mercoledì 19 gennaio 2011

Luoghi possibili di scrittura

Le parole non hanno un'idea di dove saranno i loro luoghi, le loro possibili destinazioni. Nemmeno uno scrittore è sicuro, nel momento in cui le comincia a scrivere, di quale sarà il loro possibile luogo. Forse il bello è proprio quello, chissà... A volte nemmeno dove sognerebbe che finissero, se sul comodino di una ballerina francese, di una pattinatrice acrobatica, nel camerino di un artista fallito o di un addestratore di leoni. Di un gelataio, di un primario chirurgo, di un incantatore di serpenti, di un lanciatore di coltelli, di un portiere notturno, di un notaio. Ma conta davvero così tanto un luogo? Può contare davvero più delle stesse parole saperle incalanate in una superficie umana anziché in un'altra? E quanto cambia il modo di scriverle, quando si potrebbe immaginarle in una certa destinazione, anziché in un'altra? Un tipo di scrittura sarà davvero condizionato da un certo sensibile riscontro e quindi da un certo genere predeterminato di luoghi ideali o pregiati dove stanziarlo o blindarlo? Uno scrittore è davvero legato al luogo possibile o esatto dove finiranno un giorno o un solo momento le sue parole?
Quando scrivo cerco sempre di dimenticare se il mio spazio vitale sia quello di un post, di un manoscritto in fase di revisione, di una mail, di una lettera a un amico. Mi interessa l'altrove di quel momento, provvisorio, non delimitato e non definitivo. Di solito questi aspetti del "dove arriveranno le proprie parole", dovrebbero essere alquanto secondari. Lo credo ancora. Dovrebbe prevalere altro, un altro tipo di spazio e di luogo. Un certo altrove. Il grande terrazzo che si accende la sera, di fronte al balcone della stanza in cui scrivo, con i grandi lampioni nascosti nel folto delle piante che toccano il muro e creano uno strano luccichio e un profondo risucchio surreale e incantatore. La scrittura dovrebbe essere imbevuta della sua naturale propensione a svelare un contenuto diverso, una sorta di luminescenza poco ansiosa e sfavillante, ma costantemente sottesa a indicare un altro nuovo luogo. La propensione naturale a comunicare qualcosa senza niente in cambio, e ancora prima che si abbia chiarezza sulla sua probabile destinazione. La scrittura che non conosce la destinazione e che non distingue, non preferisce e non sceglie e non contratta mentre avviene, è quella che non ha nessun luogo e diventa così il luogo ideale e inalterabile dove mostrarsi, smorzarsi, e anche sparire, pur rimanendo nell'aria, come un profumo o qualcosa di mutevole e intenso, come il passaggio di una donna e il coltello affilato della sua scia. E questo in ogni caso e  condizione. Il rapporto privato con il proprio momento non ha una mappatura precisa e rilevabile.
Lo scrittore sarà poi condizionato da un suo luogo mentale di riscontro o desiderio di riscontro e di profumo, che non dovrebbe interferire con l'incanto della sua instancabile fucina segreta. Ci si dovrebbe immaginare già morti, fantasmi o bambini, quando si scrive. Senza grandi possibilità di collocare un pensiero, ma semplicemente di perdervisi. È davvero possibile tutto questo? Si può rimanere davvero così puri e spiritici, e al contempo comunicare?
Eppure sono dell'idea che un certo condizionamento da parte degli agenti esterni, avviene e avverrà sempre. Credo che sia inevitabile, pur sapendo che molto dell'inevitabile in "letteratura" avrà ragioni e modalità diverse per ciascuno scrittore. Il sapere che un mio scritto avrà un riscontro pressocché immediato, anche se non necessariamente autorevole, specialistico o così determinante per il destino del mio testo, comporterà una serie di piccoli varianti o frizioni sottili -e molto spesso automatiche-, che si insinueranno nelle zone più interne e rarefatte del mio lavoro, mutandone la forma più naturale nel processo in atto.
Scrivendo questo post, per esempio, avrò usato, forse senza volerlo, uno slancio di sintesi,  di relativa o tentata immediatezza o scaltrezza per le dinamiche ritmiche che ho assimilato, forse dettate dal fatto che con un solo clic, almeno una persona, anche nel giro di qualche ora o di qualche minuto, potrebbe carpire, scorrendo con lo sguardo, di un attimo di sintesi di un mio pensiero, di una certa idea, giusta o sbagliata che sia. Un attimo potenzialmente insignificante, oscuro, o anche edificante, rasserenante, o disturbante, ma che può attraversare qualcuno in modo veloce e comunque abbastanza certo. Tutto può accadere e la vicinanza dell'accadimento e del riscontro, controllerà il mio modo di pensare e di agire;  di nuotare e di fluire nella mia stessa attenzione, con il mio uso buono o cattivo della mia lingua in quel determinato frangente. Questo le mie parole non lo sanno, ma la loro destinazione modifica diversi aspetti e anche la mia idea sarà molto attenta a non sfigurare nel riflesso, vista la facilità di essere captati e condannati, anche se solo per qualche istante, anziché  sprofondare nella possibilità di un percorso cieco, senza un'uscita definita e decisa, frutto semmai di un processo di gestazione e di revisione più ampio, di quella certa stagionatura rilassata- quella che dedico a tutto il  mio materiale cartaceo, che riservo per destinazioni diverse e che non pubblico in rete.
