Una costellazione di stelle marine. Una rotta isterica e oceanica. Cercando la flotta smarrita sott' acqua. I polpastrelli plagati dal gelo dell'immersione. Come quando gli occhi sprofondano in una distanza celeste, immaginando cosa si ascolti a quelle frequenze. Bisognerebbe fissare i polpastrelli. Se fossero viola e se a certe altezze o profondità potrebbe irrompere un sibilo spettrale, la voce al telefono di un trapassato o di un maniaco, che cerca pace nelle ombre di una notte di Natale. La solitudine di un uomo e a volte di certe esistenze è così tragicamente oceanica. Quanto lo strapiombo di una costellazione aperta. Septem Triones.
L'agguato romantico delle rotte celesti, e l'odore delle mutandine sporche di una soubrette, che crolla di sonno mentre la riporti a casa, a leggere Tex Willer e Mister No, di nascosto.
Elisabetta ha rimesso l'anima, quando le ho preso l'acquario, tutto illuminato di Discus. E di altri pesciolini elettrici, dai colori sgargianti e indimenticabili. Insondabili, come il suo sguardo maturo e cavo, davanti ai gusci delle noci e alla schiuma del mare notturno, mentre fissavo la canna da surfcasting e affondavo nella sabbia umida il supporto metallico. La notte galoppava marmo nelle nari. Oriella suonava l'arpa all'aperto, in un convitto di anziani mezzi sordi, ma ispirati dalla visione dell'arpeggio infinito. Quando sgrana l'arpeggio, Oriella ha le braccia che si fanno di giada. Prima di attaccare ha preso la scossa. Da quella sera ha un'ascella tutta di tinta indaco e ha perso la grazia del pelo. Da quel solo umido incavo le è spuntato un occhio di vetro. Guarda la malinconia delle giacche usate da uomo, con i gomiti lisi. Il suo pubblico. Una caramella sputata in un piatto. Dopo la sua performance attaccavano i mondiali. C'era una semifinale importante. Portammo via l'arpa, a spalle, mentre i televisori caricavano bagliori ed Elisabetta inciampava, ridendo a dirotto. La sua gamba tragica nella minigonna, la faceva atterrare sulla porzione di fettuccine appena sputata da un cocker spaniel.
Eravamo così tragici e felici. Parcheggiammo l'arpa in un garage, e tifammo da incompetenti, esultando per il goal della squadra avversaria. Durante il cross si aprivano bitter, a tempo con le alzate svogliate di terra. Con occhi torvi e minacciosi, ce la demmo a gambe.
A notte fonda tornammo a piedi, affamati e con l'odore del fumo addosso. Elisabetta e Oriella camminavano a braccetto. Una vecchia suora ci invitava a cena, aveva appena preparato. Mangiammo come lupi. Ritornammo a casa felici. Sconosciuti e sconsacrati in una nuova clausura.
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