lunedì 22 marzo 2010

Training quotidiano e passivo

A dispetto di tutti i decaloghi, i consigli, le metodologie che imperversano sul mondo della scrittura, penso che qualche pomeriggio in compagnia di mio nipote di cinque anni, mi abbia dato delle informazioni preziose sui misteri della narrazione, sulle tensioni delle unità narrative, sulle tirate e le sospensioni di uno sviluppo, tutte quelle cose che un qualsiasi buono scrittore dovrebbe aver vissuto molto prima in forma passiva, ancora lontano dal suo tavolo e dalla sua penna e dalla volontà di scaraventarle in qualche modo in cartaceo. La scrittura secondo me ha molto poco a che fare con la carta, con i capricci e le raffinatezze di alcuni piccoli o medi o grandi editori, abituati a volte a storcere il naso e aggrottare la fronte a ogni minima virata o sperimentazione, e che vogliono -in alcuni casi - rispettare la classica situazione  dei  sette, otto o nove minuti limite, oltre i quali deve succedere qualcosa di assolutamente nuovo e sorprendente senza lasciare mai vuoti e che ormai regola gli ingranaggi serrati della fiction -e lì potrebbe anche starci - e anche di molto altro, come se il pubblico fosse costituito da salme o da eserciti di svenuti a cui inumidire le narici con pagine imbevute di solo aceto e salti mortali nel vuoto e senza rete. No, signori cari, a me tutto questo non interessa, a me interessa la vita e il mio modo di sentirla e di viverla con i miei occhi, senza il terrore che qualcuno possa non capirmi o fraintendermi. In tal caso pazienza; perché il mio linguaggio è il mio occhiale anche storto e deformato da una ruota, sulla mia idea della vita, il linguaggio di una mia esperienza profonda e non di quella di un altro o di un modello estraneo e assoluto su cui uniformare il mio percorso privato ed esperenziale. Se qualcuno non mi capisce perché forse io sono un idiota o un incapace sprovveduto o un matto grafomane -a questo punto dovrei dubitare molto anche sulle coraggiosissime scelte editoriali che hanno consentito a Josè Lezama Lima, a Carlo Emilio Gadda (Garzanti nel caso del romanzo di Gadda, era molto giovane all'epoca) di pubblicare rispettivamente  Paradiso e  Il pasticciaccio e- non c'è alcun problema: cercherò di far tesoro della mia idiozia sperando che qualcuno mi spieghi perché si continui a parlare dovunque di surrealismo senza avere la minima idea del contesto storico e delle origini- questo rimane ancora un mistero- e perché ancora si confondono Dylan Thomas con un giocatore di baseball e i crepuscolari con una setta satanica incappucciata che gira imperversando nei cimiteri di campagna, allora sarò davvero un idiota, forse è proprio così che stanno le cose.
Con mio nipote invece -tornando alle cose serie - sono sempre maledettamente  in mare aperto, in uno di quelli profondi di Conrad o di Melville, perché è ormai abituato a giocare con le storie che gli invento al momento e che tutte le volte che arrivo gli devo sfoderare e poi mimare i personaggi e dare dei ruoli precisi anche a lui che catturino al massimo la sua attenzione e che lo rapiscano con me nell'assurdo delle situazioni che devo mutare all'ultimo momento per spalancare ancora di stupore il suo sguardo, con un imprevisto, una grossa capriola di fuochi e incantesimi nella sua vita, che lui ricorda per giorni e me li descrive dopo tempo e io a volte non li ricordo neppure più,  e lungo il ritorno a casa si accendono quelle storie strane e fumanti anche nella mia vita, quando ritorno a tutto quel carburante speso che lo ha reso felice e ci ha dato un senso a entrambi, anche se per un pezzo anonimo di pomeriggio invernale. Comunque. Al di là di tutto il detto e il non detto, questa è la mia idea discutibile assurda o perversa di scrittura.
l.s.

0 commenti: