Una civetta distrusse gli uccelli di un gabbione, lasciato all'aperto, in una notte d'estate, per riempire di carne viva e piumata il suo nido già folto di lamenti e becchi squarciati.
Non scrivo uccise o massacrò, ma distrusse. Ancora più feroce il verbo distrusse, perché non specificato sull'elemento creaturale e pulsante, ma lasciato sfumare su qualsiasi forma strutturale o materiale visibile infranto e polverizzato da un attacco superiore ed estremo.
Il più grande incubo è che, anche se la civetta predatrice e insonorizzata avrà ascoltato a distanza i battiti vivi di ogni piccolo uccello, immerso nel sonno con la testa sotto l'ala, appena prima dell'assalto, l'effetto visivo e raccapricciante del mattino dopo, racconterà di una distruzione classica, naturale e violenta, come quella di un'inondazione o di un tornado sulle ultime palme, tra piume bianche e sangue neroviolaceo, battaglia, pugna, massacro tellurico, infarto. Città, fortezze, castelli, roccaforti e palazzotti imperiali, frantumati contro il senso e dissenso oscuro della natura.
Tutto vero e successo, qualche estate fa.
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