Bisognerebbe scrivere sempre, ciascuna parola, come un uccello cacciato, un attimo prima dello sparo. Non conosco al momento altre regole o possibilità per non coprirsi di ridicolo. La possibilità che un testo, anche ben fatto, sia causa di sbadigli o di risate convulse, si aggira intorno al novantotto per cento! Il resto due per cento è per tutto il possibile resto.
Rimane una grossa incognita. Parlo della certezza di comunicare e di sposare un intento espressivo, con una propria forma di linguaggio, e con la stessa catturare l'interesse di illustri ed eroici sconosciuti, che potrebbero fare sicuramente a meno dei tuoi sforzi e della tua vita. Imbattersi in un duello senza fine, con la propria strumentazione di bordo, contro l'indefinibile imperscrutabile mondo che si muove e che continua, al di là di me o di chiunque si accinga per un qualsiasi motivo a mettersi per qualche istante al centro, con un proprio testo.
La scrittura in qualche modo mi ridimensiona. In alcuni fa l'effetto contrario, per me è complesso vitaminico o un canale criptato per i film sporchi mai visti. Mi rende tangibile la mia assoluta invisibilità al mondo. Una traccia di collo sporco e il cuore scuoiato del principe azzuro colpito per sbaglio dal pugnale di un guardiacaccia. La fragilità della mia specie e del suo canto in sottovoce, che rimane seduto in piedi, sulla sedia gialla della mia stanzetta, nel cortile di casa, quando improvvisavo un recital davanti a mia nonna, insieme alla mia amica del cuore...
È così che avverto il senso ridicolo dell'esporsi, del proporsi e del sottoporsi, spesso senza aver nemmeno collaudato per bene l'accordatura del mio strumento, o peggio: con l'illusione che per suonare bene un proprio testo, basti accordarlo alla perfezione e violentarlo di perfezionismo artificiale – o artifecale – e non proprio. Accordarlo e farlo ritornare come un cristallo sfavillante di suono, con un ottimo accordatore elettronico, che epurerà tutti i difetti e i possibili delitti, che mi assicurino l'arroganza di presenziare davanti a un lettore, con il papillon bene in asse sulla camicia diplomatica, i polsini rigidi e ben inamidati, la patta del pantalone che mi contenga per bene il probabile demonio di un'erezione improvvisa, in presenza degli ospiti importanti e troppo sensibili alla natura selvatica dell'uomo. Eppure lo strumento è perfetto. È tutto a posto. Ho pesato al massimo le mie parole. Le ho messe al microscopio, come il fegato di ratto nel vetrino, che mi attirava così tanto, quando andavo a giocare da bambino dal mio vicino di casa. Eppure non succede niente. Dove è finito quello stupore? Quell'ansia naturale di darsi e di immolarsi con il proprio occhiale, anche se sporco e appannato, ma ancora così riconoscibile? Dove comincia la mia voce? Così come è e non come sarebbe giusto che sia. Troppo sformata dalle informazioni, dalle buone amicizie. Uno scrittore ha bisogno di compagni cattivi, che gli frughino nelle tasche e sbavino dietro le bariste del centro, più che di grandi amici. Ho paura che questo tempo voglia centrarsi troppo su se stesso. Avvolgersi in una sua idea. La palpebra è troppo tesa per ammorbidirsi e perdersi nel privato di una costellazione aperta. Lo scrittore è diventato un chimico, che illustra le sue formule e le fa scorrere, come perle dentro un solo filo bagnato, appena passato nei denti bianchissimi di un orafo. E ciascuno imparerà a memoria la giusta sequenza e terrà fuori quelli che non hanno incamerato il giusto assetto. Il mare canta e l'uomo scrive. Senza mare. Un mare senza scrittura se non quella delle seppie, che sborrano romanzi storici nella bocca di un polipo.
Non trovo un senso a suonare troppo accordato. Il miracolo è imparare a suonare un proprio strumento da scordato, e dal canto imparare naturalmente ad accordarlo.
Possibilmente al buio, o davanti a un fuoco fatuo! Se così non succede niente, conviene fare altro.
Bisognerebbe scrivere sempre, ciascuna parola, come un uccello cacciato, un attimo prima dello sparo.
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