe c'è il tappetino. Hanno appena lavato a terra).
Forse...potrebbe essere così, ma io credo che:
uno scrittore vero, pioverà nelle sue parole con la sua pioggia. Non aprirà l'ombrello mentre scrive e non sarà ben fedele a formule, regole e raccomandazioni che gli sono state inflitte. Farà sentire l'acqua addosso e dentro, questa sarà la sua unica regola: sgocciolare. L'acqua dentro. Dentro gli occhi, dentro la camicia, gli occhiali, la nuca. E ancora tra le dita delle mani, fino a tutto il braccio e anche la bocca e le parole saranno infuse di acqua e il naso, le orecchie, il mento, le gambe, le ginocchia, le scarpe e le strade, i palazzi, i bar, i ristoranti, gli alberghi, i musei, le montagne, i tombini, le chiese, le palestre, le scuole e anche le giostre appena illuminate, i cartelloni pubblicitari, le insegne dei cinema e quelle del rettorato. L'acqua dentro l'anima, da far tremare l'anima. E dopo aver badato al suono, continuerà con il cambio della luce. Una luce di pioggia non sarà la stessa di una luce di sereno. Una luce di pioggia preparata e non ancora caduta, sarà molto diversa da una luce di pioggia attiva e già presente, già in corso e in pieno contatto con le strade, con i vetri moderni e le vetrate gotiche, con i primi corpi in fuga, con qualche ombrello o con qualche giornale di fortuna. Indicherà gli oggetti di una stanza o i visi di persone che forse parleranno in quella stanza, di come ritornare a casa, o di come ritornerà a casa qualcuno che è lontano, e che come lo scrittore potrebbe non aver portato l'ombrello, non avere auto, cappello, impermeabile. Con quel tipo mutevole di luce che varierà in base alla quantità di acqua, al tempo di inizio dello scroscio, al tipo di distanza dalle finestre e che continuerà a trasformarsi incessantemente, per lo stesso mistero spettrale della durata ignobile e ignota del temporale. E anche le parole, quelle pronunciate durante un piovasco, avranno un certo suono di umido, anche se (s)parleranno di poesia, di cucina, di riviste di moda o di cavalli da corsa. Qualsiasi cosa accadrà, sarà afflitta, rallegrata, ritemprata o addolorata dagli effetti mutevoli della pioggia incessante, che tocca le parole e spugna la carta. Avranno uno sbuffo di vapore, una certa patina che tratterà di quella giornata immersa dell'acqua, senza nominarla con le parole ma con le palpebre, e semplicemente scivolandola nel grigio e bagnandola, divertendola di schizzi tra gli schiaffi sonori del fango. Non  altro, al momento.

