lunedì 7 giugno 2010

"Lucifero" e la trappola del trucco pesante

Il racconto di questo post, ha un nome sfolgorante e sinistro, ma racchiude diverse infomazioni interessanti sul percorso stilistico di Adele Iazzetta, giovanissima appassionata scrittrice. Io l'ho seguito da diverse angolazioni e ho ritenuto giusto condividerlo, perché credo che questa ragazza, ancora molto giovane, abbia già molte cose da dire con la sua piccola "maledizione" per le parole scritte. 
A volte basta un particolare anche minuto, e inserito nel giusto contesto, per catturare la mia attenzione. Di solito quando leggo qualcosa, cerco di dimenticare chi ci sia dietro: se sia un uomo, una donna, un ragazzo, un grande scrittore o uno piccolo, un esordiente, un incapace, un astronauta in ferie o un lattaio. Cerco di sentire la scrittura, il suo suono, la sua strada, e soprattutto la sua risonanza quando il sentiero di sera scompare, quando non lo vedi più. 
Di solito imparare a leggere con la dovuta attenzione l'organizzazione di un piccolo impianto narrativo, il tipo di percorso, di scelte, di moventi, il tipo di curve affrontate dallo scrittore, la sua fatica o il suo divertimento o la sua gioia  o malinconia, è un lavoro arduo, a volte quanto la stessa costruzione della storia. Un lavoro che richiede umiltà e sensibilità, e non nozionismo sterile o pregiudizi -  ma mi accorgo che non sempre avviene l'immersione autentica in uno scritto, quello scatto limpido e incontaminato, che ti consente di essere dentro il meccanismo del linguaggio e la sua economia di spontaneità e di ispirazione, e non soltanto dentro l'idea che tu hai di come dovrebbe funzionare questa oscura faccenda, cercando a volte l'accordo stridente, la dissonanza, il tritono, il diabulus in musica, come cellula o pianeta disperso, e dimenticando invece l'equilibrio dove può risolversi una tensione o un certo azzardo in un certo sistema.
Ci vuole orecchio, anche per le parole. Ne sono convinto e l'orecchio non è quasi mai un pensiero, così come la poesia non è quasi mai solo un affare che faccia una rima. Le cose che fanno la differenza in diversi casi sono quelle che non si vedono subito, ma che fanno crollare tutto se vengono a mancare.
Ma adesso non voglio dilungarmi. Voglio proporre questo testo che è stato affinato, e che ha dei momenti interessanti, uno spirito maschile e tenace, un buono swing. 
Va letto con calma, con leggerezza. Così come è stato pensato, elaborato e  così come continuerà a essere trasformato dalla fantasia e dalle emozioni di Adele, nel tempo o forse mai. 
Il particolare piccolo, che ho notato e ho sentito molto vivo e originale tra gli altri, è l'immagine del trucco pesante come una trappola. È un'immagine fortissima, non credo la giovane scrittrice  potesse riuscire a descrivere meglio quella situazione di impaccio e di tenerezza, e forse è proprio quella stessa trappola di sinestesia, che ha contribuito a sciogliere questa piccola storia sulfurea dall'anonimato di un file.
l.s.

Lucifero di Adele Iazetta (III E Liceo Scientifico Braucci)

