Nella cura e nella possibile attenzione che riesco a dedicare al lavoro e all'interesse di un mio linguaggio, avverto sempre di più la necessità di una chiarezza, di una certa significante costante, o logica di gioco, attraverso cui queste strane costruzioni dovrebbero muoversi o anche affondare. Il terreno, il tipo di grana, la sabbiosità, il profumo del tufo nel fango o alla luce diretta e solare, saranno possibili componenti e varianti dove muteranno di colpo gli scenari e le risonanze di ogni parola. Il loro contesto, il loro sfondo primigenio, che sarà poi anche il luogo predestinato e oscuro dal quale dovranno partire e arrivare.
Non credo che avvertirsi chiari o immersi nella chiarezza massima di un intento, nella prima pulsione o intenzionalità, dall'attacco di un certo testo o di una prova di un verso mozzato, possa escludere la nebbiosità, l'ansia della traversata o il relativo malcontento che ne deriveranno, per l'eventuale assenza di un certo bagliore ricercato, del filo di cotone che leghi il proprio intento in un alveo ben definito. Ancora peggio se questo bagliore, invece, si avverta prepotente ed efficace da parte dei controlli successivi e serrati dell'autore, e svanisca invece, come un filo rosato di Orplid, una volta incontrato un qualsiasi sguardo estraneo e appena più attento di lettura.
Penso soltanto che ogni esercizio necessiti di una calma interna e profonda di posa, che non sempre l'impulso stesso riesce a consentire e a consentirmi. Una strana lacerazione tra la selvaggina del pensiero fisico di scrittura, e il calore di una balia accogliente, che dovrebbe accudirlo prima di una possibile schiusa. Dove risiede la magia, o la noce dell'incanto? Nell'impulso primo o nell'incubazione? O in nessuno dei due? Non si è mai troppo accomodanti, il filo del cotone lascia spazio ai colori di un filo di corrente, dove a volte allungo il dente con tutta la lingua.
Penso soltanto che ogni esercizio necessiti di una calma interna e profonda di posa, che non sempre l'impulso stesso riesce a consentire e a consentirmi. Una strana lacerazione tra la selvaggina del pensiero fisico di scrittura, e il calore di una balia accogliente, che dovrebbe accudirlo prima di una possibile schiusa. Dove risiede la magia, o la noce dell'incanto? Nell'impulso primo o nell'incubazione? O in nessuno dei due? Non si è mai troppo accomodanti, il filo del cotone lascia spazio ai colori di un filo di corrente, dove a volte allungo il dente con tutta la lingua.
Quindi una certa chiarezza di conduzione del gioco, a un certo buon punto di cammino, andrebbe imposta, come corrente necessaria, scambio di rotaia perfetto per il successivo traguardo, o anche- e ancora meglio-, interrotta se non conduce il calore giusto.
Non ho mai certezze, dal primo attacco di un rigo fino al punto in cui mi fermerò. E se fosse proprio lì il seme di una possibile e potenziale chiarezza? L'origine atavica e rabbiosa di questa fame di chiaro o di sereno?
Spero di ritornare a giocare nello stesso groviglio. In questo momento mi è impossibile: non c'è quasi più vento.
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