Miller dispensa un paesaggio sublime nel suo capitolo de L'occhio cosmologico. È con questo suo primo attacco da Max e i fagociti bianchi (Saggi e divagazioni), che lo scrittore spalanca una finestra in una notte assoluta e luminosa, e conceda il freddo di una chiave di volta per ogni palmo che ascolti e che sfidi i secoli del linguaggio. Credo che il suo profilo su Reichel, le sue tele, l'occhio cosmologico e la luna vista da Marte, siano una gettata di vernice celeste e ghiacciata che investe e ammanta un paesaggio invernale, così come lo steccato bianco di un orizzonte letterario nuovo e vibrante. Volevo rallentare e continuare all'infinito, per paura che finisse troppo presto. La lettura a volte è proprio questo. La lettura pura è il desiderio che quello che ti succede non finisca mai; e allora si rallenta, ma senza un tempo e ci si adagia in un non tempo che profumi di infinito e di abissi. Come la vita. Se si leggesse così ogni momento, ogni persona, ogni attimo di contatto: sarebbe tutto da leggere e da scrivere. Tutto più spinoso ma anche più inabissato e profondo.
Ritornavo ancora indietro sugli stessi punti, e cercavo l'ortica, il punto o baratro di non ritorno. Il lume basso e il rigo d'ombra di una balia muta e mai incontrata, una ballata di vedove ubriache, il Sabba delle streghe. Miller mi parla di un deposito sconosciuto e familiare, di materiale onirico ma insieme dinamitardo, che riscalda le pagine e i cuori, come una baita di montagna, e a volte fonde l'occhio come un forno crematorio. Ha il pericolo dell'amianto e del mercurio, e la pace del comignolo che fila in un fumo di lana. Il passaggio della mantide e il fischio di catena di una bicicletta che si allontana di sera nell'involucro mucoso d'un amore al di là dell'amore.
L'emozione del lettore, nella lettura del testo, è spinta dal ritmo e dal rigoglio innamorato di spazi da infrangere. Il ritmo, in certi casi, può essere anche non rigoglioso. Può diventare una questione di equilibri, di tensioni, di calcolo. Una misura codificata e artificiale, ma non spianata. Ma nel caso di questo primo capitolo, il tempo ha la spianata smisurata del vino giovane che deborda da una coppa e macchia un seno di signora con la tenebra del lampone. L'odore della campagna quando è dominata da una volta stellata e palpita, appena prima di un bacio o di un delitto efferato. Senza suono. L'erotismo del lampo e la pace monastica di un plenilunio estivo. L'equilibrio di una forma in divenire. Il ruggito dell'aquila e il sorriso della serpe mutata che luccica. Come direbbe Josè Lezama Lima: pomata di serpente.
E sono soltanto al primo capitolo. Credo di riprenderlo daccapo, o di rallentarlo il più possibile, per immaginare l'effetto di una dimensione lunare così sciolta e strana, quella che Reichel sprigionerebbe dal suo occhio nella volta lattea e spiralica di un altro sogno ispirato: un busto, oppresso da una massa di fogliame verde, e ancora il fango paleozoico; i turbamenti e l'angoisse: la notte assoluta.
L' ignoto indimenticabile. La mia vita.
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