lunedì 24 gennaio 2011

"Domani nella battaglia pensa a me", recensito da Rosanna Palmieri


"Se raccontare è indice di generosità come in questo romanzo sembra si lasci intendere, allora Marìas è un generoso. Tutta la storia ruota intorno al concetto di verità, la verità di ciascuno di noi in relazione a ciò che sperimentiamo col nostro agire o non agire, col nostro aprirci agli altri oppure no anche a prescindere dalla nostra stessa consapevolezza, col vivere quotidiano insomma, finisce per non esistere, perché non è mai la stessa. In questo romanzo, a mio avviso più che degno di questo nome, passa il messaggio che tutto ciò che succede, anche se mentre accade sembra essere "neutro", rivisto alla luce di un naturale accadimento (che tendiamo ad occultare, a allontanare perché culturalmente sentito come imbarazzante, umiliante, angoscioso e quant'altro...) quale è la morte, può assumere connotati di colpevolezza, di crudeltà, di ignominia assolutamente impensabili in sua assenza. Sembra che i fatti vengano a illuminarsi di una luce criminosa per effetto della morte, la verità diventa addirittura parziale e definitiva, senza possibilità di essere più smentita o rettificata. Ed ecco che nasce l'esigenza di raccontare, argomentare, giustificare per convincere gli altri e convincerci, a nostra volta, della neutralità dei nostri comportamenti nel momento che venivano compiuti. La morte parcellizza la realtà, il racconto è più completo e assolve perché persuade, convince e porta l'interlocutore dalla parte di chi racconta , apre a possibilità prima ignorate e pensate inesistenti, proprio il contrario del silenzio e della morte stessa. L'autore è bravissimo nel raccontare, molto interessante è l'analisi paricolareggiata che fa della psicologia femminile vista dal punto di vista maschile. Ha un linguaggio tutt'altro che banale ma mai pesante o macchinoso, bellissimi sono i suoi flashback continui e inquietanti al tempo stesso, bello è l'utilizzo di immagini ( la nuca, le scarpe, il cadere in ginocchio, le mani che stringono o fanno altro ) che si sovrappongono e si ripetono nel corso del romanzo anche se in contesti diversi; sembra che i fatti e i personaggi che li mettono in atto siano dei prismi, che a seconda della luce possono rimandarci una faccia o l'altra, o addirittura più facce tutte insieme. Originalissima la trovata di chiamare ad un certo punto il protagonista, che è un negro ( in senso letterario ), un nessuno di un nessuno a sua volta, proprio Javier. Questo la dice lunga sulla sottile ironia e il senso di divertimento che permea la storia ( vita e letteratura come facce di una stessa medaglia, credo ci siano riferimenti fortemente autobiografici a riguardo ) e sulla capacità d'incantare e sedurre fino all'ultima parola del suo autore. Assolutamente da leggere!"
Rosanna Palmieri.


Ho scelto questa recensione di Rosanna Palmieri, perché credo che rispecchi con grande acume i contenuti e i tratti essenziali del romanzo, insieme  alle sue particolari e intricate atmosfere; e possa anche essere di grande utilità sia per chi lo abbia già letto, che per chi abbia la curiosità di farlo e vorrebbe sentirne almeno il profumo.

domenica 23 gennaio 2011

Appunti

Attraversando il corridoio spento con il tè verde che arde di profumo nel buio della Domenica.
Intorno soltanto il silenzio e la galera di una nuova sera, la stanza nera e fredda con un cool iMac che la imbianchi di uva regina.

La catalogazione dell'idea nella scrittura

