Scrivo questo post a pochi metri da una quercia selvatica. Ne avverto il respiro legnoso, l'attacco del vento come un cane snello di riporto sul braccio scoperto nella manica ancora corta, quando vorrei che questo vento in qualche modo arrivasse a qualcuno, così la temperatura bassa del mio polso, il bordo della tenda che mi sfiora il gomito nel buio.
Da lontano, osservando una casa abbandonata, ho la mia finestra spalancata davanti al mio tavolo da lavoro. Davanti alla casa abbandonata c'è un albero. Davanti all'albero c'è un lampione che emana una lucina giallastra. Domandarsi poi del senso di abbandono nel calarsi tombale in un certo linguaggio e di intrattenersi, da incoscienti, come una mosca sul bordo glassato di un bicchiere. Di non lasciare che questa luce giallastra e inutile, questo albero, questo lampione dal bagliore dorato, rimangano svuotati, nel loro pieno attrito col naturale, nel loro sforzato o senso in apparenza antieconomico, primitivo, atavico. Lasciare che le cose respirino da sole, senza essere dette o percepite dalla rudezza di un mio intervento diretto, da una mia minima tensione o lasciarmi percepire appena dal loro bisturi, ma da sveglio, e rimanere ancora in piedi l'oggetto di quello che vedo e di quello che sento e che patisco nel vederlo. Descrivere la delicatezza di questo stato scarno di cose, significa morirne.
A volte rimanere vivi per il tempo che tutto questo si disveli attraverso l'appannarsi del mio occhiale. Cercarsi e arrampicarsi attraverso il già visto e l'indescrivibile. O il non ancora visto e accaduto, sarà poi questo il punto perfetto e rarefatto, l'intercapedine o snodo di vagina dove nasce una storia, o il suo odore di mattina presto e di bruciato, la sua carezza sulla guancia di chi dorme ancora quando sei già in piedi. Non più nel suo accadimento ma nella sua stasi, nella sua sospensione inoperosa e feerica davanti a tutto quello che accade.
Mi sento dentro che scrivere di qualcosa non è annotarla o forzarla verso una staticità funzionale, performante e metodica. Ma è lasciare la quercia selvatica, il mio braccio scoperto, la casa abbandonata, l'albero e il lampione, parti indipendenti e vive, inutili: note e controllate dalla e attraverso la mia assenza, senza alcuna forzatura seriale. Autonome; a pochi metri o galassie da me, ma interne e congenite, come un soffio al cuore.
Virginia Woolf a Gaza
3 ore fa
2 commenti:
Nel mondo in cui alcuna cosa esiste senza apparire, senza venire percepita da qualcun altro che ne conferma così l'esistenza, poter vivere al contempo la separatezza irredimibile fra la distesa di sabbia e il mare, fra il mare e il cielo e fra ognuna di queste cose e noi fa dell'esperienza poetica proprio quello strumento d'elezione per poter concepire, abbracciata già alla distanza, anche quest'intima nostra congenicità del mondo.
Confortante condivisione.
rosaturca
Molto bella! Ispirata e ispirante. Grazie dell'arricchimento e della sensibilità.
l.s.
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