venerdì 4 gennaio 2013

Può darsi

Un tendenza molto comune è quella di attraversare anche la sola ipotesi di un linguaggio espressivo, con un proprio criterio di sguardo. Uno sguardo giudicante, asettico che entra nel merito di quello che si guarda o che si pensa di guardare, dicendo:
secondo me tu sbagli: questa cosa dovevi metterla qui, o dirla in questo modo. Io lo dico per te, figurati, sei bravino, è solo che in un certo senso pare che tu scrivi solo per te. Tutto qui.
Può darsi, direi. O dico.
Il modo di guardare muta. Sono certo che dietro a ciascuna scelta che facciamo, esistono delle lunghe concatenazioni di eventi, di sensazioni, di intendimenti. Quasi mai si parte da un punto solo, azzerandosi. Non si parte mai con le mani pulite quando si scrive. C'è un sedimento che attraversa ogni anima che si cerchi di far tremare attraverso un certo uso delle parole.
Se adesso, in questo preciso istante, dovessi attaccare una storia, dal nulla, traccia il primo rigo, anche una sola parola, mi direbbe qualcuno, per vedere solo come fai l'inizio, per uno sfizio, mi direbbe qualcun altro, e allora, per esempio:
Il silenzio del parco, di prima sera. C'erano due fidanzati, sempre gli stessi, appena abbracciati e silenziosi; lo stesso tratto appena illuminato dai lampioni. Gli ultimi a intrattenersi, fino all'ultimo suono di campanello "signori, il parco sta chiudendo. Siete pregati di accomodarvi fuori. Signori, l'ultimo campanello...", e quelli che raggiungevano l'ingresso con una certa indolenza, l'ultima sera, così il custode, scuri nel viso, come forse non erano mai stati. E anche lo sguardo, così rabbuiato e diverso, ma silenzioso. Come il silenzio del parco, di prima sera...
dunque questo abbozzo così semplice e appena spedito dalle mie ombre a quelle di chi potrebbe leggerlo, non è cominciato solo adesso, adesso che l'ho scritto. Fino a meno di un minuto fa, non avrei avuto assolutamente idea di quello che avrei mai scritto per rappresentare un certo qualsiasi inizio, solo per gioco o per prova, così come è avvenuto. Non avrei pensato al parco, alla sera, ai fidanzati, al custode, alla loro strana indolenza nel raggiungere l'uscita, all'espressione rabbuiata dell'ultima sera, nulla di tutto questo. Tutti questi fattori erano del tutto estranei e confusi dentro un vuoto informe, questo prima di raggiungere il punto di pagina dove illustrare l'esempio e dove incominciare l'accadimento. L'accadimento accadeva quasi alle mie spalle, come se io fossi il lettore e lo vedessi formarsi dal suo nulla, senza sapere dove andava e da dove diavolo veniva. Lo leggevo come ciascuno di voi lo ha letto, da spettatore e non da scrittore. Questo per dire che cosa: che non si parte mai da zero e quasi mai si pensa quella certa origine formale e formata di un linguaggio prescelto, dico confezionata, non solo da persone, da situazioni, da ambienti, da luci, da riflessi, ma soprattutto dallo strano collante o filo invisibile che li assembla e li muove, nel tempo e nello spazio di quel dato contesto. In questo caso, anche in pochi righi, il mio linguaggio era all'origine della sua origine, così come è uscito, come parte del mio occhio inconscio, oltre e prima dei miei pensieri, del mio ieri. Di quello che ricordavo senza sapere di ricordare prima di scriverlo. Di quello che sentivo di dire senza sapere di sentirlo, fino a un attimo prima di scriverlo. Il mio linguaggio, il mio modo di scrivere o di costruire scrittura, nasce dall'ipotesi di un momento impreciso e fugace, da fermare e da fissare a volo, prima che sfumi e mi venga meno; da un accenno rapidissimo che per una frazione diventa pensiero e parola, ma che è originato da qualcosa di preconcettuale, che mi rappresenta, mi sopravvive, mi diventa. Se dovessi scrivere altri tre piccoli incipit di prova, l'uno diverso dall'altro, sono certo che mi troverei di fronte ad altri tre diversi ambienti, contesti, concorrenti alla formazione di una voce nuova dal buio del mio star muto. Il muro dello star muti non è mai uguale per ciascuno. Così il peso della notte, della sera o della luce del giorno sulle proprie parole che scorrono e che si afferrano prima che diventino morte. Ogni inizio, la parola è sottratta alla morte. Ogni scrittore che comincia deve salvare la vita a quello che dice, a parole che non conosce ma per le quali darebbe la vita, le uniche necessarie in quel momento a irrompere nel suo mutismo e a farlo vivo. Solo quelle e non altre. Se quelle morissero,  mi dico senza dirlo, rimarrò muto e morirò con loro.
Ecco perché quello che io scriverò, in qualsiasi modo potrò variarlo, vivificarlo, sezionarlo, ricomporlo, agghindarlo, avrà sempre questa sua eco di indefinito paesaggio originario e misterioso, che mi precede e si concede a me stesso come scrittura altra da leggere, da subire e a volte smarrire, senza riuscire a fermarla tutta, a controllarla dal suo cuore. Quello della sua origine, in qualsiasi modo le trasformi, non si potrà cambiare, ed è solo quello che mi accosta a un lettore. Solo questa sarà la radice che farà sì che qualcuno potrebbe scegliermi e concedermi del suo tempo: il lato sottilissimo e originario, preconcettuale, che spezza il mio star muto dal filo di un primo pensiero alla sua morte prossima, qualcosa che è come un ultimo sguardo. Non si può aggiustare nessuno ultimo sguardo sulle cose e nemmeno è giusto che a uno scrittore venga chiesto riguardo per un suo ultimo sguardo. 
Bisogna ascoltare il movimento di quegli occhi, il silenzio di quel parco. Di sera.
Senza alcun criterio di sguardo altro, o di sguardo migliore, più efficace. Ma solo scrutando cosa ci sia in quella luce di vero, di finto, di possibile. Di inutile e insieme di indimenticabile. Potrebbero accadere anche le due cose insieme. Di solito è quello che mi auspico. Può darsi.

2 commenti:

Eletta Senso ha detto...

Nel testo, il fading delle voci è una buona cosa; le voci del racconto vanno e vengono, svaniscono, si accavallano; non si sa chi parla: qualcuno parla e basta; non vi è più immagine, ma solo linguaggio. Ma l'altro non è un testo: è un'immagine, una e coalescente ; se la voce si disperde, scompare l'intera immagine (l'amore è monologico, maniaco; il testo è eterologico, perverso. - Roland Barthes

luigi ha detto...

Interessante il fading delle voci.
Il magma prima di farsi parola sarà altro, altro da me che però diventa me, come un suono che avrò sentito e che mi rimane impresso, come se fossi stato io ad averlo emesso. Immagini, suoni, le parole devono contenere un mondo troppo grande in un solo istante.
Per questo il tutto è sempre molto difficile ma sempreincredibilmente bello.
saluti e grazie della visita
l.s.