martedì 28 dicembre 2010

Sulle regole del comunicare

La comunicazione a volte è una scelta, a volte capita. Non credo che capiti come uno strappo al muscolo o come una storta alla caviglia, ma è un battello a più motori, che solca e dirompe o si blocca nel bel mezzo di un canale. Un mostro azzurrastro a più braccia, tutte motrici, a volte distruttrici, in altre inceppate. Una ruota paronamica in una notte torva di stelle e di liceali muti. È molto facile sognare di comunicare il proprio sogno. Un'idea del comunicabile, del fattore più emozionabile e non solo fruibile di un'idea, di un certo impulso. Un afflato lirico, un rutto di Pepsi a tavola,  un istante prima di schioccare un ultimo o un primo bacio. Il suono, il proprio suono, immaginato come un veliero, nelle braccia aperte di un lettore amico o sconosciuto, o severo mietitore di grandi e minacciose sentenze- molto diffuso questo meccanismo dispensatorio di verità stilistiche assolute o divinatorie (vedi alcuni piccoli e rampanti giovani editori).
Quando a volte si comunica tutto quello che non si voleva dire, o che si è detto per sbaglio, in una piccola incisiva, in uno sbadiglio, nel gesto distratto di chi è altrove. Come se quello che si è detto, fosse stata la voce di un altro, venuta a intrecciarsi per caso a quello che intendevo o che sognavo di dire. Quante parole diverse, che esistono e sussistono nella stessa parola. Così quante frasi, quanti paragrafi. Quanti significati per quell'accento, o quella virgola in più o in meno. Quella sospensione. Eppure il mio codice non sembrava così oscuro. Sono partito di mattino presto, con il volto riposato, ancora fresco di un sonno profondo. Con la finestra aperta al giardino, e ho cominciato così: "Una casa bianca, poco lontana dalla riva di un lago. Non c'è ancora nessuno. Soltanto un albero di pero e un ombrello aperto. Poco vento.". Niente di più semplice, chiaro, condivisibile, attuabile. Eppure in questo luogo esiste un non luogo parallelo e l'intercapedine di un non ascolto. Quello che può accadere a questa piccola distanza, tra l'abitazione, il lago, l'albero e l'ombrello, ha possibilità di una o più dimensioni impenetrabili, trasversali  e insospettabili, per quanti siano gli alberi, gli ombrelli, le case e i laghi che qualcuno nella sua vita avrà già visto e avrà associato a qualcosa o a qualcun altro. Lo scritto inganna se associa qualcosa di troppo reale e commestibile, e ne sottrae tutto il possibile associabile, o se decide di lasciare spazio a ciascuno di leggere il proprio copione? Se mi fermassi a questa prima fotografia, qualcuno potrebbe scorgere i capelli neri di un annegato, che sbattono lungo il bordo della sponda. Qualcun altro un filo dolce di anatre che si allontana verso un cono di luce bianca. Una barchetta di carta. Un piccolo acquazzone che gonfia il cielo o una folata improvvisa di vento, che sposta l'ombrello, facendolo rotolare, chi lo vedrà puntare verso il lago, chi verso la casa. E dalla casa l'ombra di un cane levriero, di un bambino biondo, di una donna cieca, di una rondine. Non credo possibile rinunciare a tutte le possibilità. Non credo nemmeno possibile includerle tutte. Nel primo momento dell'apparizione, chi legge deve poter scorrere dentro tutte le possibilità, quelle che saranno tradite e quelle che saranno perseguite. Comincia quindi la sua funzione di scrittura nella fruizione e nella ricezione del primo gesto di vita animale ed embrionale nella pagina. Chi pretende troppa chiarezza, impianta uno steccato di recinzione tra la prima possibilità di immaginare un maglio più ampio di sequenze immaginifiche e reali. Un colore in più, a volte quello che segna di viola il cielo e il prato, di arancione la mucca e la montagna, di rosso il mare e il piccolo lago addormentato.
