sabato 29 dicembre 2012

E poi il fumo

Rileggo alcuni versi di mio padre, quando è ormai troppo tardi. Lo faccio quasi di nascosto, come se nemmeno loro potessero scorgermi. Di nascosto da loro, da lui e da me stesso. Come farebbe un ladro in una casa, o un topo che affonda in una minestra.
Il rapporto con una scrittura di un consanguineo rimane complesso, uno sciroppo viscoso, fatto di odori acuti, che vanno dalle farmacie dei monaci camaldolesi, a un mattino azzurro della sua acqua di colonia.
In qualche punto anche un filo di tosse. Uno sbadiglio. La luce accesa, dalla sua stanza di scrittura, come adesso dalla mia, contro il vortice della notte, del buio, della dimenticanza.
E poi il fumo. Il fumo di un figlio che ti ama e ti fruga, che forse ti teme, ti pesa, ti condanna.
Quando eravamo a pranzo a Gaeta, nel suggestivo budello di via Indipendenza, mio padre mi diceva che avevo scelto di studiare uno strumento al conservatorio, per non competere con la sua figura. Con le sue ombre sui miei fogli. Con la musica avrei potuto ucciderlo, ma non con le parole. O la musica erano le mie parole, che non potevo ancora dire? 
All'inizio non capivo, ma quello che mi disse sfoderò uno strano pugnale, bagnato di pioggia, di albe, di confidenze murate sulla  misura di un'intimità di espressione, come castigo o come scotto, pena silente che mi spetta, senza dover parlare né tacere, senza dover gridare al lupo o dire niente, di fronte al suo sguardo la nebbia di un valico che mi annotta.
Non abbiamo mai parlato di scrittura, con mio padre. Mai di questo contenitore o trappola e colla per topi per i miei fantasmi, per la mia fragilità tortuosa, per la voglia di un suo abbraccio, di uno schiaffo pieno a quest'ora, da schioccare fino a diventare un tuono e spaventarmi a morte e svegliare di soprassalto il vicinato, da infrangere vetri, incendiare alberi e presepi.
Mai un rigo. Il mio romanzo dei quattordici anni, sembrava un impasto grandguignolesco e intanto lui ne parlava ad altri, ma non a me. Lo seppi da un mio amico che lui parlava di me:
ha detto mia madre che sei bravissimo, ma che dici, mia madre ha parlato con tuo padre, e ha detto che tu sei bravissimo, poi io non capivo che cosa significasse bravissimo, riferito a cosa se a scuola andavo una chiavica, si trattava di quelle mie strane prove oscure e piovose, e poi, in quel giorno a tavola, mi parlava di una mia fuga o di un mio pudore, per mostrare o per svelare le piaghe di questo canto da rapace, o da ultimo veliero della notte, prima del suo naufragio. Che strano, o che brutto assassino!
Una sola parola, a quest'ora, sarebbe come un viaggio. Un treno che canta nella nebbia, e io a scorrere incipit di fiabe, sui finestrini appannati, dove le lettere si allungano sui vetri come lacrime e non mi fanno mai finire.
In questo silenzio ho murato le grandi confidenze, le colpe del figlio, il suo desiderio di non superarlo e insieme di raggiungerlo. Di scrivere come uno che non deve fare tardi, quando a sedici anni lo terrorizzai, tornando alle 02.40  del mattino, senza nemmeno un colpo di telefono - ero con amici, non avevo pensato a chiedere di fermarmi a una cabina per avvertire. Avrebbe cominciato il giro degli ospedali, a chiamarli, con il mio nome e cognome, o delle caserme, quando di colpo mi vedeva arrivare, fischiettando, nel buio.
Ogni parola che arriva, si impregna di questo mio ritardo, sul non avergli chiesto che cosa sarebbe stato giusto fare, con questo dolore enorme che mi divora, quando devo cominciare, continuare e finire. Se tutto questo è normale, se significa vivere o morire di qualcosa.
E chiedergli che cos'è la morte e quanto la scrittura può voler dire morire, a qualcosa che avverti viva e che non sai dire, quando non sai fermarti e non sai incamminarti.
Poi questi pensieri sfumano, diventano più lievi, si appannano, si fanno tiepidi, come il suono di una radio da un auto in fuga. Basta chiudere un libro, distrarsi per poco, guardarsi intorno, e la mia figura ritorna monca e autonoma, come coda di lucertola nel sole, senza il riferimento, la richiesta, l'insistenza.
Basta davvero poco, a volte.
Una sola parola, a quest'ora, sarebbe come un viaggio...e poi il fumo.

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