La mia vita fa guerra al mondo, e fuori tutto tace. Nessun segno, nessun tumulto.
Stamattina fa freddo. Ed è quel freddo bastardo delle prime giornate di maggio, quello che ti morde le viscere, quel freddo che arriva con la brezza dei ricordi, che ti tiene compagnia con quell’ultima sigaretta e lo stesso dannato pensiero di sempre. Forse dovrei rientrare, eppure non ne ho voglia. Me ne resto ancora una volta lì, a sentirmi maledetta e a maledirmi con te, mentre il vento porta via l’ultimo residuo di forza. E lentamente, quasi senza rendermene conto, mi abbandono alla gelida corrente del passato.
Era luglio. Era il luglio del sole, il luglio dei lampioni accesi sul viale di casa. Poco importava di chi la luce non l’aveva mai chiesta, poco importava se qualcuno voleva fosse buio. Era un luglio che se ne fregava. Quella sera se ne fregavano tutti. Milioni di ombre a rincorrere il niente… ad affannarsi in code per traguardi immaginari, senza avere una meta, senza neanche preoccuparsene troppo. Quella sera se ne fregava persino Dio. Restava al solito posto, ad aspettare che un nuovo giorno sorgesse ancora… e tu lì ad urlare, a buttare il sangue, ad imprecare contro le fredde mattonelle di una stanza che neanche poteva ascoltarti.
… Quanto siamo stupidi! Passiamo una vita a perderci tra un guaio ed un altro, a parlare di scelte, di dolore, di bivi… E poi restiamo a guardarci intorno senza capire, quando ci si pone dinanzi l’unico bivio, l’unico potenziale dolore… l’unica scelta da fare davvero. Immobili, persi tra i lampioni e l’asfalto di un oscuro viale, non riusciamo a capire da che parte sia la vita. E giuro che io, dove diavolo si trovasse allora, ancora non lo so. Ma ormai, neanche m’importa più.
…Forse dovrei darci un taglio. Ormai sono piena di pensieri, ricolma fino all’orlo. Ce ne sono talmente tanti che non so neanche più dove metterli…e allora li tengo un po’ così, a girovagare tra le piaghe del passato e i vuoti del presente, aspettando che si trovino un posto da soli… che da un giorno all’altro decidano che ne hanno abbastanza, che forse di dolore ne hanno procurato fin troppo, che rinchiusi in un margine di vita non si sta poi tanto male. A pensarci…Ma che senso ha poi pensarci, tanto non cambierà nulla.
Mi guardo tra i pezzi di vetro in frantumi sul pavimento: neanche mi riconosco. Sono ormai tre giorni che non chiudo occhio, neanche tocco più cibo. Se avessi potuto smettere di respirare, avrei fatto persino quello. Il tempo mi consuma. Quasi mi faccio pena. Mi dico che così non va, che forse sono masochista sul serio, che forse avrei dovuto essere diversa. Già, avrei dovuto. Oggi invece posso permettermi un po’ di patetismi, oggi va bene. Oggi va bene così.
Chiudo gli occhi ancora una volta, respiro un’ultima ventata d’aria fresca, poi l’ennesima boccata di fumo. Me lo ricordo ancora, come ci conoscemmo.
Eravamo diversi, lo siamo sempre stati. Io, intrappolata in un abito troppo stretto, colorata di un rosa che non era mio… nascosta tra le pieghe di una gonna troppo gonfia, la più goffa tra tutte le bambine della V elementare di quell’anno. E poi c’eri tu, timido in prima fila, ad osservare senza dire nulla, a guardarmi e basta. Quella mattina caddi, scivolai giù dal palcoscenico di uno squallido teatrino di paese, tra le telecamere di genitori frenetici, impegnati in quell’ultima ripresa di un misero traguardo. Non accorse nessuno per me. Mia madre non c’era, mio padre non ce l’aveva fatta. Tanto meglio, neanche l’hanno mai comprato, il filmino. Sorridesti. Sorridesti a me, la bambina caduta dal palco durante il balletto di fine anno, incatenata in un vestitino ridicolo, rossa di vergogna e bagnata di paura. Non ti ho mai ringraziato abbastanza, non ricordo neanche se ti sorrisi di rimando. Ed è così che abbiamo buttato via il tempo, a scambiarci sorrisi senza avere il coraggio di ricambiarli, a tenderci una mano troppo lontana da afferrare, a gioire del gesto negando di averlo fatto. In fin dei conti, neanche gli anni sono riusciti a cambiarci. Tu sei rimasto proprio lo stesso bambino di allora: impenetrabile in quella calma apparente, murato in quella timidezza che adoravo, a vedermi morire e a morire un po’ con me, solitario come sei sempre stato. Forse sono rimasta anch’io la stessa, goffa bambina di quel giorno; intrappolata in un trucco troppo pesante, in un vestito troppo stretto, ad annegare tra le lacrime che mi hanno soffocata. E chissà che nel nostro perverso gioco non sia stata persino più brava di te. Lo sapevo, lo sapevo fin troppo bene che ogni maschera…anche la più piccola, la più insignificante, l’avresti dissolta. Sempre.
Il vento quasi mi rimbalza addosso… Si accendono le prime luci dell’alba. Quasi con timore, alzo gli occhi a contemplare Venere. La ritrovo lì, quasi ad aspettarmi... La prima luce di un giorno che non vedrò mai.
Trattengo a stento una risata amara che si contorce e mi si ferma in gola, curvandomi le labbra in un assurdo ghigno. Qualcuno, un giorno, mi ha detto che le stelle dovrei cercarle “dentro”… Che la gente, in fondo, il cielo, può guardarlo quando vuole. E se la gente dimenticasse di guardarle, le stelle? Se alla gente non fregasse nulla di quanto uno brilli dentro? Ecco, ora lo so. A quel punto, vi sono i teli neri e opachi della notte. Di una notte più buia, che copre tutto… Di una notte che non lascia che altra notte.
Chiudo gli occhi e riaffiorano silenziose, come foglie d’autunno su laghi di niente, le note scure di un venerdì ormai trascorso. Ogni parentesi di quel giorno sembra incisa in ogni angolo della memoria. Non vi è neanche un respiro, un solo dannatissimo respiro, che abbia saputo obliare.
E’ buffo pensare come poi di quella giornata non ricordi quasi nulla. E’ un vagare caotico di immagini, di ricordi, di parole. Due ore, soltanto due nitidissime ore di quel giorno, hanno dato senso ad una vita intera. Questo non era più il tuo posto, dovevi partire. Dovevi partire e non me l’avevi detto, dovevi partire e lo sapevi da tempo… E, sì, faceva male anche a te, ma, avrei dovuto saperlo, il dolore non ha il potere di cambiare le cose. Già, sapevo anche questo. Non avrei dovuto piangere: “Stringi i denti, fallo per me”, mi dicesti. Ed io lasciai che le parole morissero con le notizie che portavano. No, non era vero e non m’importava… e non avrei stretto i denti per te, che cosa assurda! Tu, il mio demone, il mio Lucifero, eri lì a chiedermi di “tenere duro”. A pensarci adesso quasi mi viene da ridere: l’unica preoccupazione di allora era cosa avrei fatto, cosa sarei stata “dopo”… Dopo, quando avresti smesso di ricordarmi d’essere viva anche arrivando a farmi odiare la vita stessa; quando non ci sarebbero stati più sguardi da interpretare o nodi da sciogliere. Dio, quant’ero stupida, avrei dovuto rendermene conto. Noi due avevamo una scadenza. Non siamo mai stati bravi con gli addii: io, almeno, non lo sono mai stata. Non ho mai avuto troppa familiarità con i “per sempre”, con le parole sussurrate né con le lacrime in generale.
Non ricordo neanche se fossi cosciente, quando andasti via. Credo di non essermi resa conto neanche che l’avessi fatto.
Partisti per non fare ritorno, figlio di una famiglia distrutta, perso tra le stelle che non sapevo guardare e milioni di stupidi guai… Ed io non ti ho rivisto, mai più. Ti dissolvesti, silenziosamente, fuggendo via in punta di piedi… come l’allodola dopo aver salutato l’ennesima notte, come l’ultima nota di una canzone che muore nell’aria… Come Venere, quando prende forma il giorno.
Forse odiarti sarebbe stato di gran lunga più semplice. Risparmia un sacco di problemi, il non ammettere di non aver diritto ad essere arrabbiati. Se invece la colpa è tua, di nessuno o del mondo intero…Beh, è lì che sei fregata. Combattere contro se stessi, contro tutti, o semplicemente non aver nessuno contro cui farlo, quella è la vera maledizione. Sei condannato a perdere, sempre, ed incondizionatamente. E, dannazione, quanto sono stanca di perdere.
Il giorno è ormai alle porte, anche l’ultima sigaretta si spegne, cozzando contro la porcellana di un posacenere consumato dal tempo.
Stamattina fa freddo… forse dovrei cambiare, forse dovrei dimenticare. Eppure no, ancora non ne ho voglia.
Non mi restano altro che un paio di minuti… E allora addio. Addio al passato, al presente. Addio a questo futuro dalle gambe di vento… Che forse adesso starà vagando altrove, e io neanche sapevo fosse passato di qua.