Quello che io cerco, durante l'attacco di un testo, è la possibilità di identificarmi, anche per una manciata di piccolissimi istanti, in un luogo che mi risuoni in qualsiasi modo: in una mia esperienza, passata o soltanto sognata in quel momento. Questo tipo di spazio e di sospensione, di solito consente un certo respiro, e non necessariamente un cedimento del ritmo di narrazione. Molti perfettini e sapientini in fatto di scrittura e di editoria, sono convinti che le pagine di un racconto, debbano seguire le regole immediate di una fiction televisiva, in cui gli accadimenti devono susseguirsi con regolari colpi di coda e sgargianti sorprese, in tal modo da non allentare la tensione, non stancare l'esigente lettore, e non lasciare lasca la vela della storia. L'immagine, a mio modesto parere, è una questione di sfocamento e di rinnovamento simultaneo, all'atto percettivo individuale. Non si può pretendere che il lettore abbia già la tavola apparecchiata, le candele accese davanti, le pietanze fumanti nei vassoi coperti, e la testa del morto di turno già inserita col cronometro, per apparire dopo il raggelante sollevamento del coperchio da parte del maggiordomo, a distanza di un  tempo regolare di azione, programmato dal secondo dialogo romantico preparatorio, organizzato ad arte per amplificare al massimo lo scoppio improvviso del raudo. Eppure una programmazione geometrica del luogo, del tempo e delle dinamiche di una certa azione, è indispensabile, ma non per fare sì che sia il lettore a dettare le regole, e trascini la scrittura sotto il regime del suo ozio, o delle sue abitudini allo zapping televisivo. È solo chi scrive che deve suggerire certe atmosfere, ma non seguendo una strategia economica di risultato e di accapparamento dell'attenzione a tutti i costi. È come la scelta di un nudo o di una trasparenza, per far sì che quel dato prodotto abbia la sua buona e adeguata risposta. Che qualcosa rimanga rappreso, attraverso la punta rosa di un capezzolo da un tessuto di raso. La comunicazione è fatta di probabilità, di soffi, di spifferi e di spettri, di cose che si sfiorano, che si scorgono, ma che ancora non si vedono. Di voci e di visi al di là di un valico, quando cala la sera e si avvicina il buio. Tra mille, qualcuna potrebbe fermarsi e dirmi di avermi sentito e capito, almeno per una sola parola, quella che sento sia stata la mia vita in quell'attimo fuggevole di scrittura. Altre no.
Lo scrittore che mi lascia intravedere nell'ombra una donna che cucina, o che si scioglie i capelli, che canta qualcosa mentre ha un piccolo fermaglio tra i denti, mi comunica una sua dimensione possibile, che potrei individuare tra quelle che mi attraggono e che mi prendono di più, o tra quelle che non mi parlano, e in questo caso non mi cantano e non mi risuonano dentro in nessun modo. È questo il rischio, ma è comunque inevitabile quando si cerca una propria voce per una propria esperienza. Una propria esperienza, se autenticamente vissuta o immaginata, non potrà mai avere vita se non attraverso la propria  voce, e non la voce suggerita da qualcun altro.
Credo che non si possa insistere nell' addestrare la scrittura alla soglia della nitidezza assoluta, eliminando ogni tessuto stilistico appena più involuto in nome della chiarezza, della matematica, senza lasciare questi tempi sospesi e appena irreali e poco riconoscibili dalle convenzioni cognitive e razionali. Senza aver paura di annunciare qualcosa con un profumo e non con un fatto.
Credo che oggi si cercano troppi fatti e pochi profumi. Troppe immagini già viste e rodate di sicura efficacia; o comunque già rievocate e masticate. Il lettore moderno non dovrà sforzarsi così di immaginare, nemmeno di leggere, di sognare, di faticare. Deve essere imbavagliato, preparato dal nodo del tovagliolo fino all'ultimo nastro di mela tagliata a regola d'arte, a uno spettacolo sicuro, logico, certo, coerente. Già visto e già gradito. 

0 commenti: