sabato 20 novembre 2010

Diabolici dialoghi a sonagli

Mi piace solo accennare alla questione del dialogo. Diabolico ostacolo, uno dei punti scoperti per indovinare la frattura della scrittura cattiva, che di solito può espandersi in una virulenza nefasta per le sorti di un testo, se non frenato e domato per tempo. A volte le righe dei dialoghi le immagino come lunghi serpenti a sonagli, appena sbucati dalla cesta, affamati di luce e di spazio. L'incantatore-scrittore, dovrebbe gestirli, incantarli e in molti casi farli rientrare nella cesta, altrimenti potrebbe correre il rischio di rimanere soffocato tra le loro spire o come la sonnambula che scende le scale con il candelabro tra le mani e corre il rischio che le si infiammino i capelli sciolti per una fatale inclinazione del polso.
Non vorrei bruciarmi tutte le cose che avverto dentro e che sento di dire. In effetti anche il dialogo è una questione di orecchio e di sensibilità di ascolto. Anche il dialogo è un candelabro acceso e sfavillante, con piccole fiamme preziose e utili all'assetto di una buona storia, ma anche nemiche dei suoi capelli (troppe personificazioni, chissà dove finirò!). Esprimerò così una mia idea sia da lettore forte che da scrittore.
Credo che sia fondamentale riconoscere un dialogo che funzioni e che arricchisca di luce e di colori la propria prosa, da un dialogo che invece si attorciglia su sé stesso, diventando un traino per i tempi, la logica e per tutti quei delicatissimi equilibri che uno scrittore dovrebbe essere in grado di possedere e di armonizzare, per non perdersi nelle sabbie mobili prima di arrivare a metà della sua  fatica.
In effetti quello che può diventare rischioso, è di rendere i dialoghi - e di conseguenza l'approccio diretto dei personaggi che si incrociano e che interagiscono con la propria voce- troppo letterari, per quanto poco letteraria e stilizzata sia la voce di persone che parlano per comunicarsi qualcosa e non per pontificare sul mondo e sui segreti dell'esistenza. Anche nelle forme di letteratura più sperimentali o surreali, non si deve perdere di vista il tacco della scarpa che batte il tempo e mantiene in piedi la baracca. 
Non trovo soltanto nella forma il problema, ma penso che il personaggio debba necessariamente distanziarsi dal punto di vista dello scrivente- tranne nei casi in cui un pdv di prima persona è inserito in un dialogo, ma lì si aprirebbero altre questioni, da trattare semmai a parte. In effetti si dovrebbe lasciare, in base al contesto e alle caratterizzazioni degli attori, una certa naturalezza, un certo fluire imperfetto. Come accennavo qualche post fa, riguardo alla figura dell'anacoluto, che parte proprio dalle tensioni e dalle apparenti disarmonie del linguaggio reale e comune, un buon dialogo dovrebbe essere abbastanza sporco, sospeso, a volte anche contraddittorio e dissonante con l'ortodossia solita di un testo considerato corretto, e senza incarnare troppo l'immagine del compito da riportare in bella. Il dialogo si fa cattivo quando sconfina in quello che non gli compete, anche se pulito e molto educato nel prospetto della buona scrittura, quello scolastico, intendo. Anche il personaggio più prolisso e logorroico, dovrebbe obbedire a criteri fondamentali di economia e di praticità della comunicazione, e cercare di gravitare intorno a un certo centro, non uscire fiuori dal magnetismo necessario alla sua storia, che in quel momento è la sua vita, e non l'idea astratta di quello che possano rappresentare per lui la sua storia e quindi la sua vita. Un dialogo troppo letterario, o poetico, manierista e incipriato, rischierà di allontanare, sia dalla storia che dalla credibilità di un personaggio.
Un breve esempio su qualche stoccata che ho dato ai dialoghi di un testo, che ho attualmente in revisione. Giusto per divertirci insieme:
1° Bozza: "Non ti capisco, adesso che cosa vuoi dire, allora, che pur sapendo di essere incapace, dovrei continuare a tormentarvi con questa ossessione? A me sembra tutto così assurdo...".
" È che io un'altra scadenza me la darei. Per esempio, perché domani non mi accompagni ai corsi...".
2° Bozza: "Non capisco che  cosa vuoi dire, allora?"
"Allora  cosa? Prenditi un'altra scadenza, ecco".
In effetti in questo piccolo esempio, ho eliminato in tronco tutte quelle informazioni superflue che non aiutavano il lettore a sgusciare i fatti narrati, ma riempivano solo la bocca dei personaggi. L'importante è avere in pugno l'obiettivo e l'effetto psicologico che deve assolutamente imbrattare di vita il lettore e renderlo partecipe ai fatti, quanto più possibile. Dilungando troppo le parole, si perde a volte l'espressione più interessante, in questo caso di spazientimento e di incomprensione tra i due dialoganti, trasformandoli in alcuni casi estremi, in personaggi esagerati, o in piccoli filosofi da strapazzo, che se la suonano e se la cantano da soli.
Nel racconto "La compagna di classe", congegnato tutto su di un ritmo molto serrato, ho davvero eliminato all'osso i dialoghi, talvolta incarnandoli in una forma ibrida di narrazione indiretta e insieme diretta, come in questo caso: "Prima di avviarsi sopra, mi chiedono chi fosse quella  persona che non avevano mai visto, io dico una compagna di classe, perché non so che dire [...] intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega, quella sera non si era affacciata, ci siamo solo parlati al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo".
Buon sabatoa tutti.
l.s.

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