lunedì 9 gennaio 2012

L'intelligenza della nostalgia. Il cane Lampo e l'azzurro di una notte

Ma quanto sarà più triste degli altri un cane così intelligente? E pensare che questo cagnolino esiste davvero, e ancora me lo vedo con il nero retrò del suo muso. Un cane di amici molto dolci e sereni, che ogni tanto mi balzava davanti sul parcheggio, durante gli incontri di calcio del dopo cena con il mio nipotino che doveva fermare il gioco per far parcheggiare l'auto della padrona in una delle nostre porte da gioco-parcheggio. E la storia che c'era e che non c'era come forse la linea magica dei suoi colori aggiunti e mutati, nelle versioni febbrili e successive che ho spossato.
Potrei averlo rivisto in un disegno scambiato e chissà se lo dirò mai ai suoi padroni della sua vita — e non storia —, di quello che gli sarà successo o del suo orgoglio fantastico e letterario con cui si è distinto e disfatto da burattinaio spleeen della mia voce o assistente pdv. Intanto scopro e imparo, di quanto sia fisico e realistico l'esercizio triste o vitale della mia fantasia in questo strano lavoro o romanzino del buon crepuscolo. Non potrei sacrificarla a quello che vedo e che cerco di intravedere nel visto. Il cane Lampo, non è quello il suo vero nome, mi avrà guardato per una manciata di secondi ogni sera, eppure già si riazzannava della possibilità di un ruolo, in un mio lancio lontano, in un altro luogo ancora. Lo stesso di quando mi persi, ma ero davvero molto molto piccolo, e i miei genitori non mi trovavavano più. Credo di non essermi reso conto della loro angoscia, quando decidevo di seguire su di una spiaggia del Lazio un vecchio venditore di palloncini, che nemmeno mi vedeva per come fossi piccolo e smarrito dietro di lui. E io che sentivo di continuare, non capivo dove mi avrebbero portato quei passi e quanto male stavano facendo a mia madre, che si toglieva gli occhiali da sole e si alzava sulle punte per capire, già stordita e qualcuno che guardava il mare e la sua calma insulare, la ragazza così carina dai capelli corti e con i miei stessi occhi, spaventata a morte, e poi così attenta a non farmi male nella stretta dolce e feroce del ritrovarsi. Avevo circa tre anni, allora...quella sera accompagnavo mio padre all'edicola, dentro la sua mano senza parole, come due innamorati.
A revisione quasi ultimata, l'ho incontrato con la sua padrona, parlo del cane,  meno di un mese fa, in una giornata ghiacciata ma piena di luce, in un parco deserto. I suoi colori veri avevano l'intelligenza delle cose che si amano quando si vedono, perché si avvertono già perse e irrecuperabili quando poi arrivano e si disfano presenti ma già ricolme di assenza. Come in ogni passo del ghetto e dell'oltreghetto sto imparando a scorgere la grande avventura del presente e della sua libertà di perdita — scoperta parallela nella sua nostalgia.
Dopo la chiusura e l'apertura di una certa storia di immaginifico e di presente sfumato, i cani non saranno mai più gli stessi; non sarà più lo stesso nemmeno quel cane e nemmeno i suoi padroni e i loro parcheggi sul nostro campo da gioco delle vacanze e le siepi appena accese di giallo.  Di quel cane ho memorizzato alla perfezione l'andamento, il passo scanzonato, la rincorsa, la striscia di lingua dopo una corsa, il suo spavento e il suo ardore, quanto la sua insolenza e resistenza ai richiami dolci dei padroni, come quelli terrorizzati dei miei, in quella mattina lontana. 
L'intelligenza rara della sua nostalgia.

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