sabato 18 dicembre 2010

Interludio

Il processo di certa scrittura, è una consegna a un certo mistero. Immagino la toccata barocca di un interludio. Un suono antico in una stanza moderna. In un mio recente racconto ho immaginato la stanza dove si svolge una festa, con il soffitto soffocato di rosso, e la musica barocca nel sottofondo. Forse un segnale della ricerca di un rifugio. A volte mi riconsegno nelle strettoie di luoghi evitati. Come quando una notte di pochi anni fa, mi persi con la macchina e imbucai una strada nera di campagna, perché l'altra era interrotta, o forse la credevo così. Nel buio, è l'unico luogo al mondo dove risiede la mia voce, la chiave che svela un ricordo, la schiusa. Un luogo neutro. Quello di certa scrittura è un luogo interludio, rianimato da contrasti, soffusioni, scherzi ottici di lampade a olio su tavoli di piccoli ristoranti a specchiarsi come barche d'epoca sull'acqua notturna. Ma dove non c'è ancora silenzio e non c'è ancora suono.
Non esistono i confini estremi, non cerco e mai trovo la traccia determinata e ben netta di una sola strada, di una sola emozione necessariamente già provata o immaginata percorsa. Il processo è molto più oscuro e alchemico, e la mia disciplina, l'unica che riesco e che mi accorgo di perseguire, è quella di non oppormi al supplizio, alla direzione mutante del fuoco e di favorirvi un certo indisciplinato abbandono, quanto più sobrio e ispirato possibile.
Non credo che quello che pensavo di sapere e di conoscere, è esattamente quello che ho trascritto. Le parole scritte a volte hanno una loro conoscenza e una loro testimonianza motoria di vita, a volte ignota a me stesso. Le informazioni le ricevo dall'atto. Ancora prima che l'atto di scrittura si dispieghi e mi dipinga e mi lasci o tradisca il suo codice, io rinuncio alla mia assimilazione di dati, agli appunti del mio dossier, per cedergli completamente il timone, rischiando l'annegamento da naufragio. Con questa consapevolezza, mi accorgo di divorarmi da solo in un margine oscuro ma fluente, e a volte terribilmente spaventoso per i picchi e i dislivelli improvvisi di profondità. Una dinamica di tendini, radici, di intrecci boschivi, di piccoli frammenti ed elementi primari vomitati dalla piena di un fiume montano mai tracciato su nessuna carta, che dalla memoria si polverizzano e si liquefano e dopo la loro evaporazione, fin dalla prima parola incominciano l'evocazione di un profumo. La sensazione di qualcosa che è nata lontana, e che va interpretata nella sua stessa distanza e nel trascorso temporale, da quella stessa lontananza alla mia vita. A volte solo immaginata. Il rosso del mio soffitto, quello del mio racconto, forse era un blu indiano, e potrebbe diventare o rievocare un blu. La testimonianza di un colore, non è legata al processo definito di un solo pensiero, ma a tutto quello che è contenuto e che gravita al di sotto e al di là dei suoi possibili confini reali. Da tutto il non rosso e il non specificabile, scelgo l'ultima possibilità, la più lontana e remota per arrivare più vicino. Le immagini che nascono dalle parole, sono figlie di immagini madri da cui quelle stesse parole sono scaturite, e che avranno ancora mille variazioni, oscillazioni e destini, per quanti saranno i destini sensibili che le incrocieranno o che le eviteranno, passando oltre.
Anche in questo non vi sarà silenzio né suono.  È un terzo o altro luogo, una sorta di interludio sospeso, che scopro e che celebro nello stesso tempo tragico nel quale lo subisco,  lo commuovo e lo vivo.
l.s.

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