domenica 13 gennaio 2013

Nessuno al mondo

Scrivere per nessuno al mondo.
Il disagio di quest'epoca, almeno quello che avverto, è dato dalla possibilità di avere disponibili strumenti aperti a lanciare in qualsiasi momento del giorno o della notte una propria idea, parola, frase, aforisma, intuizione, che, per il solo fatto di essere sorta nella propria mente con una certa facilità e irruenza, sarà considerata indispensabile anche per gli altri. Quindi comunicabile, al più presto, possibilmente. Prima di domani.
Questo post, per esempio, rimarrebbe  un veicolo sempre pronto e performante a cui affidare l'impulso, la pulsione di dire, senza attendere l'eventuale processo di un'incubazione, di una maturazione della mia idea.
L'arma è a doppio taglio. Se ho la possibilità di comunicare direttamente a una certa dimensione di lettori, anche occasionali, comincio anche a rendermi conto di quello che accade negli altri con queste mie idee, parole, frasi, aforismi, intuizioni, divagazioni. Valutare l'effetto, l'interesse e le reazioni nell'insieme, tastare il terreno. E fino a questo punto è solo un vantaggio; potersi rendere conto delle cose che funzionano e che arrivano in un certo modo, di quelle che lasciano perplessi, indifferenti e che non funzionano per niente, rimane una buona opportunità per chi scrive o per chi tenta di farlo.
Il problema nasce quando questa pulsione del comunicare e del voler subito ottenere un certo riscontro, abbracci e condizioni tutto l'approccio alla parola scritta, da quando questa è pensata, elaborata, violata, trasferita da sola immagine o impulso luminoso, filamento, vibrazione, a quella certa sequenza, che ne richiama un'altra, anche questa pensata elaborata, etc. da immagine, impulso a qualcosa di linguistico e di concreto. 
Questi impulsi, secondo me, non devono essere necessariamente condivisi subito. Chi scrive lo fa per comunicare, certo, ma anche per altro. Anche per organizzare su quella comunicazione, un impianto delicato di solitudine, di confronto, di stagionatura. Esiste anche la possibilità di tacere, di attendere un tempo propizio perché quella parola sia davvero necessaria anche per chi dovrebbe leggerla oltre a chi la scrive, è la differenza è sottile ma c'è. Una differenza tagliente. 
Quanto di quello che io penso, e che è originato dalle mie pulsioni, immagini o vibrazioni, potrà essere davvero necessario per qualcuno, quanto meno quanto è stato necessario per me il rovesciarlo? L'importante è stabilire un confine importante tra la nostra necessità di comunicazione, o anche urgenza, e su quanto invece possa davvero essere necessario leggere quello che sentiamo così bruciante e fondamentale da dire. Molte volte il gioco comincia e finisce con noi. Il giocattolo si illumina nelle nostre mani, lo lucidiamo per benino, ma nel modo più rapido possibile, prima che qualcun altro possa mostrarne un altro, forse più luminoso e attraente del nostro. 
Il sentire necessario il proprio dire, ancora prima di scriverlo, appena si è pensato, è il primo delitto che ci oscura. Il vizio di dover trasferire scritti, racconti, testi, romanzi, al più presto, in qualsiasi luogo li accolga, di farlo prima degli altri, è l'inganno di questa sensazione di indispensabilità del dire a cui si tende, inconsciamente, a far corrispondere un'eguale intensità ricettiva, urgenza dell'ascolto, che è inesistente e non verificabile. Quasi mai.
Più ci brucia l'idea, l'originalità, l'impeto del dire, più ci aspettiamo negli altri la reazione al nostro tuono, e facciamo il possibile perché i tempi tra getto e pubblicazione siano minimi e comunque sempre più ridotti.
Io mi sto accorgendo sempre di più di come sia importante custodire nel buio, per del tempo svariato, scritti ritenuti urgenti e necessari, trattarli come se fossero quelli che abbiamo sentito superflui, vaghi, insignificanti. In effetti la nostra suggestione non potrà mai essere il nostro metro. Il mutamento percettivo potrebbe farci suggestionare di qualsiasi passaggio più o meno funzionale, anche se in apparenza ben fatto, come se destinato a una certa fruizione. 
Io mi sto accorgendo che non tutto quello che si scrive e che si pensa debba essere per forza letto. Una gran parte di quello che si scrive sono esercizi di agilità o tipici atti masturbatori di onnipotenza. Un lettore ha bisogno di una dimensione. Di un mondo altro, dove perdersi. Per creare e costruire una dimensione nella quale un lettore si possa perdere, non basta provare l'urgenza, il desiderio, la necessità di comunicarla, ma è fondamentale incontrare prima noi un senso di perdita. La febbre del comunicare a tutti i costi, di farlo prima degli altri, non implica una reale maturità di quello che si ha da dire, non implica una perdita, ma una logica economica di ritrovamento mirato.
Creare qualcosa di necessario da leggere è davvero qualcosa di molto raro. Il lavoro di un'intera esistenza. La ricerca di una poetica è necessità di affinare un sentimento di solitudine e di ascolto, di un proprio mondo e di quello al quale potrebbe destinarsi un certo messaggio. Non esiste il tempo quando si scrive o si descrive una propria dimensione, non dovrebbe esistere mai fretta di dire, perché in uno stadio di profonda perdita simultanea, tra chi scrive e chi legge, non dovrebbe esistere tempo ma orgasmo. 
Quando non si hanno pressioni, richieste specifiche, o limitazioni esterne di sorta, si dovrebbe lasciare inutilizzabile quanto più materiale è possibile. Dimenticare l'effetto che fa a noi. Un buono, un discreto, o anche un ottimo scritto, non lo sarà mai in base a quanto effetto e quanta emozione ci darà mentre lo scriviamo o quando poi lo rileggiamo. Non è su quello che si diventa necessari. Si diventa necessari come voce, come insieme di esperienze assimilate nell'ombra, desiderate e taciute, soffocate, in attesa che si plachi il fuoco facile dell'infanzia per quello che si scrive, per lasciare il posto al torpore di chi non sa se quello che gli sta accadendo sia vero o sia sognato, che non ha il tempo di immaginarlo trasferito, perché in fondo è già avvenuto, esiste, al di là del suo luogo, della sua collocazione. E potrebbe esistere anche senza comunicarlo. La comunicazione avverrà per circostanze naturali di un processo molto più ampio, meno capriccioso e più fermo, dove a un certo punto il nostro invisibile o superfluo, per incanto, diventerà necessario o indispensabile o emozionante per qualcun altro. O per nessuno al mondo, farà lo stesso.

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