Pensando. Che quello che mi  capita di scrivere viene sempre catalogato, dalla parte più rigida della mia consapevole attenzione e ombra giudicante, in due grossi gruppi: uno è quello delle cose chiare, vissute o sognate, reali o meno reali, ma comunque ricordate. Presenti e identificabili nella percezione di un loro luogo, di un certo humus, e di una loro regione nello spazio e nel tempo della mia vita di memoria. L'altro gruppo riguarda invece tutte quelle cose- le chiamo cose per una questione di praticità, ma sono comunque parole- che invece non sono  così chiare. Quelle che non credevo di ricordare, di sapere e quindi nemmeno di aver mai vissuto. Quelle che al primo impatto non sembrano e non mi sento mie, ma che in fondo, diverse volte, sono molto più rappresentative rispetto alle prime più gestibili, verificabili. Credo invece che i due gruppi non siano mai i soli e assoluti propulsori di un'immagine o di un'idea. Sono sicuro che non possa nemmeno sussistere una divisione così rigida tra quello che so e che scrivo e tra quello che non so o che credevo di non sapere, e che scrivo ugualmente. Quale sarà l'arpione più veloce, allora; quello che andrà più lontano e seguirà l'arcata naturale del mio braccio in estensione? Quello del calcolo, del controllo, del fissare con un solo occhio aperto la buca del biliardo, o l'altro? O ancora: è possibile che esistano altre regioni,  all'interno del mio linguaggio, che prescindano dalla dicotomia ricordato-dimenticato, ma si spostano nell'alveo del noto-ignoto, e siano espressione di un percorso molto più vasto, dove oltre alla memoria e alle varie sfaccettature di percezione, si intersechi la luce, il suono, il colore, la paura, le sensazioni. Elementi non tangibili e non appartenenti a un vissuto chiaro, non direttamente identificabili in qualcosa di ricordato o di dimenticato, ma che entrano nella mia vita per ingressi totalmente diversi, come esperienze senza fatti o accadimenti precisi, ma come bagliori o rifrazioni sull'ambiente, in apparenza neutrali o insignificanti. Effetti notturni, cambiamenti di climi, di piccole inclinazioni di vento, di umori dei cieli piovosi o serali, di nuvole che oscurano vetrate e scogliere, e che diventano altro e che da quell'altro mi riconducono a qualcosa di mio, che prescinda dall' averne preso parte con un'azione, e che mi riconduca all'esserne stato parte viva e vibrazione anche da persona assente, e senza una volontà precisa e consapevole di presenziarvi o di assentarmici . 
Credo che questo non abbia a che vedere con la chiarezza e con l' oscurità di un linguaggio, ma con la profondità istintiva di una strana indagine, che a volte si estende a tutta un'esistenza e che può giustificare un intento più o meno appassionato o ispirato di scrittura e di qualsiasi altra intenzione espressiva. L'importanza non è quella di scorgerne solo l'approccio funzionale e immediato di un testo, la sua confezione e la sua matematica, ma anche e soprattutto la sua possibile e ineusaribile propensione a quel certo abisso incalcolabile e influente, che di solito suggerisce tratti non esprimibili con le parole e dove lo scrittore dovrà esplorare e combattere affinché si riesca a tracciare almeno quel particolare segno più vicino, o forse quello meno lontano,  verso tutto quello che avverte di non dimenticato e di non ricordato, per tratteggiare quel certo strano vuoto di opacità e splendore trattenuto, senza il quale non credo che avrebbe più senso dire o scrivere una sola parola.

