mercoledì 15 dicembre 2010

Considerazioni di un illetterato.

Continua la mia insofferenza ai dirigismi, al proliferare di verità assolute che cercano di frugare nel meccanismo creativo e tirare le proprie somme. Non avviene sempre, ma di solito è abbastanza forte la predisposizione di imporre come punto di vista un proprio punto di vista, che rimane in ogni caso un aspetto relativo, e che invece, ed a torto, molto spesso viene articolato e inteso come assoluto. Questo sia da parte di chi lo esprime, che da parte di chi lo riceve, innescando in molti casi un corto circuito di interazioni e reazioni che compromettono la limpidezza e la pace necessaria per continuare un certo discorso di confronto e di relazione su materie letterarie e affini.
Dunque sono insofferente alle ricette, ai metodi e a quello che si dice e si profetizza sull'adesione indispensabile a certi sistemi di condotta nell'arco di un momento o di una fase creativa. Sono convinto che la vita si impara vivendola. A volte mi sembra che si suggeriscono delle visioni alternative, soprattutto nel ramo così inflazionato e ambito della scrittura, dove dall'esperienza di massima solitudine con il proprio testo, si cercano stratagemmi, sistemi, assiomi, corollari. Si ricerca una certa matematica nel testo perfetto, per aderire a una linea di scrittori fruibili e ben riusciti. Riusciti nell'uso della punteggiatura, nella gestione del fraseggio, del ritmo. Come se alcuni passaggi obbligati o procedure, consentano o lascino accedere di diritto, a certe possibilità di comunicazione, che prescindano da quella che sia la tua voce, la tua tenerezza, la tua follia o il tuo dolore dello scrivere.
Ciascuno dice la sua verità relativa, la promuove arbitrariamente assoluta e tira le sue somme esatte, diverse dalle somme tirate dall'altro, che anche se diverse saranno considerate e credute esatte, solo perché seguiranno un certo sistema, forse una certa moda o teorema di scrittura. È terribile, ma credo che a volte si scrive così come si sceglie di indossare un abito del pomeriggio o della sera,  un capello antico dalle grandi tese, una scarpina da ballo, un paio di orecchini, un trucco pesante, uno stivale bianco e azzurro mozzafiato, una profonda scollatura alla schiena, uno spezzato dal grigio sfumato, una cravatta rossa. Si scrive in quel certo modo da ottenere un ingresso impeccabile con una certa impeccabile e indispensabile uniforme, collaudata dalla tradizione, dalle buone maniere e consuetudini, e così ogni frase è un piccolo rintocco ai gemelli della camicia diplomatica, alla pettinatura, alla stringa slacciata, al filo di cotone rosso caduto misteriosamente sulla spalla intatta di uno smoking. L'ingresso in un certo tipo di linguaggio, richiama l'ingresso nella sala da ballo di un grand hotel, dove oltre all'invito devi avere una certa cravatta, un certo portamento, un certo lusso, una certa sobria espressione di fastidio o di fascinoso disgusto per le figure del sesso opposto che incroci o che fingi di evitare e poi guardare meglio dal lato posteriore- è sempre consigliato il disgusto e il disprezzo verso l'altro per cercare di attrarlo prima che lo attragga qualche probabile rivale. Devi esserci, ma in una certa classica originalità stabilita, nell'ortodossia di quella certa cadenza frigia, piccarda o d'inganno, ma che risolva sempre sul grado grasso e stabile di uno stesso accordo. Altrimenti sarà davvero difficile prendere parte al ballo. Senza l'invito lo stesso. Attenzione alle camicie, alle spezie dei profumi, al tipo di pettinatura. Al travestimento ragionato del proprio dialetto di origine, ai difetti di pronuncia, agli eccessivi sentimentalismi, al tono di voce, alla perfetta scansione e inflessione delle parole straniere, al rigore del passo, al tipo di inclinazione del polso da suggerire al bicchiere nell'attimo caldo di un brindisi di compleanno verso un amore già lontano; e alla fermezza orientale dello sguardo, che non sia troppo invasivo e nemmeno troppo distratto. Tutto dovrà scorrere e zampillare in questo tacito accordo sincronizzato tra le parti. Invitati o festeggiati, che si ingnorano e non si conoscono, si scambieranno baci, complimenti, piccole carezze di addio o di congedo, per dedicarsi al prossimo ospite di turno, col suo impeccabile bagaglio di stile, di destrezza, di limpidezza nel passo, nella dizione, nell'accostare le labbra al lungo guanto che raggiunge il gomito dolce di un braccio ben carnoso, ancora innevato di talco e della neve, sfiorata quando la donna si è affacciata a puntare la luna che bacia le case, o per provare a sentirsi diversa, almeno per un secondo prima che gli altri entreranno e la confonderanno di false e di pregiate attenzioni. Ma poi ritornare subito in sé, cercando di nascondere il suo passo primitivo e malinconicamente ballerino, senza rischiare, e ricominciare daccapo: le danze, le moine, i saluti, l'assaggio svogliato di un aperitivo, lo scarto di un regalo doppione, il saluto alle amiche, alle compagne di classe, ai parenti più anziani venuti da lontano, un colpo di sonno mozzato insieme al suo sbadiglio, un desiderio di essere altrove e di cambiare musica o forse anche vita.
Ecco, adesso è tutto. A questo insieme di cose, preferisco di gran lunga il mio silenzio.
Grazie...
l.s.

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