martedì 4 settembre 2012

Il passaggio a casa

Quando non si scorgono più altre possibilità di ritorno, non ci sono più taxi, autobus o tram. Nel buio, la città che ventila si fa più grande, una lunga automobile si accosta (una lunga automobile temibile: a quell'ora), il conducente abbassa la testa, la storzella, ma il suo viso è ancora in un' ombra, non come il nostro che siamo in piedi e forse speriamo che sia qualcuno che ci conosca o che ci riconosca, semmai dalla pettinatura, dalla forma del naso, dal tipo di espressione, di sguardo; se donne dalla gonna troppo corta o più lunga di come si ricordava un tempo, dalla pronuncia del seno dal cappotto aperto, se la loro mano non arrivi prima degli occhi a rimediare l'impaccio e a ricomporla, come la carta di un regalo. "Non credo di ricordare", si potrebbe appena sussurrare ma quel viso non chiederà e non risponderà mai altro o nulla di relativo alla nostra impacciata sequenza irreale e comparsa, nemmeno quando saremo già sopra e diremo: "Dove sta andando, per favore? Non è questa la strada!". Ma le ombre sono sempre dell'abitacolo, lo stesso dove suona un filo triste di musica. Non c'è nessuno oltre all'autista, al suo rigo lieve di fumo e di mistero, per un passaggio a casa o all'inferno, (questo non è mai sempre troppo prevedibile, anche dal passaggio di una persona nota). Questa è la dimensione che incontro ricorrentemente quando scelgo di cominciare a scrivere: prendere un passaggio a casa da qualcuno che non conosco, e salire sulla sua lunga "automobile temibile" verso un mondo oscuro e disordinato, boschivo o profondamente campestre, cittadino ma che mi fa lontano. Da uno sconosciuto che credo di riconoscere, di avere intravisto da qualche parte, o che spero in qualche modo mi accolga, mi conosca o mi riconosca, da un dettaglio impercettibile, dalla bocca sporca, dal naso, dal sorriso o da una ferita. Ma anche di scrivervi dentro, tentennando, sbattendo i denti dalla paura più nera: "Per favore, mi dice dove sta andando, è molto tardi, signore!", lo sforzando che da quell'ombra si dipani un tratto appena più familiare, di qualcuno che mi dimostri un passato di confidenza e di sicurezza, un amico in comune, il fratello di un grande amore o di una compagna di classe, quando i tratti a quell'ora vacillano, figure stanche sull'acqua, il familiare e il più noto, l'ignoto e il tenebroso sono contorti in un solo unico drappo scucito. Soltanto così so incominciare e incamminarmi, con la mia strada verso casa bene impressa e memorizzata, ma con lo strumento per raggiungerla del tutto sfalsato e scordato da ogni sistema temperato, da ogni logica plausibile. Di scrivervi ancora dentro o sulla soglia ancora umida di un altrove, quando lo sportello è già aperto e non trovo il coraggio di rivelare diffidenza e coraggio all'ombra che mi fissa dal basso, (temere la reazione di chi potrebbe osare l'inverosimile per un rifiuto, una scortesia) d'altra parte non si avrebbero alternative a quell'ora della notte, l'ora di quando inizia una certa storia, un incipit tremolante di un verso, è sempre strozzata da un odore dolciastro di notte fonda. Il cielo si fa del colore dello zolfo avvolto da nubi color uovo marcio, comincia a piovere, è scoccata la mia mezzanotte, in un film muto d'amore o dell'orrore. Le luci rosse dei ristoranti di lusso, le risate lontane dei pochi clienti, "c'è qualcuno che mi stava aspettando?". Di scrivere ancora dal sediolino spostato in avanti, delle sigarette spente marcate da un'altra bocca, dell'odore di menta, di wafer, di acqua di colonia: il rumore di un vetro infranto da una finestra vicina, c'è qualcuno che potrebbe chiedermi aiuto, ma sono io che infrango e che annego, nel buio di quel passaggio a casa, una donna molto anziana si affaccia e coglie il segno di una mia mano, ma subito si ritira. Dell'odore che c'è nell'auto, ma soprattutto nello spavento della direzione. La strada percorsa con tutta la sua direzione, adesso è del tutto ignota, quanto l'identità