sabato 22 gennaio 2011

L' Horror metafisico e la famiglia

Durante la stesura di un mio racconto di genere, per una rassegna di horror a cui dovrei partecipare la prossima primavera, ho cominciato a sondare vari terreni, sia letterari che cinematografici. Mi sono accostato ad alcuni esempi di horror metafisico, come questo di Zulavski, avendolo ritrovato in giro tra diverse documentazioni critiche interessanti quanto in contrasto tra di loro: Possession, uno degli horror metafisici più disturbanti ed eccessivi degli ultimi decenni, tra quelli che siano stati prodotti e correlati alle dinamiche di relazione. Credo che il "Possession" di Andrzej Zulawski, sia uno dei più eccessivi in assoluto-almeno tra quelli che ho conosciuto e ho approfondito da ragazzo- ma anche tra i meglio destrutturati quanto scomposti nella tecnica sapiente e straripante dell'orchestrazione all'eccesso, sgolata negli ambienti, nelle situazioni, fino a i più piccoli dettagli, e soprattutto nello spazio introspettivo dedicato al personaggio femminile, dove si incentrano i moti fondamentali del racconto, e che credo raccolga le informazioni di disagio più acute e invasive di un personaggio chiave- anche se così oscuro- per uno spettatore più o meno appassionato e predisposto a certe particolari visioni estreme.
Ho visto il film appena uscì nelle sale, e ancora oggi penso a diverse situazioni e atmosfere, che hanno resistito e non si sono affievolite, nonostante il passaggio del tempo. Ho ascoltato diversi pareri e molto contrastanti sul lavoro complesso e provocatorio di Zulawski, considerato da molti un esempio purissimo di horror metafisico e di grand-guignol che rasenta in diversi punti la follia visionaria, e che vedeva una straordinaria Isabelle Adyani come protagonista femminile, a cui andò il Premio César, tra l'altro meritatissimo, affiancata da un altrettanto credibile anche se spettrale Sam Neill.
Questo film è imperniato tutto sulla degenerazione di una relazione di coppia e di tutto il bozzolo familiare, sbalzato di continuo sul crescendo eccessivo degli eventi, procedendo implacabile, senza eslcusione di colpi, in una sua logica perversa quanto lucida di esplorazione accurata e autoptica di certi comportamenti umani interpretati e riletti in una chiave di paradosso e a volte indigesta. A detta di alcuni sarebbe pretestuoso intellettualizzare troppo un tale isterismo visionario senza freni. Io non credo che quella di Zulavski sia una prova pretestuosa e gratuita, basata sul solo sbizzarrimento tecnico ed espressivo. Credo che porti comunque avanti, a suo modo, un certo disegno sul gioco doloroso di certi rapporti, dell'agonia nel non riuscire più a gestirli, pur avendo tentato in tutti i modi di mantenerli stabili. Osservate la tensione di questa sequenza e la preparazione perfetta del suo crescendo, e soprattutto l'immoblità spettrale delle due figure sedute ai tavoli, l'una per ciascun angolo di prospettiva dove è centrata la coppia, poco prima che la macchina si muova e cominci a lavorare in dettaglio nella scena, zoomando sui protagonisti. Un'altra sottilissima raffinatezza: in contemporanea al movimento della macchina, dopo la sua stasi, il tempo che l'attrice prende posto al tavolo, di fianco al marito, (originalissima la posizione angolata dei personaggi in attacco di dialogo e anche la particolare struttura a specchio che si trova alle loro spalle) viene inserito un percettibile sibilo o effetto sonoro, molto stridente e acuto, che durerà giusto per qualche secondo, in perfetto contrappunto con la piccola modifica prospettica della camera in azione, con la sua entrata nel gioco vivo e diretto del dialogo,  con il suo graduale accostarsi e fondersi al pathos già incubato e vibrante nella coppia.

