mercoledì 17 novembre 2010

È stato un buon lavoro?

Quanto si è davvero convinti di quello che si è appena concluso? Esisterà una zona in qualche parte più o meno profonda in cui una voce bassa, da un viso mascherato mi suggerirà qualcosa, semmai con una sigaretta tra le labbra, in tono svogliato: "Non è il massimo, avresti potuto evitarle quelle incidentali, spezzano il braccio alla storia; il periodare va reso più fluido, pesa troppo, colpa della punteggiatura; non si capisce mai bene dove vuoi arrivare, ma nemmeno da dove parti; ma perché i tuoi personaggi sono sempre magri; è probabile che abbia fatto un brutto incubo prima di cominciare questa storia; a volte sembrano versi; e intanto il fumo dalla sigaretta avvolge le pareti della stanza, il mio sentire, l'ascolto di quella voce come un filo di radio nella notte, che ogni tanto smette, dandomi appena il tempo di ragionare su quanto ci sia di vero e di me in quello che ho appena ascoltato. Eppure sembrava un buon lavoro. È un buon lavoro? Quanto è importante credervi dall'inizio o aspettare una conferma perché si plachi il sottofondo fumogeno e notturno sugli esiti delle mie ultime impalpabili creature? 
A volte accadono cose imprevedibili. Alcuni testi molto forti, li amo in modo particolare, sin dalle prime fasi della loro costruzione, quando non c'è ancora l'impianto ma ho già in mente la grana e la pasta del loro futuro, allora so che avranno già una loro strada ben definita, perché sono loro a spianarmela, pare che siano loro gli scrittori e io le loro parole; o come in un corredo genetico particolarmente felice, colgo d'incanto i filamenti, la fisionomia, il potenziale, anche da fasi frammentarie, come in una mappatura che mi si dilata più chiara e mi traduce i suoi codici, senza che debba sforzarmi più di tanto. Una storia già scritta chissà quando, in un sogno o forse una storia che mi ha scelto, per qualche motivo oscuro. Avverto così come un segno, una freccia che mi fa credere nel testo ancora prima che veda una luce di completamento e ancora prima che qualcuno mi dia la conferma del suo valore. In quel caso quella conferma non sarà fondamentale, perché il primo giudice o nemico, è quello che dentro di me ha appena finito di fumare, adesso in maniche di camicia rilegge, compiaciuto, senza obiezioni, pronto per una pennichella o una pescata sul lago. 
Eppure non è sempre così. A volte i pareri, le emozioni e le sensazioni, sono mutevoli, e le parole che ho scritto cambiano a seconda della luce del giorno che scorre sulla pagina quando le leggo, in base all'esito dei miei affari non letterari, delle relazioni umane, della facilità con cui ho parcheggiato o della fila alla cassa che ho trovato in pizzeria. È in quel caso che non so se è stato un buon lavoro, non perché abbia lavorato in modo peggiore o perché sia stato distratto, ma perché la natura e la direzione di quel testo è partita in modo del tutto diverso, e ha quindi bisogno di intaccare il muscolo della lettura per ritrovare una propria identità, come una lunga siringa. A quel punto un giudizio buono aprirà una certa strada, uno cattivo ne aprirà ancora un'altra diversa, e perché no, forse altrettanto interessante. I testi che rimangono sospesi dentro di me, quelli dove frulla sempre un giudizio sommesso e un fumatore sospettoso e mascherato, sono fasi lunari, non sono sempre ormeggi, e a volte, al di là di quello che sarà il loro destino, rivelano la mia maturità o la mia trasformazione e in diversi casi hanno bisogno di maggiore cura rispetto a un testo che amo di più, forse perché mi trascina, per la forza naturale di un suo talento intrinseco e autonomo.
Per questo alla domanda: È stato un buon lavoro?, risponderò di sì. In ogni caso.
È stato comunque e in ogni caso un buon lavoro, se l'ho amato e l' ho vissuto con una buona dose di incoscienza ma anche di meticolosa e vorace attenzione.
l.s.

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