Da "Sed Juxta te", ancora un suo attacco. Della poesia Siate come gli uccelli del cielo:
Non porta a nulla in poesia
cercare la poesia.
Credo che mi basti per partire, o per fermarmi. Allargo con arbitrio dalla poesia a tutto quello che un impulso di creatività può accendere o spegnere. Il perseguirlo, l'esplorarlo comporta l'abbraccio di uno spazio vuoto. Questa è una condizione. Una condizione dello spirito ma anche di un certo intento di fattività. Oggi si cerca il seme, il responsabile di un certo processo di inventiva. La scrittura artificiosa, miracolosa, industriosa, operosa, peccaminosa, laboriosa, fastosa, pescosa, rovinosa, fantasiosa. Qualsiasi traccia di un passaggio su carta, sarà ricondotto al peccato di un artificio pregresso. Perché si cerca in diversi casi di estrapolare un corpo di reato da un momento assolutamente vuoto. Non so a che cosa allude di preciso Krumm, anche più avanti, quando parla di "un qualche niente che progredisce", ma quello che avverto in quest'attacco, è l'impossibilità di esplicare un miracolo o anche una sconfitta. Esistono anche sconfitte miracolose. Testi che hanno un loro scintillio di breve durata, e che si illudono del calore rappreso dalla prima illusoria fiammata.
Che cosa significa cercare, in un ambito poetico o letterario? Cercare qualcosa, qualcuno? Cercarsi?
Un proprio linguaggio credo che vada recuperato e perduto in un percorso privato e autoctono. Senza perdersi nell'ortodossia di quello che si è acquisito, ma di una radice sottile dimenticata. Una svestizione dal concetto e non un'investitura. Scrivere dentro un'ampolla, con la luce bassa della stanza. Un odore o il dolore di una voce che accenna qualcosa da una finestra. Un giorno di pioggia, un viso lontano, il fumo tra i rami degli alberi bassi e crescono e soffiano così le mie parole e mi diminuiscono. Sono frutto di alcuni momenti già colmi della pochezza dell'istante, nemmeno ancora vissuti, ma già scritti o prescritti alla mia sufficiente ubriacatura silenziosa. Non vorrei mai accontentarmi, ma non vorrei nemmeno dannarmi per qualcosa che non esiste o che mi preesiste. È per questo che non trovo interlocutori. Mi manca una sana discussione su quanto sia importante rimanere sospesi il più possibile nell'attimo creativo e senza risoluzioni o soluzioni immediate. Solversi e non risolversi. Senza il ringhio economico di una strategia, o la tensione risolutrice di un accordo ansioso che aspetta. Scrivo per prendere casa in un luogo che ancora non esiste e che potrebbe essere la sintesi di luoghi mai vissuti ma anche abitati e crollati. Sono certo che l'unico senso sia quello di non dirigersi troppo. La trovo l'unica possibilità per esserci. Quella di perdersi in quello che si sente. A dispetto di quello che qualcuno possa pensare. Credo che non abbia timoni ben chiari da direzionare. Nessuno mi ha mai detto la direzione quale dovrebbe essere. Nessuno mi ha mai detto questo come si fa. Che cos'è un paragrafo? Un incipit? Una tensione narrativa? Un climax? Un personaggio? L'emozione profonda di un personaggio? Nessuno mi ha mai detto come si comincia. Nessuno mi ha mai detto come si finisce. Sono partito nel buio pesto, sono nel buio pesto, e credo di saperne e di capirne ancora di meno. Credo che quella brancolante sia la fase più gioiosa. Gli occhi nel buio. L'attacco del IV Atto nell'Otello di Verdi, ricorda esattamente gli occhi che staccano di colpo nel buio. Ecco, penso a qualcosa del genere.
Eppure chi qualche volta ha dissentito, se avrà letto qualcosa di mio, lo ha fatto dedicando al dissenso il tempo con cui consumo un caffè a colazione, o lo stesso tempo con cui gli occhi si aprono e poi si chiudono nel buio. Quando nella mia vita ho dissentito su qualcosa, non ho mai finito di dubitare e di dilatarmi nell'arcata modulante di una dedizione, anche nel dissenso. Un'arcata infinita e mutevole. Come la vita, più o meno. O come quel mi basso e spiritico dei contrabbassi, nell'incavo notturno dell'Atto IV, che rimane ancora nell'aria, senza morire.
Eppure chi qualche volta ha dissentito, se avrà letto qualcosa di mio, lo ha fatto dedicando al dissenso il tempo con cui consumo un caffè a colazione, o lo stesso tempo con cui gli occhi si aprono e poi si chiudono nel buio. Quando nella mia vita ho dissentito su qualcosa, non ho mai finito di dubitare e di dilatarmi nell'arcata modulante di una dedizione, anche nel dissenso. Un'arcata infinita e mutevole. Come la vita, più o meno. O come quel mi basso e spiritico dei contrabbassi, nell'incavo notturno dell'Atto IV, che rimane ancora nell'aria, senza morire.
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