domenica 23 gennaio 2011

La catalogazione dell'idea nella scrittura

Pensando. Che quello che mi  capita di scrivere viene sempre catalogato, dalla parte più rigida della mia consapevole attenzione e ombra giudicante, in due grossi gruppi: uno è quello delle cose chiare, vissute o sognate, reali o meno reali, ma comunque ricordate. Presenti e identificabili nella percezione di un loro luogo, di un certo humus, e di una loro regione nello spazio e nel tempo della mia vita di memoria. L'altro gruppo riguarda invece tutte quelle cose- le chiamo cose per una questione di praticità, ma sono comunque parole- che invece non sono  così chiare. Quelle che non credevo di ricordare, di sapere e quindi nemmeno di aver mai vissuto. Quelle che al primo impatto non sembrano e non mi sento mie, ma che in fondo, diverse volte, sono molto più rappresentative rispetto alle prime più gestibili, verificabili. Credo invece che i due gruppi non siano mai i soli e assoluti propulsori di un'immagine o di un'idea. Sono sicuro che non possa nemmeno sussistere una divisione così rigida tra quello che so e che scrivo e tra quello che non so o che credevo di non sapere, e che scrivo ugualmente. Quale sarà l'arpione più veloce, allora; quello che andrà più lontano e seguirà l'arcata naturale del mio braccio in estensione? Quello del calcolo, del controllo, del fissare con un solo occhio aperto la buca del biliardo, o l'altro? O ancora: è possibile che esistano altre regioni,  all'interno del mio linguaggio, che prescindano dalla dicotomia ricordato-dimenticato, ma si spostano nell'alveo del noto-ignoto, e siano espressione di un percorso molto più vasto, dove oltre alla memoria e alle varie sfaccettature di percezione, si intersechi la luce, il suono, il colore, la paura, le sensazioni. Elementi non tangibili e non appartenenti a un vissuto chiaro, non direttamente identificabili in qualcosa di ricordato o di dimenticato, ma che entrano nella mia vita per ingressi totalmente diversi, come esperienze senza fatti o accadimenti precisi, ma come bagliori o rifrazioni sull'ambiente, in apparenza neutrali o insignificanti. Effetti notturni, cambiamenti di climi, di piccole inclinazioni di vento, di umori dei cieli piovosi o serali, di nuvole che oscurano vetrate e scogliere, e che diventano altro e che da quell'altro mi riconducono a qualcosa di mio, che prescinda dall' averne preso parte con un'azione, e che mi riconduca all'esserne stato parte viva e vibrazione anche da persona assente, e senza una volontà precisa e consapevole di presenziarvi o di assentarmici . 
Credo che questo non abbia a che vedere con la chiarezza e con l' oscurità di un linguaggio, ma con la profondità istintiva di una strana indagine, che a volte si estende a tutta un'esistenza e che può giustificare un intento più o meno appassionato o ispirato di scrittura e di qualsiasi altra intenzione espressiva. L'importanza non è quella di scorgerne solo l'approccio funzionale e immediato di un testo, la sua confezione e la sua matematica, ma anche e soprattutto la sua possibile e ineusaribile propensione a quel certo abisso incalcolabile e influente, che di solito suggerisce tratti non esprimibili con le parole e dove lo scrittore dovrà esplorare e combattere affinché si riesca a tracciare almeno quel particolare segno più vicino, o forse quello meno lontano,  verso tutto quello che avverte di non dimenticato e di non ricordato, per tratteggiare quel certo strano vuoto di opacità e splendore trattenuto, senza il quale non credo che avrebbe più senso dire o scrivere una sola parola.

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