Il culto della forma. Lo spasmo del romanzare, riempie la bocca di un addetto ai lavori di scrivania. Se arrivasse una telefonata, nel momento dell'incipit o di un attacco importante, la parte in causa non avrebbe remore a dire: "per favore, sto romanzando. Non è il momento", che è come dire ho la pasta sul fuoco o un mastino napoletano che sta ingoiando un calzino.
L'impegno conclamato, la propria occupazione, che allontana dagli altri, cercando in tutti i modi di raggiungere quella sublime consistenza in grado di avvicinare ai propri passi il proprio mondo, senza muovere un dito e una natica dalla propria sedia.
Scrivere all'aperto, da spettinati e con il viso sporco. Una scrittura senza orologi, telefoni, conteggi di battute e caricatori per cellulari. L'essere contattati e contattare, qualsiasi forma umana disponibile, che giustifichi la piena esistenza di quel momento scabroso della creazione.
Provo immensa vergogna della mia parte che sbava e che scrive. Ho vergogna della carogna che spunta da una ginestra. Cerco la campagna sprofondata e notturna, quella non ancora descritta, circoscritta e pensata. Ancora in fibrillazione per il solo suo indefinibile esistere. E da lì che vorrei partire. Un palco con poche lampadine, e senza sedie per il pubblico. La tendina rossa dove si intravede l'asciugamano di una toilette e la torcia così malinconica della maschera che la chiude. L'applauso del cassiere, che si alza il bavero lercio e commosso, dopo il mio ultimo numero, proiettato giusto la sera di una vigilia di Natale, quando sono tutti scintillanti e raccolti nelle loro case accese. Credo di aver scelto un giorno o una sera sbagliata per esibire la mia voce e la mia vita.
Voglio che si parli di altro. Della mia maschera subacquea Mares, con cui ho improvvisato una sorta di gara marittima di salti nel cerchio azzurro di un salvagente, tipo leoni da circo. Un cerchio di fuoco azzurro. Una minestra colma di formiche vive e un cinema all'aperto, con il riverbero vecchio tipo del sonoro e l'odore del mare. Non provo vergogna per quello che condivido, ma ho pudore della possibilità di sentirmi felice quando qualcuno arranca e non riesce a rilassarsi. Vedo e incontro persone molto arrese e tese, da spezzarsi in quattro, da un momento all'altro. Come fionde grasse di ciottoli. Non penso di aver comunicato abbastanza da vivo, per riuscire a farlo come uno stronzaccio delirante nella perfezione condizionata della sua stanza di lavoro, dove si sente imponente e flessibile. Dove finirebbe la mia vita se la limitassi al mio linguaggio confuso, fraintendibile e contuso che adoro e non odoro? Quanto ho ascoltato della vita e dei pensieri degli altri, per permettermi il lusso di chiedere una certa attenzione, di alzare il dito e chiedere il silenzio per la mia fobica voce che stona da una tromba tenebrosa delle scale, aprendo sempre le forbici sulla ciocca di una persona sbagliata.
Le mie parole non avranno mai la forza di un calice tremante di vino, di una telefonata improvvisa che annuncia la bellezza di una visita inattesa. Di una parlata nel buio, fino all'alba. Per fortuna esistono nemici alla mia strana chimerica attrazione romanzesca: rocambolante e maldestra. Quelli che resisteranno al tempo, ai ricordi, alle distrazioni. Le cose non pensate e non annunciate, destinate a una preferenziale incantevole corsia di sorpasso sul resto. Alle gare di sapienza. Alla considerazione che il sapere sia una forma sontuosa di avere, di possesso, con cui competere. Sono sempre più convinto di essere a mio completo disagio in questa tavolata di maestri e di maestranze. Il fantasma della noia prende corpo e sostanza, per ogni piccolo passo di danza. Non so se frappormi tra il sontuoso e il tortuoso obitorio linguistico della ribalta. Ma credo che troppo spesso mi stia esercitando sui rottami, addobbando tende rosa di seta su torrioni e calcinacci nevosi. Ma stasera provo una grande nausea per tutto. La scarpa della ballerina ha appena preso una merda, ma è ancora in piedi e ci gira intorno, come un satellite ubriaco e fuori tempo che danza senza profumi e pudori in un avanzo di lucore da cantina.
Mi sbuccio una pesca:, altrimenti son dolori.
Con osservanza,
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