L’ultima battaglia si è consumata alle mie spalle. L’ultima battaglia che ho perso, l’ultima battaglia che forse neanche ho combattuto.
Richiudo la porta del balcone, sconfitta dalla mia amabile bestia… da questo Lucifero che esplode, ancora una volta, nell’aria e nel cuore.
Adele Iazzetta


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il racconto di Adele mi ha colpito per la vena amara e la consapevolezza di quello che perdiamo lungo il cammino.
La consapevolezza pero' che ci rende speciali di fronte ai "bagliori " dell'incontro...
un incontro che sviluppa dentro di te, il te migliore,
il te che assapora la vita
e che alla fine non disprezza... ma ringrazia.
La vita cara Adele ti regalera' incontri unici... stai in campana!
Stefania

silvano ha detto...

[commento...purtroppo veloce]
...e pensare che domani dovrei valutare, insieme con un'altra decina di professori il "profitto", i livelli di apprendimento, il comportamento, la "personalità" dell'autrice di questo articolo (ma che brutto definirlo "articolo"!), letto peraltro in fretta, per paura di non avere più il tempo di leggerlo con calma, come invita il professore Salerno, nei prossimi giorni.
Vorrei solo dire ad Adele che ci sarà sempre qualcuno che non si dimentica di guardare le stelle, ma soprattutto che si sforzerà sempre di apprezzare quanto uno brilli dentro!