mercoledì 16 giugno 2010

Estratto da "Gli Autunni di Gürsern"


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"Lucrezia quasi tutti i giorni diffondeva dalla finestra della sua stanza le note del suo pianoforte, come manciate di petali trattenute a fatica da una cesta di paglia nel vento.
Si esercitava da un po’ di tempo, verso sera e con una maniacale e instancabile regolarità, che sfiorava a volte i limiti dell’ossessione e dispensava accordi struggenti nelle sequenze melodiche più svariate, talvolta viziose o troppo manieriste, che tesseva, nel loro piccolo splendore verso l’imbrunire, fin dal suo ritorno a casa. In quei momenti quella donna rivelava una nuova identità, che sembrava riprendere vita da sola, diventando un altro viso fatto di soli suoni, nel maglio di un suo nuovo respiro già stanco e dentro il suo animo i fili sfatti di un giorno di ricamo andato perduto, ancora più opaco di quello precedente. La sua piccola finestra semiaperta si spalancava alle ultime luci naturali della sera, fondendosi con i suoi suoni intarsiati, a volte sinistri e verso i primi minuti i profumi e i bagliori delle lampade più lontane del borgo, della torre dei cacciatori, che diffondevano un’aura giallastra sul gomitolo lanoso delle valli aperte, prima che salisse la luna a calmarne i riflessi.
Rimanevo ad ascoltarla. Disteso sul letto, le mani incrociate dietro il capo,  cercando di non perdere mai nemmeno un sussurro fra gli alberi folti e l'inizio di un altro tema. In quel ricamo di luci lontane e vibrazioni, ritrovavo e perdevo il suono e il sonno incompiuto della mia vita e ancora qualcosa di me, quando a volte sentivo di potervi accedere di frodo, a quell'ascolto così segreto, come se rubato, in quell’assoluta ed indisturbata solitudine di pioggia, che diventava sempre più grande, sera dopo sera.
Quando il tempo era cattivo, la mia finestra rimaneva aperta, per non perdermi i suoi ultimi momenti di studio, o forse di gioco insonne e doloroso. Era ormai diventata una dipendenza, l’abitudine a quella meta dolciastra e graffiante, dove incontrare dal buio i fantasmi delle sue dita.
Di solito le prime successioni erano omoritmiche, solenni distese organistiche, corali seicenteschi. Pareva che Lucrezia dovesse prepararsi il terreno adatto per un impasto successivo di accordi più robusti e fibrosi, con cui sostenere e articolare i tempi sospesi e gli ultimi atti del suo piccolo dramma serale improvvisato, fatto tutto di suoni nuovi e personaggi fiamminghi e candenti di una tela immaginaria, densi di lanterne e profondi manneti nordici, dalle tensioni di luci imprevedibili, da affinare e da sfilare nodo per nodo, dentro lo spazio dolce delle sue ultime trame in penombra.
Qualche volta suonava senza accendere la luce, e il cielo che si stellava all’improvviso, nel freddo che diventava una notte, e Lucrezia che diventava serena e scomparsa, in quella prima fase di preludio che mi riportava indietro, come da una madrina stanca, che mi apriva le tende al mattino con l’aroma di un fumo di piccole colazioni dimenticate, e un riflesso bianco di sole, il filo di una ciocca castana sulla fronte, negli occhi, ancora chiusi da uno stesso sonno.
E adesso ancora la scorgevo, in un bassorilievo di Palmira, deformata dalla violenza del tempo che le scheggiava il naso mentre mi fissava nell’indolenza dei suoi accordi più profondi, che a volte sembravano uscire fuori dal tempo reale della divisione...e della mia vita. E le sue mani non erano più parte del suo corpo, ma filamenti di altro. Un richiamo invisibile, una rifrazione.".
l.s.

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