sabato 8 giugno 2013

Urbancreactivity: il sogno, l'amicizia e una città.

Esistono moltissime persone abituate a tutto quello che hanno, ma soprattutto compiaciute. Ne sono  compiaciute dal momento che lo credono assolutamente meritato, come qualcosa che gli spetti di diritto, e sui visi di chi si compiace di quanto ha per quanto sente e crede di meritare, scorgo sempre quella traccia di crema che sporca un lato delle labbra, la sazietà, ma soprattutto la mancanza di stupore e di sorpresa per il tutto. L'indifferenza e l'abitudine al ricevere ciò che sia giusto come qualcosa di naturale, di dovuto.
Sono molto preoccupato per questa crescente anestesia, che si dirama nei cuori e nei pensieri, sia nelle relazioni umane, ma anche nella ricezione delle forme espressive: la mancanza assoluta di stupore. È qualcosa di molto intenso e silenzioso che attraversa molti visi che osservo, molti profili artistici, sia nella rete che nella vita: il compiacimento di fare, che giustifica il fare: senza stupore, sorpresa, spiazzamento, emozione. Tutto è normale, funziona così, legato a una propria tentacolare economia di suzione, e a un proprio impeccabile apparato ingegnoso che depone e cova le sue uova piene senza tregua e senza cuore.
Nella mia vita, fin da bambino, sono stato abituato e dispiaciuto per tutto quello che non ho avuto. Non voglio dire di essere stato trascurato o infelice – nella mia famiglia sono stato colmato di amore, informato sull'amore, nonostante i dolori, le complessità, gli ostacoli –, ma sono vissuto sempre un po' nell'ombra, come invisibile o inesistente, forse poco accomodante o cerimonioso per i gusti di un certo mondo a cui mi accostavo. Un bambino dolce e silenzioso, abbastanza timido, introverso, emotivo, che c'era come se non ci fosse. Non ho mai avuto moltissimi amici. Soprattutto quando ho cercato delle mie strade espressive, c'è sempre stato quel buio intorno, quel gelo costante, come se in fondo le mie possibili strade non dicessero così tanto di me, non fossero nemmeno me, o comunque in ogni caso non fossero così importanti, dal momento che nemmeno io ero così importante. Sono quindi stato abituato non al compiacimento, ma all'adattamento a questo continuo ridimensionamento di tutto quello che esprimevo e che ero, come se non avesse tutta la luce e la risonanza che invece avvertivo dentro, come una febbre che non passava mai, ma al contrario, l'opacità di un paesaggio nordico e forse anche troppo complesso, senza ombre e senza luci, asettico, quasi invisibile, brumoso, con quel sole bianco e delittuoso sotto il cattivo tempo, che non riscalda ma che divora i visi. 
E tutte queste circostanze di indifferenza, mi hanno reso ancora più timido, introverso, insicuro, inadeguato rispetto a tutto quello che sentivo e che avvertivo grandissimo, ma che alla luce del sole ritornava piccolissimo, se non ridicolo. Mi sono abituato a non sentirmi mai all'altezza di qualcosa, ma alla bassezza. Io sono una persona che non si sente all'altezza, ma si sente appena alla tenerezza delle cose invisibili che avverte e che vede, di quelle che forse avverte e vede da solo.
La sensazione di non essere compresi spesso si associa con quella del non sentirsi amati. Ho amato molto, però, questa dimensione di estranietà al compiacimento, estraneità alla bocca sporca di crema di chi si nutre con indifferenza di tutto ciò che ha e che riceve, come se non lo avesse e non lo ricevesse, in questa sazietà e tenebrosa indifferenza per quello che gli si offre. 
Ho amato e amo questa dimensione di leggero annebbiamento, quanto ho amato essere una persona appartata, dal momento che mi fa stupire moltissimo il ricevere qualcosa di grandissimo: come mi è successo in questi giorni, in relazione al progetto Urbancreactivity, un'indagine poetica sulla città di Perugia, progetto innovativo e spaventosamente bello, ideato da Beatrice Ripoli e Valentina Renzulli, due attrici e registe di Fontemaggiore, della Scuola di teatro Mutazioni.
Questo qualcosa di grandissimo riguarda il fatto che una mia semplice introduzione augurale, scritta per Beatrice senza nessuna pretesa o ambizione, ma per il solo piacere di essere vicino allo spirito di un' impresa importante e comunque difficile e coinvolgente per il suo percorso di artista e di donna, sia comparsa in diversi punti introduttivi della presentazione, per stessa volontà di Beatrice, sul suo manifesto introduttivo, in altre zone del sito del progetto di Urbanact, come per un miracolo. Ma cosa, mi sono detto, non capisco...e quello che mi commuove ancora e che non mi spiego, semplicemente perché non sono abituato e non mi abituerò mai a ricevere tanto. Per cui non ne rimango compiaciuto ma rapito,  senza capire niente, per mia grande fortuna.
Questo post vuole essere una sorta di flebile ringraziamento per aver ricevuto tanto e senza aver capito, attraverso un mio gesto così piccolo, che quasi temeva di disturbare e, che  a dispetto di tanti altri miei gesti piccoli e invisibili, in questo caso, invece di essere ridimensionato, è stato amplificato, irradiato di quella sua luce, che non immaginavo potesse rievocare.
In tutto quello che io faccio e che vivo, c'è sempre questa tendenza a sentirmi un po' di troppo, a temere di alzare la voce quando qualcuno sta leggendo altro, o forse riposa o sente la radio, di invadere un certo territorio già occupato. A non avere posto, spazio. 
Ma invece, con questo gesto così intenso e commovente di Beatrice, mi sento come se avessi ricevuto un invito da una compagna di classe lontana, arrivata dal nulla, da una scuola mai frequentata ed esistita, attraverso cui ritrovare e recuperare quel coraggio e quella sicurezza che forse credevo perduti, attraverso il sogno dolce di un'amicizia e di una città...

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