domenica 17 luglio 2011

L'inenarrabile e il narrabile

L'inenarrabile. Mi ha sempre colpito il suono e l'impossibilità della parola, riletta nella spuma confortante di un contesto narrativo, in contrapposizione al suo contrario, dove sembrano prendere vita i primi incipit e gli embrioni dei racconti o dei romanzi ancora sporchi di feci e di sangue. 
Che incanto, parlare di scrittura e di narrazioni, senza scrivere nulla. Il solo sognare di farlo, anche se non lo si farà mai come lo si vorrebbe. Nessuno scrittore scrive le cose che avrebbe voluto, ma deve sottostare al graffio di una variante violenta e silente, che spesso si nasconde e diventa carne viva del suo stesso pensiero in vibrazione, insinuandosi con lentezza nell'apparenza di quello che gli appartiene. Per me è così. La scrittura è pregna di delusione e di dolore, perché è e sarà sempre più lontana dalla sensazione o dall'intento primo di stesura che mi (so)spingeva e mi soffiava negli occhi e nelle orecchie. Mi racconta della certezza di un fallimento esistenziale e antropologico, della mia vita di fronte a quello che sento e che credo di sentire, e di quello che vedo o che immagino, e che invece credo di vedere e di immaginare. Un grande numero di magia da baraccone, organizzato alle mie spalle, e quando mi volto rimane l'ombra di un filo di fumo che appanna il mio minareto. 
Ma nulla più potrà ricondurmi all'effetto profondo o illusorio del primo movente. Soltanto l'ampiezza e la profondità del percorso in itinere, potrà avvicinare di qualche passo e avvinghiare lo scritto reale al non e al mai scritto, ma ancora vivo ed esistente. Spero che mi seguiate ancora. Sono convinto di sì, almeno quelli che avranno provato lo stesso effetto di vedovanza dal cospetto primo di un certo impianto di  narrazione o di poetica, più o meno preparato e  formatosi dentro, come l'ombra rosata di un terzo polmone.
Credo che l'inenarrabile, il non scritto, immaginato vivo in quello che si scrive in inconsapevole alternativa, sia l'unica frontiera ancora sana dove spulciare un qualsiasi intento narrativo e creativo, da qualsiasi prospettiva di realtà lo si imposti e che sia sgombro dal mero esercizio ginnico e fiacco dell'imitazione. Non mi piace etichettare subito il piano di azione o di relazione con il reale, quando comincio a prendere contatti con una storia, con il suo livello, i suoi contorni ancora sfumati, il suo vago profumo. L'esplorazione e il fattore prossimale o distale con un certo livello di realtà, con il suo cuore e le sue pulsazioni vere, a volte è oscuro come un finale, una svolta improvvisa e inattesa, la comparsa di un personaggio chiave o di un evento più o meno determinante all'economia confusa del tutto o di quel certo assonnato insieme in eterna trasformazione e formazione. Il confine sarà sempre piuttosto labile. Rimane il gusto del fare e dello sfare, che darà luce e magnetismo a quello che potrebbe avvenire alla mia vita dopo essermi liberato da una torva sequenza di eventi-immagini, che scalpita nel buio ma che non dirà mai di una sua forma precisa e prevista, e che decide di volerne fino all'ultimo ancora un' altra, diversa, durante il capriccio della stesura prima e ultima, a dispetto della mia fatica. 
Forse è proprio nell'elemento inenarrabile, quello dove risiederanno le linee guida e d'ombra del costrutto migliore, dove si dovrebbe cercare la propria voce, quanto meno l'eco e l'arabesco di risonanza, e mai un assetto definitivo e compiuto che si trovi con un certo unico risultato. Appena un filo di fumo, che sporchi verso sera quel mio invisibile minareto, che già non esisterà più.

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