lunedì 13 maggio 2013

Deduzioni sull'abduzione ne "La compagna di classe" di Luigi Salerno.




A volte chiudere un racconto, è come chiudere un caso. Un caso con un frammento acceso della propria vita; a volte una fiammata di un candelabro da spezzare con un solo palmo; una colpa, verso la propria idea del linguaggio, che a distanza di attimi sembra tradita o sorpassata. Per ogni storia esistono passaggi privati e complessi, ponti levatoi di memoria, e ancora resoconti o rimorsi.
"La compagna di classe", racconto finalista alla rassegna letteraria organizzata qualche anno fa dalla case editrice Oxp con la facoltà universitaria L'Orientale di Napoli, nasce nell'ignoto e nell'assenza e vi rimane, quasi come in una costante, e mantenendo una linea severa che mi porta ancora a volerne capire di più, e arrivare quanto più giù possibile. 
Forse non era proprio voluto dall'inizio, come spesso accade e mi accade, ma lo strano racconto trattiene e contiene insieme, dentro di sé, una piccola spina, quella della sua strana logica che ricorda quella della "reductio ad absurdum", e forse "mimando" alla lontana, la dinamica del meccansimo dell' abduzione, nel quale ho provato a immaginarmi, soprattutto a lavoro ultimato e anche oltre. Un nuovo approccio rispetto alle dinamiche del fatto avvenuto o possibile, della sua interpretazione, del suo eventuale risultato. Questo  in particolar modo nello sviluppo della fase centrale e finale, sia in relazione al dubbio sull'identità della donna – la donna folle e la donna madre; la donna del poker, la donna del dirupo di ortiche; donna viva e donna morta – ma ancora più forte sull'identità oscura dell'autista-autista specchio, autista-altro; autista-killer?
Questi strani fattori paralleli, o dati, premono e svincolano il ragionamento da fattori certi, così come la storia oscilla tra luoghi noti e più familiari, fino a sprazzi di irrealtà, di sospensioni, di sfioramenti, contro la certezza, almeno in uno dei due casi, del risultato assoluto, del vero. 
Così come non sia un dato certo che la donna introdottasi nell'auto e nel garage, appartenga alla vita passata del protagonista, e che sia venuta a conoscenza del suo nome per una voce misteriosa da un balcone, allo stesso modo lo stesso personaggio principale potrebbe aver guidato la sua auto, di cui non si dice il colore, e dimenticato di essere parte viva di quella precisa confessione, anch'essa non dimostrabile nell'immediato e forse nemmeno oltre, così come l'identità oscura della donna che narra e confessa qualcosa di eventuale, ma non per questo meno terrificante e spiazzante per chi non sa o non ricorda. 
L'apertura della forma abduttiva del ragionamento, aprirebbe così a molte più possibilità diverse, nonostante l'azzardo e la troppa istintività del mio accostamento. Ma l'idea, anche se azzardata, non mi dispiace. L'abduzione in fondo opera su più piani, sfoggia un tipo diverso di interrogazione sul reale, complica, smarrisce, ma a volte paradossalmente rischiara verso un nuovo territorio sensibile, che in questo caso mi è sembrato adatto a questo insolito poligono di tiro dove mi sono collocato a lanciare.
Ma anche questa rimane un'ipotesi, nulla di più. Un'abduzione, in piena regola, e nello stesso labirinto fertile del sillogismo. Me la concedo, in sintonia con il suo confuso paradosso. Quello dell'altro, per esempio. Di qualsiasi probabile altro, della fiducia che può ispirare o infrangere, di quello che sa e di quello che dimentica. Della sua mitezza e della sua minaccia, a volte intercambiabili e preziose, allo stesso modo. 
Ecco il link con il racconto: La compagna di classe.
l.s.

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