A questo punto potrebbe affiorare il dubbio che uno scrittore che utilizzi anche la rete, debba mutare l'uso dei suoi strumenti, per un fine temporale e ristretto della fruizione immediata e non necessariamente orientata a un solo tipo di lettore, ma alla ricerca metodica e strategica di uno spazio adeguato e legittimo. Una sorta di territorialismo letterario. O che utilizzi, come avviene in diversi casi, la stessa rete come un mezzo e non più come un fine. Con una relativa aria di distacco e di sufficienza, sapendo che chiunque può accedervi, anche senza un particolare titolo di viaggio. E così facendo, lasciare in giro sprazzi svogliati di appunti, di prove incomplete, approssimative o già masticate da qualcun altro, fatte di qualsiasi cosa possa attirare in qualche modo, a volte come carta moschicida, gli addetti ai lavori. Questo è un aspetto preoccupante. Le parole, almeno intenzionalmente, dovrebbero essere perfezionate ed epurate al massimo, prima di essere mostrate. Dovrebbe esserci lo stesso rispetto che si ha per il proprio collo, anche se soffocato da una camicia diplomatica, quando si è invitati a una serata di gala, non sognandosi minimamente di lasciarlo sporco, pur se celato dal tessuto e dal papillon. Ma d'altro canto, scrivere nel buio o nell'impossibilità di conoscere la destinazione di quello che si sta facendo, senza poter escludere la possibilità che rimanga nel vuoto o nel fondo di un armadio o di un cassetto a vita, potrebbe essere un fattore debilitante e invalidante, per chi prova il desiderio di condividere un suo certo pensiero attraverso la scrittura. Per cui l'esprimere la propria scrittura in determinati spazi, rimane davvero la strada più logica, in alternativa al vuoto. Spesso è anche un sistema per sondare il terreno, e non necessariamente per fungere da esca, e per gridare qualsiasi cosa confermando con ogni mezzo che si esiste e ancora si resiste come autori, pur di fare parte della nobile schiera degli eletti.
C'è anche da dire che qualsiasi scrittore al mondo e di qualsiasi livello, che abbia incontrato la possibilità, anche se non prossima, che il suo scritto potrà occupare di diritto un certo determinato luogo, attraverso quel tipo di attenzione e di fiducia, muterà inevitabilmente la sua condotta operativa e affinerà naturalmente il suo talento, ovunque si trovi. Credo che qualsiasi forma di talento, sia potenziata da un ascolto sensibile e affettuoso, e reputo davvero fortunati quegli scrittori talentuosi che hanno incontrato sulla propria strada un ascolto e un affetto del genere all'interno dell'ascolto. Sensibile, attento e affettuoso. L'affetto è una componenete sinergica e illuminante, al di là dell'esito del riscontro-confronto.  In buona parte dei casi,  si tende a mostrare l'angolo sporco della bocca, dove è finita parte della porzione di cibo preparata, e senza mostrare un minimo interesse per il suo sapore o almeno per il suo odore o colore.
Il  compitare di uno scrittore ascoltato, lo porterà ad affinare e a gestire le sue parole in modo del tutto diverso; e se è intelligente e sensibile, lo farà con più cura e forse con maggiore affetto di come non lo avrebbe fatto da solo, soprattutto se controllato e indirizzato nei punti più rischiosi o nei possibili vacillamenti del suo cammino. Sarà intriso almeno della consapevolezza che le sue parole saranno state comunque riconosciute come voci e non come codici o segnali muti, schizzi incompiuti, miserie che potrebbero rimanere a vita in una traversa chiusa e senza uscita, o indicare addirittura strade aperte al proprio definitivo dirupo.
Non credo che esista una sola strada. Non credo che esista una sola verità nella scrittura. Nel mio caso esiste quel terrazzo che si accende la sera, quello stesso dove ho immaginato il ballo di ferragosto nell'Albergo Ideal . Penso che la scrittura dovrebbe nutrirsi di questa sua patina delicata e cristallina, che rinunci al meccanismo isolato della possibilità strategica della fruizione e del riscontro immediato, e si slanci verso altre soglie. Verso l'incantevole e difficile sogno dell'inutilità indispensabile e murante, verso una dimensione metafisica e fiabesca. Del soffio che non si vede ma si avverte appena, e che in qualche punto della tua vita potrebbe mancarti, macerarti o avvertirsi di nuovo, e fermare per un attimo il passaggio nel tempo o il viso di qualcuno verso la sua direzione fioca ma forse ancora viva e necessaria.
Quali che siano i luoghi certi o impossibili, e le destinazioni più o meno realizzabili di un testo, quello che penso sia importante, è la possibilità che anche per un solo attimo, in qualcuno si accenda qualcosa, e lo riporti allo stesso piccolo bagliore che mi avrà rapito, soffocato o castigato in questo vuoto d'aria, per una breve o lunga inutile parte nella mia vita. 

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