Sono convinto, che riuscire a ottenere certi risultati con maestria ed eleganza stilistica, sia davvero molto difficile, - ma in questo caso credo che Zulawski abbia voluto mostrare e molestare l'agonia di una coppia e le possibilità più estreme di degenerazione e di dolore in una dimensione affettiva e profondamente malata. (Dove finisce l'affetto e dove comincia la malattia?) E anche la Berlino così cupa e claustrofobica, è parte viva di uno scenario esistenziale soffocante e distruttivo, che avvolge i personaggi della storia dall'esterno e dall'interno, dentro una stessa morsa spiralica. Lo spazio affettivo, l'impossibilità di comunicare. L'odio, l'interferenza mostruosa di un terzo all'interno della coppia, il nutrimento, il veleno dell'altro, il sacrificio della donna e  dell'uomo nelle regole di condotta della relazione e del suo relativo pericolo di crollo, sono tutti fattori primari scorporati  attraverso il rombo eclatante dell'immaginifico e dell'isteria visionaria, e ricondotti come in un doppio specchio deforme, alla loro sentenza definitiva, nel processo tuonante e ancora più complesso e macchinoso del reale, che a volte non è mai così lontano come si credeva. Ecco dove un percorso di clausura orrorifica, riesce a chiudere il guanto sul cuore. Nell'accostamento alla verosimiglianza, nell'esasperazione delle situazioni comuni e possibili, ma intraviste nella cavità di un cucchiaio da cucina, appannato di vapore.
La storia è molto oscura e si mantiene così tetra e luttuosa, in tutte le sue parti e nei dettagli lugubri del suo onirico sepolcro, sempre più vorace e ossessivo lungo il suo sviluppo. Il sospetto, poi la certezza di un'infedeltà. Una creatura mostruosa che la donna avrebbe concepito e che la possiede e alla quale sacrifica degli uomini - credo questo aspetto  incarni molti più simboli, come fattore disturbante della relazione, di quanto in apparenza possa mostrare. E ancora una volta il conflitto tra il bene e il male. L'impossibilità di scinderli, di contrapporli, di verificarli senza che l'uno sia avvinghiato all'altro, come in un processo simbiotico e irreversibile. Lo stesso che interroga le dinamiche oscuranti della malattia, in quelle più naturali e a volte insospettabili dell'affettività e della sessualità(Freud). Credo che in questo film il regista polacco abbia espresso al massimo la sua capacità di ricavare dalle spire più oscure del sogno e dell'ossessione fiabesca, una sua rilettura dell'uomo moderno in una visione assolutamente pessimistica e senza un'uscita chiara, non sottraendo nessuno dei protagonisti al tentativo di ripristino dell'irreparabile. Credo che questa pellicola sia tra le più riuscite e funeste nel loro potere disturbante all'eccesso, quanto claustrofobico, proprio perché lavora e riconduce a messaggi e a disturbi molto più reali di quanto gli scenari e le grandi cascate orrorifiche possano far credere. L'interpretazione dell'Adjani, lascia assolutamente senza fiato. Credo che rimanga un grandissimo talento del cinema francese, che in quel film diede una grandissima  e indimenticabile prova di versatilità e di creatività, nell' approccio affascinante e insieme ipnotico del suo singolarissimo ruolo.
Riguardo le tematiche sulla crisi della famiglia, traslate in un'estasi orrorifica e visionaria, non si può non citare il grandissimo "Shining", uno dei capolavori di Stanley Kubrick, film che ritengo assolutamente perfetto, di cui propongo una particolare versione di trailer alternativa.


