mercoledì 26 settembre 2012

La libertà dell'insicurezza

Temo che oggi sia in agguato una codifica ricorrente sul buon creare, sul creare sicuro, senza esitazioni, con i minimi consumi, trascinata poi, da quel seme, a tutti gli aspetti successivi della tessitura, che in molti casi risulterà disarmonica con chi la vuole fedele a quel certo standard di efficienza, fin dai suoi primi palpiti, o stadio di invisibilità. Mi sono accorto che in diversi contesti, non si cerca la particolarità di una voce, ma la sua telepatica sensibilità di uniformarsi a mondi espressivi preesistenti, performanti e precostituiti per grado di efficienza e omologazione a un certo standard di sicurezza, anche se poi questi mondi non appartengono allo scrittore, (come mai potrebbero?), e che lo stesso scrittore dovrebbe quindi intuire fin dall'inzio di una sua idea embrionale, a discapito di tutti quelli che faranno parte di un suo sfondo e di una sua urgenza di parlare o di rompere con gioia e con dolore il ghiaccio del suo mutismo.
Avverto nell'aria quella tendenza alla ricerca della rassicurazione a tutti i costi, del ben fatto, prima di andare avanti col polso fermato da un altra mano; questo fin dai primi passi, quando credo, invece, che nel momento di un incontro con qualcosa di intenso da dire, si sarà sempre e fortunatamente soli al mondo e insicuri. Brancolanti nelle proprie ombre, (ma non in quelle di qualcun altro).
Dove si ripone il pericolo della sicurezza acquisita e custodita all'origine del primo gesto creativo o tentativo espressivo? Nel fatto che nel momento che ho un foglio tra le mani, avrei così tanti ospiti e comizi di piazza ancora presenti e formicolanti nella testa, da perdere di vista la mia esistenza di quell'attimo e di quello che io ritengo esprimibile della mia vita in quel frangente, che non dovrebbe corrispondere a qualcosa di giusto o di corretto, ma di aderente alla priorità psichica e/o spirituale di quell'istante selvatico che non ha ancora logica, materia o regole predeterminate, ma che sarà la radice di tutto quello che avverrà poi.
Dice Mario Vargas Llosa: "...nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt'al più può insegnargli a leggere e a scrivere. Il resto, ognuno lo insegna a se stesso inciampando, cadendo e rialzandosi, incessantemente".
Quando penso di dare un senso a quello che tento di esprimere e di imbrigliarlo, ancora prima che il cavallo parta, mi sento come un fantino condannato a frustarlo nel sonno, o da fermo, mentre si nutre. Avverto quindi il pericolo di una tendenza automatica alla dottrina dell'efficienza, che può avvenire anche alle proprie spalle. Quando non ho nessuna garanzia che domani scriverò una sola riga, buona o cattiva che sia. Non ho nessuna garanzia che non diventi di colpo muto di parole, di sensazioni e di idee da comunicare, anche una volta salvato questo post.
Ma questa mia insicurezza sarà anche parte viva della mia voce, della mia fucina. In questo confine delicato mi ritocca mettermi in gioco e cercare una strada nell'intercapedine tra lo stadio del mutismo e quello del primo attacco di suono, uno sblocco, cercando poi di articolarlo e di trasferirlo in più parole, nell'atto doloroso-gioioso del parlare (vedi il bellissimo intervento di Alexander Cistelecan su "La poesia, qualcosa che non si può leggere"). 
Quando poi avrò scritto, descritto, riscritto e parlato, combattuto il primo stadio del mio mutismo, allora tutto potrà accadere. Ci sarà il tempo perché qualcosa accada, si modifichi, si migliori, si distrugga, si approfondisca, in gran parte dei casi ci deluda, magnifco anche così, non è successo niente, almeno ci ho provato con le mie forze. Ma il momento o "tramite" tra l'ultima striscia di silenzio e il primo flebile sussurro, andrebbe protetto da ogni dottrina acquisita o attitudine e abitudine creativa di qualcun altro, anche del più illustre, secondo me:
c'est tout.

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