sabato 22 dicembre 2012

L'altra Barbara

Il cielo si fa azzurro, poi bianco e poi grigio, poi rischiara e colora la villa delle suore e i miei antenati che mi guardano e forse mi proteggono dal cattivo tempo.
Tra poco scenderò: amo le mie strade nei tempi morti, anche se in questo periodo sembra tutto uguale, ma intorno alle tre del pomeriggio le persone sono sempre un po' diverse. Sono vicine all'ora dell'attesa. Le ore piccole del mattino e quelle del pomeriggio hanno in comune la minuzia della possibilità. Un minuto di sonno arretrato, il passo è meno preciso, si è meno agili, si ragiona di spazi più ampi, il foglio delle strade non è troppo quadrato, anche nel piccolo mercato c'è chi squarcia il silenzio con una secchiata e ti fa scansare, ma non ce ne sarebbe bisogno. Una precisione investe tutti i gesti di chi abita e vive i primi pomeriggi, come se fossero tutti orologiai, con un tempo infinito davanti, appena un respiro e un pendolo che scandisce quest'ansia immensa che sale e che non finisce mai:
adesso che ritorno al Castello Giusso, all'epoca credo era ancora dei Gesuiti, dove trascorrevo 15 giorni pieni estivi, qualche anno dopo l'apparizione di quella Barbara oscura adulta e isolana, adesso ne compariva un'altra, ragazza, lagunare e luminosa, di una lieve malinconia dublinese, chiara come una giornata di Giugno pieno, aveva un appartamento confinante col mio. 
Lo stesso nome ma in altre tinte e latitudini.
Una sera ci allontanammo, eravamo già diventati molto amici, io sempre fedele ai suoi spostamenti, la seguivo silenzioso, lei giocava, spericolata, come un maschio, quel biondo dei capelli cattivo che le murava il viso in alcuni sforzi, le salite sugli alberi, le belle ginocchia sbucciate, come una fiammata sul rovere, ed ero vittima sacrificale di un incantamento feroce, che mi toglieva aria, fame, sonno. E lei era sempre con me, forte del mio stadio di afflizione, quanto avrei desiderato in quei momenti di tortura, che al suo posto comparisse la Barbara isolana e che mi colmasse di altre paure più generose: adesso dobbiamo mangiare questo bambino, dobbiamo prendere questo bambino e mangiarlo, tutto intero, è vero, signora Elvira, apriamo il forno, lo mettiamo vivo, vieni, vieni più vicino, sarebbe stato molto più semplice sopportare quello spavento pietroso ma più familiare, contro la battaglia con quel viso indomabile, così luminoso e imperturbabile  che mi divorava il cuore della sua bellezza.
Qualche pomeriggio l'altra Barbara veniva a saltare sui divani a casa mia. O anche sul letto. Ma in quella vacanza avevo ben tre nonni in casa. Elvira, la più dolce e rassicurante, silenziosa, nonno Federico, marito di nonna Emma, quella materna, che invece era un colonnello, anche se molto amorevole, ma quando io e Barbara entravamo in casa, io ero così felice che lei accettava di varcare la mia soglia, e la vedevo saltare sul letto, farsi rossa, i capelli mi muovevano il cuore, la vedevo, non la vedevo, i salti di Barbara erano molto atletici, era immersa nello slancio, io saltavo e non saltavo, per guardarla meglio, quando arrivava la nonna materna il gioco finiva, dovevamo scendere, non era da ragazzini per bene fare certe cose, e quando la nonna Emma rimproverava anche Barbara, dicendo che lo avrebbe detto ai suoi genitori, allora io soffrivo e cercavo poi di rassicurarla, dicendo che la nonna Emma diceva sempre così, ma poi era buona e non avrebbe mai detto niente a nessuno.
Ero innamorato.
Una sera Barbara mi disse di  raggiungere un vialetto in salita, che era di fronte ai nostri piccoli appartamenti, e dove erano parcheggiate le auto. Vi erano degli alberi, un lampione, delle siepi e il silenzio delle torri più alte.
Ci mettemmo uno di fronte all'altro: io ero poggiato a una macchina, lei a un'altra. Ci separava un metro, qualcosina in più, quando lei cominciò con l'alfabeto muto, che anche io avevo imparato da poco, ero molto bravo con l'alfabeto muto, così come ero molto bravo col pronunciare le parole al contrario, mi divertivo con mia madre, a chi le capovolgeva prima le parole, senza sbagliarsi e senza inceppare con la lingua, quello muto, dico l'alfabeto, era molto simpatico perché vi era l'interazione della gestualità, chi voleva capire doveva guardarti tutto e non solo sentire. 
Con le parole dette si poteva parlare anche al buio, da un telefono, di spalle, ma con l'alfabeto muto c'erano gli occhi sulle dita, e poi sulla faccia, e anche negli occhi, quando finivo e volevo verificare se il mio codice era stato svelato in un senso compiuto di una frase o anche di una sola parola, e intanto Barbara cominciava, il golfino rosso, i capelli biondi che scendevano, era concentrata e cominciò a scandire un tu, lo avevo indovinato, era facile, poi si fermava, mi guardava, io le dicevo di aver capito, lei mi chiedeva con gli occhi che cosa, io dicevo tu, ma lo dicevo con la voce, non con l'alfabeto muto, ma con un filo di voce, strozzata, e allora quella continuava e sfrecciava la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo essere: sei,   e allora glielo ripetevo, tu sei...solo allora si fermò, io non avevo il coraggio di guardare che cosa avesse scritto con il suo mutismo figurato. 
Aguzzammo un attimo le orecchie, nello stesso momento, al vociare degli adulti, che erano oltre le siepi. Dentro di me cominciavo a tremare, adesso l'altra Barbara era pronta per completare la sequenza, e io che mi sentivo morire quando cominciò con una A, bella spaziosa, con il taglio della mano dentro la bocca aperta, il pollice e l'indice squarciati, e poi subito, senza fermarsi, proseguiva con l'indice, il medio e l'anulare capovolti per la emme, poi il cerchio dell'o.k. che era una O,  il pollice sotto gli incisivi centrali per la erre, e per finire il pollice e l'indice accanto all'occhio destro per la E. Tu...sei...amore
Ero raggelato, che diavolo era quest'amore, quello che aveva ucciso la sorella di nonna? O la nostalgia di scappare a casa o di essere divorato dalla Barbara oscura e isolana? Barbara ormai aveva finito di scandire; ora si aspettava qualcosa dal mio repertorio, ma io avevo bisogno di capire quello che intendeva, ma senza alfabeto muto, con le labiali, uno strano suono che chiedeva se quello che avevo sentito era quello che io davvero intendevo e conoscevo, certo non potevo dirle suicidio di una zia, e nemmeno altre stravaganze, potevo solo dire il suo nome, i suoi capelli che si sbattevano durante le sue arrampicate, il sangue dalle ginocchia: allora è amore, le dicevo, e lei diceva sì, che io ero amore. Io ero amore, tornavo a casa, senza che noi due avessimo fatto altro che parlare con pochissime lettere, nemmeno un dettato di prima elementare, con una nuova identità. 
In seguito l'altra Barbara mi avrebbe specificato, credo dopo qualche sera, che lei aveva anche altri amori, naturalmente, tra i quali c'era la nonna, e non so quanti gatti, per cui io ero il suo nono amore. Ero il nono nella classifica. Io le chiesi anche se c'era la possibilità di poterla scalare quella classifica e recuperare in qualche modo, almeno sui gatti, ma lei non mi dava mai certezze, si allontanava, si metteva a correre e a giocare con altri ragazzini. Ero al nono posto, mentre lei, l'altra Barbara, nonostante amassi da morire mia nonna Elvira viva, la sua sorella sfortunata, i miei genitori, lo zio che scriveva le canzoni lontane, rimaneva la prima, in assoluto.

