Mattinata calda. Il ritorno a casa mi incunea in una friggitrice, dove il fiato dalle narici schizza come l' olio.
Preparare la revisione di un testo, con la finestra aperta, quanto meno pianificarla. Stamattina, sul presto, ho abbozzato qualche linea di bic, ancora a letto, sui fogli stampati ieri sera. La revisione risente dei climi, delle ore di luce e di buio, delle ultime voci che hai sentito prima di spengere, delle prime che ti sono arrivate prima di accendere. Di quello che si sta leggendo al momento o che si è appena concluso. Dei visi che si sono incrociati. Del cibo appena masticato. Della luna. Del sole. Delle maree e della quantità di potassio ingerito.
Sono felice di potere rimandare anche di poche ore un primo esordio di bisturi sopra un certo o incerto testo. La visione autoptica dello scrittore revisore, mi costringerà alla mascherina verde. Vorrei operare, invece, a viso nudo e scoperto, con la tele accesa e un sugo di lepre che sobbalza sulla fiamma. In una casa deserta, dove suona appena un disco di Bach e dal cortile saltano sulla corda sul gioco del mondo e fischiano una cantilena gitana. O meglio: intervenire in un ambiente inesplorato e poco familiare. Con un brusio di radio straniera e senza anestesia; in un piatto fondo e fumante uno stinco di porco. Ogni intervento correttivo è una porta che si apre, a volte sulle scale di un palazzo a dieci piani ancora schiumanti di sapone, o sull'orlo eroso di un abisso senza fondo:
ma adesso mi arrendo:
proseguo, nel silenzio, il mio inutile fermento lupesco. Dovrei ululare a queste illustri sciocchezze, come a un quarto sfilzante di luna, l'inutilità di ogni movente troppo pensato e congegnato.
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