sabato 8 settembre 2012

L'azzurro della notte: appunti e stralci (Parte II)

Non vedo solo crudeltà gratuita nel rituale del Corsi, ma anche l'arabesco di un desiderio atavico più complesso, la ricerca di un ruolo, della stessa urgenza e tragicità di quel ruolo del buono scrittore che il professor Plamf ha appena perduto e che sta cercando di recuperare. La pulsione e la tensione al desiderio di Corsi non è poi così lontana dalle vecchie pulsioni di accudimento che un tempo innamoravano il professor Plamf nella sua infanzia "Per una sola notte, che male vi fa...". Che Plamf ha ormai tutte dissolte, con il tempo e con la maturità, inseguendo un ruolo fantastico e creativo irrealizzabile, quanto frustrante. Corsi, al contrario, le ingloba nella nevrosi di un possesso demonico e affettivo, proseguendo nella direzione opposta, verso l'involuzione e la circuizione piscotica, nei passaggi lenti e toccanti del concerto d'opera alla radio, nei vetri tremolanti della cristalliera, poco prima di cena, durante l'acuto tremendo di un grande soprano. 

 Romilda appare e poi scompare, come un soffio di vento o al cuore, il fumo da una coperta, un fantasma dietro una finestra appannata. Riapparirà in una piccola rivisitazione o monologo del Corsi, immobile su di una poltrona, ma senza musica. La radio è al minimo. Le mani screpolate, come unico reale colore e accessorio,"il sorriso fioco del mal di cuore". La sua assenza diventa parte viva di quella casa, di quelle altezze soffocanti dei soffitti. Dei suoi echi notturni nelle stanze vuote. L'assenza copiosa del materno, ma in primo luogo per Corsi.

 Scrivere disegni o di sogni. Una flessione semantica nelle grinfie di un cane meticcio. 

 Corsi guata e guasta. Gusta l'oggetto guatato e guastato, come Lampo il latte nella ciotola della prima notte, con la sua lingua bandiera. Mentre Plamf sfiora le pagine nelle sue ombre, prima di crollare di sonno, senza addentrare e addentare né leccare la sua stessa patina di verosimiglianza e irrealtà. Il pattinaggio come pulsione di libertà e di sogno. Così il passo trasognato della ragazzina nei viottoli del ghetto bagnati da luce celeste. La trafittura come pulsione e ragione di potere e di volontà limitante su chi si ama e si protegge contro la pericolosità del suo relativo immaginario. 

 Il ghetto ebraico e l'oltreghetto come quinte di un piccolo palco d'opera di provincia, ma dalle scene spoglie, inquinate di luce notturna che si sposta sempre di più verso il grigio, come in un crescendo imploso (il perla dei pantaloni del Corsi, lungo il corso Praga). Così la scrivania di Simona, ingrigita d'infanzia. Le matite colorate che si mischiano con le tegole e con le lucine accese dalle finestre di fronte. Il cappello e la sciarpa sulla sedia, come se utilizzabili da un momento all'altro, non riposti ma appena disposti e disponibili, provvisori verso un possibile improvviso di cattivo tempo, una calata di gelo. Così i figli della vecchina Sirenti, le loro caviglie dal balconcino in rosa dell'oltreghetto, in uno dei loro turni più dolci di veglia e di lettura, in attesa che qualcosa accada o non accada. Sarà forse anche questa una delle chiavi (anche del leggere e dello scrivere): la chiave magica.

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