venerdì 19 novembre 2010

La gioia nelle parole (Lo giuro!)

Non credo ad altro se non alla gioia di celebrare qualsiasi spasmo espressivo che mi riguardi. D'altra parte non mi è mai capitato di incontrare da lettore e da fruitore di testi, qualsiasi spasmo espressivo che non sia stato intriso di una certa parte di gioia pura, come un effetto contagioso di una nevicata notturna che ti spalanca. In ogni caso: credo ancora che l'efficacia di uno stato d'animo naturale e impetuoso, che si fiondi negli altri con la frustata di una tale freschezza gioiosa, completi e semplifichi di molto le ragioni, a volte contorte o complesse, che si cercano in una scelta di scrittura, o di musica, pittura, cinema, fotografia, e avanti all'infinito. Una condivisione di una febbre, una febbre di vita soprattutto. Quanto possa risuonare squisitamente letterario tutto questo potrebbe interessarmi, ma fino a un certo punto. Credo molto nel palleggio saggio e infinito del to play, americano, con cui si affronta uno strumento musicale, un libro, un pallone da basket. Solo nel gioco potrai trovare il compromesso della libertà e del rigore necessari ad aprirti verso un'altra sensibilità. I bambini quando giocano, sono concentrati come un chirurgo che sta ricamando una coronaria o sfiorando un'aorta. Hanno la profonda attenzione assorta del seme della loro esistenza le regole dettate dalla natura del loro prezioso istinto, non ancora contaminata da ciò che è letterario e ciò che è anti letterario. Per fortuna.
Sono ancora contro; sono contro diverse cose, scrivo per combatterle, ma sorridendoci. Senza rabbia ma con cazzimma- consentitemelo- quando incontro il grigiore il termine napoletano ha la potenza di afferrare qualsiasi lingua impacciata con le pinze e metterla in riga, contro la nebbia del cattivo sapere ingurgitato.
Sono contro, per esempio, il grigiore delle ostentazioni sulle verità universali e assolute, su come si debba  procedere dentro un testo. Uno scrittore che gioca è uno che invece fa molto sul serio. Credo che solo con la gioia pura e febbricitante di scrivere, si possa davvero soffrire  un ricordo, raccontare un incubo, un amplesso, una giornata passata al parco, al bowling o in un negozio di animali. E penso che se lo start non sia fiammato al massimo, tutto l'apparato si spegnerà, e finirà a barcollare e a sformarsi lungo un vitottolo come la macchina di Topolino e Minnie, piena di colori ma senza benzina...
Ho paura di quello che può accadere quando si cercano le istruzioni, gli attestati e le consolazioni, perché la propria creatività gioiosa, sia ridotta allo schema prefissato e svilente di fruizione, di fruibilità di un testo.
Si cerca la conferma del talento. Molti lo implorano, vogliono sapere la verità sul loro talento, che assurdità! Il talento... se c'è si sente subito, quando senti le croste e il tanfo quando non ti lavi, se hai un dente malato o hai preso una brutta storta. Chi vuoi che ti dica quanto fa male il tuo dente? Non permetterei a nessuno di mettersi in bocca qualcosa che riguardi un'idea del mio talento, così come mi infastidirebbe il fatto che mettesse una mano sporca nel mio piatto quando mangio. Sul talento ne ho sentite molte. troppe. Tutte parole inutili. È una parte inconfondibile. Lo scrittore di talento non decide di scrivere, non decide di avere talento, non decide, ma si prende cura del suo desiderio e lascia l'odore di forno e di zolfo dalle sue parole, anche nel rinculo di un rutto o di uno strafalcione, c'è la frustata inconfondibile di un lampo nel buio. Nessuno quando vede un lampo, chiede quale saetta abbia più colore, velocità e talento di sfavillio dell'altro. Si tace e si aspetta il tuono. Credo che sia così semplice. Quando non compare il lampo allora non c'è nulla, puoi frugarmi nelle tasche, perquisrmi, dimostrarmi di aver visto qualcosa, pagare i tuoi testimoni, ma poi dovresti mimare i tuoni e l'odore della pioggia e tutto il resto, non avrebbe senso. Il talento deve bastare a sé stesso e fare i suoi casini, senza che debba esserci un riconoscimento. Il vero e autentico talento va dimenticato e mai affrontato.  È l'unico colpevole della maledizione dello scrivere. È molte volte il suo cattivo odore di bruciato o di putrefatto, è uno dei motivi principali di rifiuto, bisogna rassegnarsi. Ma il punto non è questo, è che nei miei contro, elenco tutti i luoghi comuni, che sento di elencare. A sbafo:
