Appena acquistato questo volume, non ho resistito, ho cercato la prima panchina disponibile - mi è comparsa a pochi metri dalla libreria, una ben soleggiata di fronte a uno strapiombo di mare - e ho aperto. Attaccare un testo per fame, per fame da lupi, in una situazione di luce tragica e naturale, ha un sapore così difficile da codificare a se stessi e quindi da comunicare.
Il testo in luminosa questione, è "Il bosco sacro", di T. S. Eliot, una raccolta di saggi sulla poesia e sulla critica, che da tempo cercavo e che non avrei immaginato di apire per la prima volta in una situazione così particolare e luminosa, in pieno mattino, quando mi sono addentrato in uno di questi straordinari condotti e passaggi sul fuoco:
"Ma ci accorgiamo che non siamo in grado di definire neppure la tecnica del verso; non siamo in grado di dire dove comincia e dove finisce la "tecnica" [...]e ancora più avanti: "... il sentimento, o l'emozione, o la visione risultanti da una poesia sono un che di diverso dal sentimento o dall'emozione o dalla visione che erano nella mente del poeta".
Credo che questo aspetto dell'introduzione al testo, sia cruciale e racchiuda un elemento fondamentale, che potrà fare chiarezza, o stimolare verso nuove oscurità, il critico o l'appassionato, o l'affamato, che esiste di più solo quando non resiste. In effetti mi accorgo sempre di più che l'interesse acuto verso certe forme letterarie o comunque verso un po' tutta l'atmosfera sprigionata da una fitta frequentazione con le creazioni e le creature che si compongono e insieme si dissolvono nelle loro stesse creazioni, si basi in primo luogo sul cedimento, sulla sconfitta, sull'impossibilità di resistervi, e forse solo in questa trasgressione, sul sentirsi ancora più vivi e (r)esistenti.
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