Dopo qualche sera Barbara mi dimenticò. Ero già sfumato. Dal mio appartamento c'era anche la vista sul prato. Non trovando mai il coraggio di parlarle e di chiedere che cosa le fosse successo, mi limitavo a scorgerla dalle imposte socchiuse, il suo golfino rosso che correva e si sfrenava, nella serata che non finiva mai.
Accanto a me c'era nonna Elvira, che non parlava ma sentiva battere il mio piccolo cuore nei suoi ricordi tragici e lontani. E con quella visione violenta e radiosa di un acchiapparello al Castello Giusso, finiva la nostra piccola vacanza e anche il ritratto leggero ma non meno doloroso dell'altra Barbara e del mio non essere più...amore.

2 commenti:

Eletta Senso ha detto...

Chissà se Barbara non fosse scomparsa in uno dei suoi salti, slanciata nello spazio dell'assenza, chissà se tu ora avresti confezionato questo supremo dono per lei...
"L'innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre"- Barthes.
Gli amori senza fine sono quelli non compiuti.
Eletta

luigi ha detto...

in effetti è vero, le migliori esperienze, quelle che possono condensarsi e distillarsi meglio, nel tempo, sono quelle che marcano dei tratti, che incidono e comportano delle dinamiche, dei disagi, dei barcollamenti.
Ma un po' tutti gli avvenimenti del mio passato hanno questo approccio dell'incanto e incantamento, dell'haunting. Anche legato a luoghi, a situazioni, a epoche, o a cose solo raccontate e sapute e risapute, o accennate, che a loro volta possono abitare altri in modo diverso.

saluti
l.s.