venerdì 4 febbraio 2011

Scrittura di scuola? (Il mio cattivo esempio)

Non credo che si possa mai dire troppo o in assoluto sull'idea di scuola. Parlo in senso lato, sulla possibilità di incalanare un proprio personale percorso dentro un luogo di affinamento, di confronto e di alto e medio perfezionamento. Se l'idea di scuola, in questo caso parlando di scrittura, comporta un affinarsi, non capisco cosa si possa trovare a priori di sbagliato o che non funzioni. Ben diversa è invece quella che io definisco la scrittura di scuola, o meglio per la scuola. Quel tipo di approccio che mozzerebbe il novantasei per cento delle parole di questo primo paragrafo, in nome di una certa visione di purezza scolastica linguistica e formale, a cui dovrebbe soccombere e soggiacere tutto il resto, che senza un certo telaio non esiste. Così come non esisto io, se non ho quel tipo di dinamica. Non esisto davvero, le parole non si possono leggere, perché non ci sono, sono bianche sul bianco. Quello che mi preoccupa è che scrivere per la scuola, ossia esprimersi per dimostrare di aver imparato le regole, di aver assimilato i procedimenti per l'impianto di una struttura solida, consapevoli dei rischi e delle note sporche da evitare, sia un atteggiamento  molto diffuso tra scrittori molto giovani, agguerriti e credo anche molto talentuosi, ma fanatici di editing, di perfezionismi e revisioni, di grandi esplorazioni sul fraseggio, sul respiro, quando credo che dovrebbero invece spaccare prima le pagine a morsi come legna, e scrivere con un coltello tra i denti un occhio bendato e un pappagallo sulla spalla, e che quando qualcosa non torna dovrebbero ingoiare il foglio o dargli fuoco, o scrivere a tavola, al cesso, a colazione, in metro, sulla schiena di un passeggero che ti è seduto accanto, e solo dopo qualche anno pensare ad aggiustare i danni o a chiedere l'assicurazione. Quello che non vedo più è il fuoco, il buon fuoco. Grandi slanci di informazioni utilissime, e sopratutto decaloghi, la macchina del testo: controllo dell'olio, dei filtri e dei freni, della frizione e della cinghia, quando il mio intento è sempre stato quello di fondere il motore per baciare in piena notte la mia compagna di viaggio. 
Quei meccanismi invece sono fondamentali. Ciascuno ha il suo decalogo e ciascuno si consacrerà a rispettarlo e a far sì che qualsiasi scrittore si uniformerà alla loro idea di perfezione o di perfettibile, contro qualsiasi possibilità di anti-stile o di qualsiasi altro anti, e di eventuale rinnovamento o sterzata a quella linea fondamentale di condotta, di contrappunto delle parole in una grande scolastica fuga a una sola voce.
Avverto, in alcuni casi naturalmente, la sensazione di una grande attenzione al fattore giustezza, che divide dal primo attacco di un testo, quello che è capace dall'altro che non lo è. Il giusto dall'ingiusto, lo  scrittore sceriffo dallo scrittore fuorilegge, la stella sulla camicia dall'occhio bendato del pirata dei mari. Non riuscirei a buttare nemmeno due righe se dovessi farlo per una questione di purezza formale di scuola, di ricerca del giusto tempo contro le immense possibilità di una strada buia e sospesa, che è quella che vorrei perseguire. Vorrei  che si includesse nella tendenza scientifica e matematica nell'approcciare un testo, anche dell'altro, anche qualcos' altro che non lo tratti come una macchina ma come un fiume vivo di trote. Sarebbe interessante che si cercasse qualcosa dove perdersi e non dove ritrovarsi. Non trovo altro senso nel mio fare che quello di perdermi. Non so quante altre volte lo avrò scritto, ma tutte le volte che lo dico, lo scrivo e quindi lo sento- una cosa sentita non sarà mai una cosa ripetuta- ho la sensazione che la mia unica scuola sia quella del perdermi. Scrittura del perdersi o scuola del perdermi. Un cattivo esempio.
È tutto.

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