venerdì 21 gennaio 2011

Nero Premio: I 30 racconti iscritti all'Edizione Autunnale


Questo è l'elenco dei 30 racconti in gara per l'edizione autunnale di Nero Premio, tra cui risulta inserito anche il mio "La pratica del jogging".

Edizione 42 (Autunnale)
Iscrizioni Chiuse

Premiazione prevista entro il 31.03.2011


La Passeggiata della staffa
Stella maris
La rosa bianca
La pratica del jogging
Ascension

Il grande incubo
0.00 La frequenza dei demoni
Il Risveglio
Il mio finale
Billy Wilson

L'Orco
I riflessi dell'anima
Una vertigine
L'uomo sbagliato
Happy together

Il posto rosso
Omicidi Assordanti
Furto nella hall
The gore inside
Viaggio nell'oltretomba

Notte Nera
Cinemofagia
La visitatrice
Il cadavere scalzo
Lucifero

Scappa finché puoi
Le Bestie
La macchia di muffa sul soffitto
I Mostri Vicini
Ombre

Diario di morte
H+
Musica Satanica
Opera Postuma
libro 1

giovedì 20 gennaio 2011

Portami a Teatro. Scadenza al 28 Febbraio 2011

per il miglior testo teatrale
PREMIO: Il testo vincitore sarà messo in scena.
REGOLAMENTO DEL CONCORSO
1) Il concorso è aperto a tutti, senza limiti di età.
2) Il concorso si pone l’obiettivo di:
- rilanciare l’interesse verso le forme della scrittura teatrale italiana;
- incoraggiare la diffusione dei linguaggi del teatro, soprattutto tra le giovani generazioni;
- dare vita ad un laboratorio teatrale durante il quale giovani aspiranti attori metteranno in scena l’opera teatrale selezionata.
3) Il concorso si propone di selezionare la miglior opera teatrale, in lingua italiana, originale e inedita. All’autore viene concessa piena libertà nella scelta del genere teatrale e dei temi da trattare.
4) L’opera dovrà prevedere da 4 a 6 personaggi, di cui almeno due maschili.
5) Il lavoro dovrà essere in italiano, originale e mai messo in scena.
6) Il premio per il primo classificato consiste nella rappresentazione dell’opera a cura dell’Associazione Culturale “Arte e Parte”, nel Cilento.
7) Il premio verrà assegnato solo se l’elaborato selezionato dalla Giuria soddisferà alcuni criteri tipici di un teatro contemporaneo essenziale (es. la possibilità di una messa in scena incentrata sulle capacità attoriali, quindi una scenografia minima e non determinante, un’esiguità o una totale assenza di effetti – ad esempio luci teatrali – un’adattabilità a spazi diversi e non convenzionali…).
Qualora questi criteri non vengano soddisfatti, e in tutti i casi in cui la Giuria non ritenga che l’opera selezionata abbia le caratteristiche per poter essere rappresentata, Arte e Parte si limiterà ad assegnare al miglior testo la sola menzione e un premio simbolico; inoltre, nel caso in cui il testo venga messo in scena, la compagnia che realizzerà lo spettacolo avrà il diritto di apportare tutte le modifiche necessarie all’adattamento (tagli e riduzioni compresi), sia in relazione alle potenzialità dell’organico della compagnia stessa, sia in relazione all’idea registica.
8) Il testo dovrà pervenire entro e non oltre il 28 Febbraio 2011, tramite e-mail, come allegato in formato word e in formato .pdf (nome degli allegati e titolo dell’opera dovranno coincidere), al seguente indirizzo: arteparte@live.it
Il testo dovrà essere accompagnato (in allegato formato word) da:
- copia della scheda di partecipazione correttamente compilata IN TUTTE LE SUE PARTI;
- breve curriculum dell’autore o degli autori (max 15 righe);
- breve presentazione dell’opera a cura dell’autore o degli autori.
Per gli elaborati realizzati da due o più autori, inviare una scheda di partecipazione per ognuno di essi.
E’ possibile richiedere la scheda di partecipazione all’indirizzo arteparte@live.it
9) Una copia dell’elaborato e della scheda di partecipazione dovrà essere inviata in formato cartaceo, entro e non oltre il 28 Febbraio 2011 (farà fede il timbro postale) all’indirizzo:
Associazione Culturale Arte e Parte
Nigro Verena
Via E.Toti, 23 – 84050 – Laureana Cilento (Salerno)
10) Per ogni elaborato è richiesto un contributo per spese di segreteria di euro 5,00 + euro 5,00 per l’acquisto della tessera socio Arte e Parte, da versare nelle modalità che saranno comunicate dalla Segreteria Arte e Parte.
11) Gli elaborati non dovranno superare le 18.000 battute (spazi compresi) distribuite su un numero variabile di facciate A4.
La prima facciata dovrà recare nome e cognome completi dell’autore.
Nel caso in cui un autore riconosca particolarmente attinente al tema un suo elaborato di lunghezza di poco superiore, potrà fare richiesta motivata di accettazione alla segreteria del concorso.
12) I testi teatrali inviati non saranno restituiti.
13) Tutti gli elaborati conformi al presente regolamento e inviati entro il termine previsto saranno valutati da una Giuria di esperti del settore culturale. Il giudizio della Giuria è inappellabile e insindacabile.
14) L’esito della valutazione sarà pubblicato su http://arteparte.blog.tiscali.it e sarà comunicato via e-mail agli autori.
15) La partecipazione al concorso “Portami a Teatro” implica:
- la piena ed integrale accettazione del presente regolamento;
- la concessione in esclusiva, a titolo gratuito, all’Associazione Culturale „Arte e Parte“ del diritto per pubblicazioni e rappresentazioni del testo.
16) Al vincitore sarà richiesta la partecipazione, non obbligatoria, alla rappresentazione dell’opera, che sarà comunicata via e-mail almeno 10 giorni prima della stessa.
17) Questo bando di concorso verrà pubblicizzato attraverso gli organi di stampa, attraverso il sito internet http://arteparte.blog.tiscali.it e comunicati stampa ai principali siti internet e riviste di settore.
18) Tutti gli interessati potranno richiedere una copia del presente bando e del modulo di adesione inviando un’email all’indirizzo arteparte@live.it
19) Il presente bando è in qualsiasi momento passibile di modifiche che verranno pubblicate sul blog http://arteparte.blog.tiscali.it
20) I dati personali dei partecipanti non vincitori non verranno comunicati a terzi. L’associazione culturale Arte e Parte inserirà gli indirizzi e-mail nella propria mailing list per inviare informazioni culturali. Gli interessati potranno richiedere, in qualunque momento, l’immediata cancellazione dei propri dati.
I dati personali del vincitore/dei vincitori verranno invece utilizzati al solo scopo di pubblicazione e di promozione della eventuale rappresentazione teatrale dello scritto.