Andando oltre: il fatto di non poter  mai peccare in un paragrafo, di purificarsi a tutti i costi, perché oggi va di moda così  e perché i lettori devono essere imboccati e anche se sto usando un cucchiaio da brodo, perché nel mio lavoro c'è del brodo - e non ho scelta: devo usare il cucchiaio o in alternativa il piatto dovrà andare dritto alla bocca- ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che avrei dovuto usare una forchetta d'argento, per imboccarli. Perché è giusto così. Quella è la sua verità e non va discussa.
Ancora: oggi la punteggiatura deve avere più peso. Troppo lunghi i periodi. Troppo lunghi i paragrafi. Crei troppe attese, pretese, contese tra le sue parole. Non pensi a chi ti possa leggere. Potresti dare l'impressione di scrivere per te. No, lo stile è involuto. Attento, questo passaggio non è chiaro. Questa roba è assolutamente impubblicabile, devi fartene una ragione, ma no,  la prego, non lo trova lezioso, manierista, oscuro, ombroso, peccaminoso, focoso? Non mi dica, se ne faccia una ragione. Devo farmene un sogno, e allora andremo d'accordo. Non una ragione. Non mi farò mai una ragione di nulla fino a quando non vedrò con i miei occhi quanto tempo avrai dedicato a ogni paragrafo, se hai staccato il  telefono, come ho fatto io  quando l'ho scritto. Se sei rimasto fermo, senza fare altro che spulciarlo e sprofondargli dentro, al di là se ti trovi con il muso dentro balle di fieno o dentro ammassi di concime fresco. Se hai cercato di dimenticare quello che tu credi che sia un prodotto letterario, a favore dell'ebollizione della gioia pura di scrittura non pensata, che sto cercando di farti almeno odorare, se metti da parte la mascherina, togli i guanti di lattice e mi porgi un attimo una mano. Come farebbe un amico. Potresti averne provata abbastanza a sfamarti di parole per mesi, o forse non esserti accostato nemmeno all'ombra della mia. Ma per accostarsi alla gioia pura dello scrivere, devi essere in ascolto. Un testo, anche il  peggior testo, ha bisogno, per la stessa valutazione onesta, dello stesso orecchio e delle stesse vibrisse sensibili e innamorate di uno scrittore vero. Più uno scrittore con un buon orecchio, ascolta quello che scrive e affina alla luce le sue vibrisse, e più sarà difficile adeguarsi a quel tipo di ascolto, e relegarlo,  allontanarlo tra gli anarchici, i surreali, inespressivi, pericolosi contaminati dalla scabbia dello schizzo di acqua troppo fredda. Forse sarò stato felice, e non infelice, come si usa dire in certi casi. Ho scoperto la mia gioia dove è incarnato il dolore sconfinato del mio scrivere. Ed è l'unica cosa che seguo e che dà il senso a quello che faccio o che tento di fare, ma senza inganno.
Il treno rallenta, c'è una piccola stazione, riesco a scorgere i tavolini all'aperto, con le tovaglie a grossi quadri bianchi e rossi, che svolazzano. Scenderò e mangerò qualcosa di buono qui, adesso dobbiamo lasciarci, il nostro piccolo tragitto sta per finire... un'ultima cosa: l'ascolto di una sola frase, al di là della sua forma, è quello che giustifica il nostro rapporto profondo con le cose che viviamo, alle quali ci accostiamo. L'attenzione, prima di tratte conclusioni. L'ascolto di una nuova verità, e non di quella immaginata automatica e propria. Il gusto e il disgusto per quello che si legge, non deve far dimenticare il fiore che sta alla base di qualsiasi balzo espressivo di chi si espone. Non vorrei essere frainteso, lo sarò, ma ho incontrato poche persone davvero felici di scrivere e così innamorate della loro gioia da proteggerla, ma molto attente ai buoni e cattivi criteri di classificazione della forma, dello stile, del periodare. Quando leggo sono del tutto immerso in quello che sto leggendo. Non esiste altro. E avverto la vita attraverso tutto quello che scorre attraverso,  e solo allora potrò capire di cosa si tratta e di quanto mi sia ritornata vicina da potermi dare fuoco
È stata una sforbiciata molto lunga e irregolare, di quelle da sartoria. L'ho scritta con la gioia anarchica di chi crede ancora nelle parole e nell'amore per la propria lingua. In un getto di lava, come dentro un treno già perduto... Ma con gioia, dalla prima all'ultima parola. Lo giuro!
l.s.

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