mercoledì 9 gennaio 2013

La notte fonda nelle parole

Leggevo giusto ieri della realtà e della possibilità, all'interno delle scelte di un certo linguaggio, in relazione al fattore asemantico. La parola manifesta il possibile e il suo reale nel suo improbabile. Il reale sarà quindi possibile se improbabile. Non ricordo se questo aspetto possa relegarsi alla sola fascinazione ermetica, anche se sarà sempre la realtà e la possibilità a decidere i confini per una scelta del genere. Dalla fase ermetica luziana, per esempio, il discorso ermetico è sempre fuga o scissione da una certa particolare realtà o densità di un reale fatto di incertezze e di attriti. Oppure, come io lo intendo, dalla certezza della probabilità alla pluridimensionalità dell'improbabile: la notte fonda nelle parole.
Credo che sia questo il centro. Attraverso un certo chiaro dire, anche non dicendo, di un parallelo di oscuro, che ne sarà ombra, penombra, contrafforte, ristoro. La luce del non visto il ripieno e la profondità di quello che emerge.
Quando dico cerco allora una notte nel mio dire, che non abbia albe, schiarite, ma che si nutra e a volte divori le luci del mio chiaro come un sonno. Una notte senza luci non riuscirebbe a vedersi e a dipingersi come notte. Sarebbe uno sfondo senza forma. Senza luna, case o cielo. Sono spesso le luci lontane, i bagliori, i viali costellati da lampioni, le darsene, i fari, i porticcioli, i paesi arroccati con le loro piccole case malinconiche, ma anche il trucco scuro che contorna l'occhio di una donna, a dire che cosa è o sarà mai il buio dal loro sintomo luminoso, anche se appena fioco o solo intuito. E sarà quindi anche la notte a dire che cosa è o sarà mai il giorno, se è quell'altro lato non visto, il suo negativo, o se sarà la luce soltanto un sogno nel buio fitto.
Le parole hanno luci, se organizzate, compitate in filari, alla Bertolucci, filari ordinati da scuola elementare, o anche disorganizzate in derive, piccoli attacchi corsari alla deroga, alla rotta ortodossa, alla forma prestabilita. L'industriosità del non detto, del celato, del colto appena, spesso del negato o inconfessato, è un gioco estremo fatto di luci, effetti di candelabri che vibrano in un percorso, in una struttura, come spina dorsale, tessitura da una tenda bianca.
Chi dice non è sempre nel chiaro del suo linguaggio, così come non è sempre nel suo oscuro chi non dice. Per non dire non basta spegnere o non scrivere affatto o fare buio. Il buio non è solo il non dire. Potevo non scrivere questo post, ma se non fosse mai stato scritto e quindi mai stato pensato e quindi mai esistito, non avrebbe avuto senso di oscuro o di chiaro in un'assenza. Un'assenza assoluta è al di là della luce e del buio, dal momento che non si pone in linea con nessun tipo di asse, nessuna scelta che si ponga in uno dei due estremi. Ma se io scrivo questo post non dicendolo, allora posso parlare del suo buio. 
Scrivendolo o dicendolo, per dire di altro da quello che pare io voglia dire, in questo caso barando, ma anche nella luce. Si bara nella luce, quasi sempre l'inganno nasce nella luce, e nelle ombre si consuma, ma la sua prima idea, il suo impulso, è luminoso. Nel dire di un non detto, invertendo i piani, e quindi cercando di affidare alle parole tutto il possibile esplicabile, classificabile, descrivibile, il commestibile e ingurgitabile, io tolgo luce al linguaggio. Non faccio notte o sera, ma elimino luce che è ben diverso da creare un effetto serale o notturno, ma significa, invece, creare un giorno più anemico e scialbo, che non sia mai sera e mai notte ma neppure mai giorno. Senza alcuna profondità. Nelle parole cercare a tutti i costi di contenere tutta la luce che si crede necessaria per comunicare, per parlare, può rischiare un salto nel nulla, nella certezza di una probabilità accertata, che spesso non è realtà ma non è nemmeno fantasia, ma è il demonio di una sola idea precostituita, di conduzione di una voce afona, che inondi un intero palazzo tra gli echi del suo sconcio. 
Comunicare quello che invece ancora non si sa, che non si possiede del tutto, significa abbracciare una dimensione di ricerca e di smarrimento, di malattia di chi legge. La malattia del linguaggio, il suo pericolo, il suo primo e ultimo sintomo, la sua disgregazione e la sua emozione che disgrega, il fascino di una pervasività che possa rimanere sfondo di un altro ulteriore reale, di un'altra luce. Il cuore di un gesto generoso di scrittura è nel negarsi e nel concedersi, per pochi attimi, lasciando che il lettore si conceda a questa negazione di un senso compiuto, che spesso è l'unico dono più grande, per trovarne uno al proprio interno, pur brancolando nelle stesse ombre dello scrittore e incontrandolo dentro lo stesso gesto di un riconoscimento, di una resa possibile o forse appena improbabile. Come un percorso di ritorno da una gita, da solo o con persone che ami, vedere le tue luci accese, tra tante, e riconoscerti, come forse non credevi. Ecco che cosa significa per me scrivere con la notte fonda nelle parole. 

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