mercoledì 20 luglio 2011

Il cattivo tempo (stralci quotidiani):

Da quella sera, da quella sera della comparsa dell'occhio di vetro al centro dell'ascella della farmarpista, sono avvenuti diversi cambiamenti o mutazioni. Elisabetta continua a passare la cera, come se tutte le sere vi fossero ospiti. Avrebbe ordinato una gamba nuova, di osso di megattera, per cercare alternative al rovere, che si usa per i vini rossi e da meditazione. La farmarpista è stata due ore al telefono, con un cugino biologo e anche mistico. Avrebbe una profonda nostalgia di radersi, nell'incavo nudo dove adesso potrebbe schioccare un nuovo sguardo verde. Si sarebbe prescritta qualcosa per il bruciore notturno. Elisabetta ha cercato di calmarla, con le canzoni notturne della tele francese. Tra l'altro la farmarpista si è scoperta sonnambula. La convivenza diventa difficile. Si dovrebbe intervenire, dicevo con Elisabetta, in un momento di pace. Durante le inconsapevoli alzate notturne, vaga per il nuovo appartamento come un fantasma, avvolta nelle lenzuola ancora annodate alle sue coscine tese, e poi comincia a suonare il suo strumento con un tocco languido e appena celtico. L'ultima volta che ci svegliò con l'arpeggio infinito, nel cuore della notte, mi precipitai, credendo che Elisabetta avesse lasciato la radio o la tele accesa. Invece era un Debussy, invecchiato e trafitto dalla nebbia. Oriella suonava come un'ossessa. Gli occhi aperti, anche quello che le era spuntato dall'ascella emetteva una luce lattiginosa e modificava le fioriture impressioniste degli accordi pizzicati. Era immersa in un lago di orina, che avrebbe devastato il parquet, più del cane alano. Non potevamo avvicinarci, nemmeno Elisabetta, che adesso aveva preso a fare l'analista privata per Oriella, e mi diceva che quei segnali avrebbero avuto uno sfondo sessuale represso o qualcosa del genere, altrimenti la colpa era dello stinco di porco alla birra rossa, che aveva inghiottito la sera prima. In ogni caso, diceva Elisabetta, dobbiamo parlare con qualcuno della sua famiglia. E io le ripetevo che Elisabetta era ancora più sola di noi. Ma come più sola, faceva Elisabetta. I colleghi della farmacia, e il cugino biologo e gli amici del conservatorio e dell'orchestra sinfonica o del convitto di anziani? Che cosa mi dici? Se ti dicessi che non esiste nessuno di tutti questi? Se te lo dicessi, tu mi crederesti?
Vuoi dire, mi fa Elisabetta, tremando con la gamba di legno, che svetta dal pantoloncino rosso del pigiama, vuoi dire che al mondo ha soltanto noi due? Credo di sì, le rispondo, senza guardarla.
Ritornando a letto, mi accorgo che dal cuscino di Elisabetta spunta una pagina giallastra di un giornaletto sporco, comprato già usato. Lo estraggo, senza farmi vedere. Al suo retro c'è una poesia di Octavio Paz, scritta di fretta e in corsivo con una penna verde. 
Elisabetta ritornerà a dormire dopo qualche arpeggio. Oriella la farmarpista rimase a suonare per altri minuti. Il mattino dopo facemmo colazione insieme, come al solito. Come se non fosse accaduto nulla. Dopo un'ora vennero a ritirare l'arpa. L'aveva impegnata. Mi chiese di farle da garante per un prestito, perché non aveva più un soldo bucato. Elisabetta mi guardò  e mi calciò lo stinco con la punta legnosa dell'arto. Solo una firma, disse Oriella, mentre da fuori scoppiava un temporale, e i facchini furono costretti a rinviare l'imballaggio e il trasporto. Oriella suonò per tutti un ultimo brano, quando eravamo tutti a pezzi e commossi. Cercai da qualche parte il mio libretto di assegni, ma Elisabetta mi seguiva e mi diceva di lasciarla morire. Che dovevo pensare prima di tutto alla sua gamba. La pioggia aumentava. Uno dei due facchini ebbe un attacco di tosse nervosa. Una volta calmatosi, ci disse che era per un suo nipotino, di pochi anni, massacrato a calci da suo fratello per essere caduto dalla bici.
E adesso?, gli chiedeva Elisabetta. Ma il tipo non rispose, continuò a tossire, e il suo collega, grasso e sudato, ci intimava di tacere, con un dito lungo e sudato sul naso.
Elisabetta preparò un tropical. Per tutti. Un uccello silvestre scatarrava nella pioggia, come se sfiumasse dalle viscere di un bosco.

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