lunedì 21 gennaio 2013

Avere da dire o sentire di dire

Quanto ho da dire. Non credo che possa quantificarsi. Dire quanto pare che voglia pesare la polvere e il fumo di un dire che potrebbe essere fatto di sola nebbia. Il tragitto di un dire è sempre incerto e misterioso. Non potrò quantificare il mistero e aggiungere l'ausiliare avere. Io non ho da dire. Io posso solo sentire di dire, ma sentire il mio dire non vuol dire averlo, possederlo e quindi essere in diritto di trasmetterlo con la stessa intensità di un possesso chiaro e definito: con una sua forma, un valore, una linea, un colore, un peso.
Sentire di dire è un salto in un vuoto. Il mio dire non ha ossa o carne. Non ha piume, fasce di legno o supporti metallici. Ma ha la nebbia di quello che sono adesso e che forse è già passata, già non sono più vero, per cui non sto parlando o scrivendo di una stessa cosa. Non sto scrivendo di una cosa ma di una possibilità nebbiosa di qualcosa che possa assomigliare a una chiave. 
Adesso sento di scrivere un post che fino a cinque minuti fa non era nei miei pensieri. Non mi appartiene. Questo che adesso state leggendo non è una cosa mia, non credo di poter attestare una paternità di un processo così effimero, impalpabile. Se qualcuno me lo rubasse, non potrei ancora difenderne il dettaglio che mi esprime e che attesta la mia paternità, dal momento che non sono ancora dentro questa nebbia, non sono ancora nebbia per essere dentro questo scritto nebbioso. Ci sono ancora, ho ancora un controllo superficiale di un linguaggio troppo comune, economico e funzionale che non è ancora scrittura. La scrittura è altrove.
Guardate adesso come si appanna tutto, questa è nebbia, le parole senza una direzione sono nebbia. In questo momento ecco il mio dire di nebbia o anche di sabbia o di scabbia. Conosco un certo linguaggio, quello che uso per sopravvivere, per comunicare, per acquistare il pane, per salutare le persone che mi conoscono usando la voce. Ora uso le dita che diventano voce e credo di stare scrivendo. Invece è un sogno: in questo stadio di trasferimento di pensieri in parole scritte, io sto sognando di scrivere da scrittore, ma in fondo non credo che stia facendo altro che seminare mangime minuscolo per piccioni. 
In questo istante è ancora nebbia. Una nebbia notturna che nasce da un nebbioso sentire di voler dire, che è ancora distante dal sentir dire o dal ritenere il suo dire un suo avere. Il mio dire come la mia donna, la mia mamma, la mia macchina. 
Quanto sarà vero il mio sentire di dire o di voler dire? Quanto affidabile la scelta di chiedere che a questo dire si contrapponga un voler sentire, un ascoltare il mio sentire di dire? Ancora nebbia.
La scrittura parte dalla nebbia. La scrittura, anche in questo momento, è fatta dalla nebbia di chi non sa dove andrà qualcosa che appena sente di dire, o forse sono le dita che sentono di battere e alle quali mi affido. Se avessi al posto della tastiera di caratteri, delle note musicali, il corrispondere di ogni lettera che ho scritto fino ad ora darebbe vita a un osceno disastro sonoro, senza alcun senso armonico e circuito tonale di riferimento. In questo momento sto rischiando più o meno la stessa cosa. La convinzione di avere o meglio di sentire di dire qualcosa di importante, porterà purtroppo a risultati molto simili a quelli del pianoforte immaginario, anche con un semplice post. Il tipo di atteggiamento quando si comincia a scrivere dovrebbe essere quello di chi non sa scrivere. Lo scrivere per farmi (e)leggere da scrittore vorrebbe dire il comunicare qualcosa in un mio linguaggio, non nel linguaggio comune che ho imparato a casa e a scuola per sopravvivere e che mi ha portato fino a questo post. Quello non è un mio linguaggio. Un proprio linguaggio non è nemmeno un possesso ma un processo sensibile complesso nei confronti della parola, del suo suono, del suo segno, del suo altro: noto e ignoto, a volte l'assedio di una maledizione.
Che cosa voglio dire? Che non sarà solo l'istante di trasmissione della mia sensazione di parlare e di scrivere, che si ostina a mettermi al centro, ma sarà la centralità di quello che avviene senza la mia interfenza, senza la mia volontà e la mia ostinazione capricciosa di voler dire, a diventare raccontabile da scrittore e non da chi dice una diceria o scimmiotta un tipo di scrittura forzata. E tutto questo è davvero molto difficile da ottenere. È difficile ottenere che tutto quello che ciascuno sente di dire, in qualsiasi circostanza venga avvertito e poi scritto, risulti un'"istigazione" per un lettore. Il processo tra il sentire di dire e il sentire di ascoltare quel particolare mio dire, passerà per mille e una notte di strade, ricerche, imprevisti, inseguimenti, ripensamenti, quasi tutti poco controllabili e gestibili con una visione troppo rigida e troppo legata alla sola parola. Ma tra queste mille e una notti, si nasconderà pur qualcosa. Quel qualcosa che potrebbe assomigliare a una chiave luminosa in questo nebbiaio. Anche piccola, per qualcuno che la scorga.
Forse anche per un solo qualcuno ne sarà valsa la pena. In qualcuno che avverta in un momento a caso, del tutto imprevedibile, appena un filo di nostalgia: della nostalgia di quello che sentivo di dire anche se poi non l'ho detto.

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