venerdì 2 dicembre 2011

Sull'obbligo di esprimersi

Se oggi mi fermo a pensare, dalla finestra sento e vedo la pioggia. La stessa che attraversa il mio desiderio di comunicare e di esprimermi attraverso le mie parole. Le mie parole sono le mie nuvole. A qualsiasi grado di profondità, di dottrina e di competenza, avverto il pericolo di essere annebbiato dall'illusione delle mie parole da dire a tutti i costi. Nel sentirmi obbligato da un fantasma lontano, a doverle mettere in riga e propinarle ad altrettanti fantasmi, che non sanno nemmeno quello che dico. Che non sanno, che non sentono, che non capiscono di quello che dico e che non dico. Che non vivono quello che dico.
Non voglio sentirmi lo scudiero di un discorso lungo e incompleto, e mettermi in una fila interminabile di matti, perché la nuvolaglia delle mie parole si faccia chiara con una saetta gialla, o con il rutto bovino di un tuono. Credo che non abbia senso quello che penso di desiderare, attraverso il mio linguaggio. Quello che penso di desiderare non è la stessa cosa del desiderio di un linguaggio. La costruzione di un linguaggio è il filo spinato di un'esistenza in perenne combustione e discussione, o anche l'accesso a un nuovo spazio di libertà, se si parte con il passo giusto. Credo di provare nausea per quello che ho desiderato fino a ieri, delle mie parole nuvole, senza lampi. Del loro valore relativo, e della relatività di tutti gli incidenti e le incidenze che potranno incontrare nel loro vapore. Optare per un cambio di gestalt. Oggi la comunicazione è un grande prato notturno, illuminato a giorno. Mi sento soffocare nella lana viola del gregge color neon. 
Desidero un nuovo silenzio. Una luce notturna. Temo che le parole a cui mi addestro e che sto truccando per renderle tollerabili e commestibili, mi allontanino dalla mia vita. Non ha senso esprimersi per rotte ortodosse. Credo che la nausea mi sta aumentando. La nausea del desiderio di scrittura per la scrittura, che è il più grande maleficio che possa abbattersi su una sensibilità creativa. Come chiavarsi una donna per le sue scarpe e la sua pettinatura, e non riconoscerla più, dopo due ore, dal cambio di calzatura o di parrucchiere.
Non credo che sia importante diventare bravi nell'uso delle parole. Nemmeno eccellenti. Conta invece lo sfondo: cerco l'urgenza di un grande teatro, attraversato da spire di vento dalle quinte, dove poter attorcigliare paragrafi ai brividi di una prima. Di un'eterna prima.
Non credo che la bravura mi mozzi la nausea che preme nella mia gola, dallo sterno. Ho l'urgenza di riconoscermi in quello che faccio, attraverso quello che sente il mio fare, e non per quello che il mio fare mi dice attraverso le rotte degli altri. Voglio scindere l'attività dello scrivere dallo scrigno angusto di una maratona, per ritrovarmi con la mano sepolta nel fianco e il fiato spezzato. Preferisco una corsa vera e viva.
Vorrei avere il coraggio di azzerare ogni traccia. Vorrei cominciare ad azzerare e non a creare. Quando avverto la nausea, vuol dire che le parole stanno marcendo dentro, e la scrittura putrefatta attira larve di mosca carnaia. Non voglio scrivere dentro i vermi. Ho bisogno di recuperare una purezza e una tenacia, che mi scalcino via il disgusto che preme. 
Mi auguro di rimanere sopreso dalla nausea e dall'inquietudine delle parole per le parole, e di non realizzarmi attraverso un linguaggio, se questo non accenderà camini o non spaccherà vetrate.
Ha smesso di piovere. 

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