domenica 5 maggio 2013

"Senza luce": estratto di romanzo


A sedici anni ero una ragazza che credevo esistenti le cose che vedevo e inesistenti quelle invisibili. Era la prospettiva più semplice e immediata per poter classificare e verificare la dimensione di un proprio mondo sensibile e affettivo, ma anche la sola possibilità di poter formulare delle richieste, di un certo tipo, o di cominciare una strada verso qualcosa o qualcuno, di solito l'unica possibilità nel sentirsi vivi, anche a rischio di grandi dolori e devastazioni.
Nel ricordo di quel periodo credo di avere incontrato, e per la prima volta, la varietà infinita delle possibilità di dolore in un'esistenza. Anche se inflitte a un altro, sia nel ricordarle che nel conoscerle, nello scoprirle e quindi nel memorizzarle al momento, erano inflitte allo stesso tempo anche a me, come un pezzo di vetro nei capelli, con cui una mano guantata cercava di pettinarmi a sangue, nel solo ricordare ritornando il riflesso del vetro, una sera di Natale, con pochi parenti, ero pallida e febbricitante, quell'anno avevo preso l'influenza ma anche una cotta per un tipo di secondo liceo, ero al classico, vestita tutta in rosso in quel cenone, con il fumo degli ultimi decimi, verso la guarigione, quando suonano al telefono:
fu il primo segnale di vita. Nella confusione del cenone, il tavolo e le pietanze erano immerse dalle luci azzurre, il grande albero illuminato, ma anche i lampadari e i due grandi lumi, l'uno in un angolo opposto della stanza, rassicuravano all'ambiente una luce più estrema e folgorante di quella del giorno, con quelle luci e con i tintinii delle posate, con quell'incanto augurale di bontà, fuori si gelava, scorrevano vini importanti nei bicchieri, anche nel mio, lo zio Oreste ci teneva che assaggiassi il Serpico, bottiglia costosa, di un rosso funesto e balsamico e io accettavo, senza chiedere indicazioni sulle medicine che stavo ancora prendendo, ma a tavola, in quel momento, le voci si parlavano senza ascoltarsi, come in tutte le cene di gioia, mai in quelle di lavoro, dove le voci sono incantate del loro stesso suono e parlano solo per il tempo del loro brillio, per mischiarsi alle luci della festa e a quella delle strade, dei brividi di freddo o dei primi doni ricevuti da ubriachi e da storditi. Mia madre in quel momento svaniva, risucchiata da quel trillo di telefono, come da un corso d'acqua vorticoso. Non notavo più il suo viso spensierato di padrona di casa che si affannava per accontentare tutti, stai seduta, ti aiuto io, così sua cognata mia zia, ma mia madre non poteva permettere, doveva essere la prima, la più affaticata e forse anche la più bella, solo con quella fatica la sua bellezza avrebbe brillato di più nel contrasto, gli uomini in quel momento avevano la bocca piena io desideravo tanto chiamare Martina per gli auguri, la mia compagna di classe nonché migliore amica, era un'abitudine quella di scambiarci gli auguri poco prima, questo anche nell'ultimo giorno dell'anno, riuscendo a sottrarci per qualche istante agli obblighi di famiglia e ritornare al sogno, dove due amiche sedicenni cominciano un percorso. Io non so per quale motivo mi alzai da tavola, dopo che il telefono aveva squillato e dopo che mia madre era scomparsa, da inosservata, dalla stanza del cenone al buio della sua stanza chiusa. Chi mangiava e chi versava e chi conversava, era così immerso da non avere il tempo per nulla. Per nessuna telefonata e per nessuna scomparsa improvvisa. Chi compariva dopo essere scomparso, non era scomparso, e quindi nemmeno comparso: rimaneva invisibile. Così come chi scompariva da un suo stadio di comparsa non notata, altrettanto inesistente e invisibile della sparizione. Così anche io, quando mi alzavo da tavola, lasciavo il tavolo affollato e felice,  e mi addentravo nel blu di un corridoio buio e lunghissimo, fino a un'ultima stanza, dove pareva intravedersi l'ombra di una figura. Un piccolo lume rosato illuminava una sua scarpa, le sue calze scure e il suo vestito appena sollevato, mentre parlava a telefono da distesa. Sapeva e sentiva di poter parlare indisturbata, senza testimoni vivi. Il tavolo era l'unico luogo reale e attrattore di vita, come alveare di api. La regina povera era in un momento di pausa e di abbandono, adesso appena il suo filo di voce, della stessa intensità dell'abatjour del comodino dove aveva il telefono. Dondolava quella gamba e quella scarpa alta ed elegante, mentre ascoltava e ogni tanto diceva:
...certo, siamo ancora al secondo...voglio dire ai secondi...perché?...non è vero...lo sai che non è vero...avanti...le noci...le noci californiane...quelle che fanno bene?...ma sì, lo so...quelle di Sorrento, dici...non so di certo non hanno quel prezzo...saranno diverse...lo penso non sono così sicura...
Silenzio, per diversi secondi. Non avevo mai sentito la voce di mia madre parlare in quel modo. Era così diversa da quella che conoscevo, così distante, ma anche più ragazza, in certi momenti più sicura nel suo essere o sentirsi ragazza, almeno nella voce; in altri con un filo di tensione o di leggero sadismo in quello che diceva, in quello che rispondeva a chi le stava parlando, da chissà quale luogo ignoto e lontano, a circa due ore dalla mezzanotte di un Natale.
l.s.

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