martedì 4 giugno 2013

Sui processi di finzione

La finzione non è un apparato troppo complesso, ma in diversi casi è inafferrabile.
Occuparsi in qualche modo di finzione, pur non comportando l'ingegneria delle attività di  non finzione, ha bisogno di una direzione molto intima di un proprio moto reale, in un certo senso una sua predilezione.
Il reale non potrà essere mai troppo scisso dalla finzione, e viceversa. Nulla di nuovo, quindi.
Se dovessi scrivere una qualsiasi storia scorporandola del tutto da un contesto reale e di intimità con la mia vita vissuta da sveglio, che mi appartiene, in quel caso opererei un inganno. Questo perché vorrebbe dire escludere dalla narrazione, l'intimità della finzione legata al mio stesso reale, la finzione legata alla mia intimità, alle mie sensazioni, ai miei sogni, ai miei rapporti con gli altri, con quello che vedo o che credo di vedere. Nel senso che la mia realtà è anch'essa ammantata di sogno, di nebbia, di mistero, così come il mio intento di ingegnarmi in un'opera di finzione.
Non tutto ciò che si è vissuto, che quindi è testimoniabile da più fronti, da persone vive come me, che possono quindi ricordarlo, certificarlo, è assolutamente e solo reale. Lo sarà in parte, ma avrà anche una sua dimensionalità intima e delicata di finzione, di sogno, di sospensione. Questo confine è davvero molto labile, e, parlo nel mio caso, è legato al sapore e alla rievocazione che comporta l'accadimento di una certa realtà, in tutto quello di me che ancora non so e che lo assimila, lo elabora e lo diversifica nell'ombra del suo riflesso. Ed è con quella parte di me che ancora non so, che incomincio di solito il viaggio; è proprio con quella parte riflessa che non so, che non so quindi se viva, reale, testimoniabile, certificabile, che mi accosto alla mia realtà, non solo nella sua investigazione, ma anche nella sua suzione, o fruizione, per sentirmi vivo. Mi sento vivo più per tutte le cose che non ho fatto o che non ho sentito reali nel farle, che per tutte quelle conclamate come realizzate, quindi reali e testimoniabili. Mi sento in forse se quello che ho vissuto l'ho sentito davvero, quanto quello che non ho fatto, che non ricordo di aver fatto con quel sentimento di stare in vita o in coscienza, che di solito caratterizza il movimento e le dinamiche di chi realizza qualcosa di vero e di reale. Io a volte sono abbagliato da una linea tenera di confine, dove tutto un po' si mischia, come una figura che mi balugina a riva, con il mare e i riflessi del sole sull'acqua alle sue spalle, in controluce, senza svelare il viso  ma riconoscendo che il suo braccio sta salutando solo me.
Quando vivo non sono soltanto vivo, e quando fingo ho molto del mio reale e quindi della mia finzione misteriosa che è legata al mio reale e che non afferro mai del tutto.
I miei sentimenti sono reali ma insieme nascosti; quelli che utilizzo per sorridere, per scrivere un racconto o a un mio grande amico/a, sono parte e insieme non parte di me. Non mi sento di essere in possesso di qualcosa. Mi piace che sia io a essere in possesso di una certa dimensione che mi sospende nell'intercapedine dei due stadi, dove spesso è bello perdersi senza sapere dove comincia e dove finisce il film.
È per questo che un qualsiasi processo di finzione, pur non comportando la complessità di certe attività, rimane qualcosa di inafferrabile, che spero con tutto il mio cuore di non svelare e di non afferrare mai.

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