ombrata dell'autista che mi guida, senza guardarmi, e senza tradire di conoscere nulla di me e della mia destinazione, anche se lui potrebbe conoscermi a sua insaputa e sapere cose di me e della mia strada, che io non penso possa mai conoscere, dal momento che non (ri)conosco altrettante cose di lui, - anche se mi offre da fumare solo con il gesto di una mano - vorrei dire qualcosa ma la lingua si è bloccata. Gli occhi sbarrati contano i chilometri della distanza, le strisce delle ultime case prima degli sterrati, dei solchi interpoderali, il tratto erroneo e non meditato diventa il solo vero tragitto. Lungo questo tragitto il silenzio e in questo silenzio casto e di rottura, cova la stenosi di quel mio passo obbligato di libertà e di spavento, quando scelgo di cominciare, nel buio: immaginandone già le giuste distanze, i profili, le esposizioni alla luce della notte: della propria stanza chiusa, del proprio letto ancora fresco, della propria porta di casa, dei propri cari, che si fanno sbiaditi e sempre più lontani, (effetto flou) come quel viso che ancora mi guida, senza respiro, sempre più sicuro nelle svolte, anche adesso che lo riconosco come il mio viso, ma anche in quel caso non sarà più concentrato sulla mia la direzione ma sulla mia identità. Identità e direzione di scrittura. Così autista e passeggero in molti casi sono gli stessi, avvolti dalle stesse penombre fitte dello stesso abitacolo che prosegue lento, nel suo palco vuoto. Lo stesso tipo di ignoto. In una storia e nelle dinamiche confuse del suo assedio, i visi di chi conduce e di chi è condotto spesso si convertono e si invertono in un gioco strano e indefinito di specchi opachi o di ombre cinesi, tra necessità di ritornare a casa e necessità di trovare altrove una propria identità. (Scrivere di questo è molto di quello che mi spinge a tentare). Quello di cui mi accorgo, è che in un qualsiasi processo, si ripercorre sempre una nuova strada, con lo stesso passaggio a casa diretto altrove, preso di foga, senza pensare al pericolo, o anche alla sorpresa, (per le donne e per le ragazze le mani tese sul bordo delle gonne, non appena sono riassestate sul sediolino alla luce di un altro sguardo diretto e troppo estraneo su di un ginocchio troppo scoperto; la paura come un vento di galleria che trema nei collant, nelle braccia chiuse, ogni palmo sul gomito opposto per il freddo). Scrivervi dentro senza più sapere il mio indirizzo, ma con la speranza che anche una sola persona al mondo, attraverso quel percorso muto di una notte, ritrovi per puro caso il filo d'ombra del suo passaggio a casa, almeno l'odore, e non più del mio. Questo sarà l'unico senso possibile dell' impossibile nel "batticuore dell'avventura" dell'ingresso nella lunga automobile temibile, che diventa il momento più intimo e clandestino di tutta la mia vita, da quella sequenza di attimi scriventi e del loro primo attrito fino all'ultimo battito, quando non si scorgono più altre possibilità di ritorno.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

372.....che batticuore, quale implosione d'inquietudine produce questo passaggio a casa... Del resto, come potrebbe essere diverso quando è di notte e si è fatto tardi, troppo tardi.
Io ho imparato a ritornare a casa in bicicletta, dopo una lunga notte di tango. Attraverso il paesaggio urbano con il mio mezzo affidabile, pedalo piano e osservo: la strada davanti a me nera come un nastro d'inchiostro nero, specialmente se piove. Le piazze deserte. Gli uomini soli quasi sempre ubriachi. Le macchine nere ---temibili, sempre. Filo dritta a casa, ma a tratti mi fermo ad osservare il silenzio, inaudito in città. Ecco, il mio "passo obbligato di libertà" incomincia a casa: sta qua tutto il disordine, il boschivo, l'incolto. Tengo sempre il cuore a due mani mentre con gli occhi chiusi scrivo.
Veramente un testo molto vibrante.

Grazie.
rosaturca

luigi ha detto...

Il tuo commento è ciclistico e sognante,scritto ad occhi chiusi, verso sera.
Grazie sempre a te...
l.s.